Il casco, elmo del nostro tempo

18 Aprile 2014

Il casco è un oggetto, più che resistente, rude. Ha modi bruschi, violenti, visibilmente spietati. La sua costituzione materiale – durezza, levigatezza, uniformità – lo rende ottusamente immune alle botte, che, supereroe senza volerlo, riesce a prendere senza sentire alcun dolore né, per presupposto, provarne troppo umana paura. In questo, ammettiamolo, il casco è stupido, intelligentemente progettato per esserlo: va in giro comunque e dovunque, senza obiettivi, senza perché. È monotonamente uguale a se stesso, non si mette in gioco, non ha programmi, idee, sentimenti, emozioni. Non ha corpo. Per di più, in nome di quell’avvolgimento epico della testa di cui è protagonista, non da re coronato ma da soldato semplice, si fa gelido strumento di una totale cancellazione delle differenze fisiognomiche. Col casco siamo tutti uguali, ci assomigliamo per grado zero, livellati in basso da una sorta di cieco potere che ci ha reso, piuttosto che invisibili, tristemente banali. Che, in moto, sia obbligatorio per questo?

 

Designer e stilisti d’ogni ordine e grado hanno provato più volte a renderlo un accessorio di moda che accompagnasse, più che la guida su due ruote o le sommosse da reprimere, l’abbigliamento personale, vuoi quotidiano vuoi straordinario, partecipando alla costituzione, trasformazione e restituzione del nostro agognato look, tanto estetizzante quanto identitario. Abbiamo visto caschi con orecchie, corna, parrucche o pellicce, caschi con disegni, colori e decorazioni d’ogni tipo, caschi cervello e caschi culo, caschi personalizzati con nomi di fidanzati o numeri di telefonino, caschi teschio e caschi blu, caschi anguria e caschi coccodrillo…

 

 

 

Ma, alla fine, si tratta di cose ridicole, di quelle che strappano un velato sorriso al primo impatto per poi generare, inevitabilmente, noia e imbarazzo. Don Chisciotte, si sa, riuscì a promuovere un bacile da barbiere a elmo, con un gesto che è insieme matto e creativo, ma certamente non scemo. Il casco sembra proprio il contrario: nonostante ogni sforzo per cambiarlo, resta caparbiamente ciò che è.


Niente di strano dunque se, e bastava pensarci un attimo, invertendo le parti il casco non è tanto uno che prende le botte (o, meglio, che può prenderle senza tema) ma anche e soprattutto uno che le dà. Con la medesima mancanza di idee e sentimenti. Con un’identica, ottusa ostinazione verso il nulla. Anche perché, come sarà già chiaro, non è dell’oggetto in sé che stiamo parlando, il casco ontologico dei filosofi, ma di quell’ibrido al tempo stesso umano e non umano, soggetto e tecnologia, individuo e rete che è l’uomo-con-il-casco, sorta di fatticcio, per dirla con Bruno Latour, che ritroviamo in alcune situazioni molto specifiche con tutte le tipiche, prevedibili conseguenze del caso. Si narra che gli atzechi rimasero a bocca aperta alla vista, non dei cavalli, come comunemente si dice, ma di quella feroce macchina da guerra che era l’uomo-con-armatura-e-a-cavallo. Non avevano mai visto nulla di simile. Pensarono a un dio. Persero un regno e una civiltà.

 

Analogamente funziona per il casco, accessorio che se non riesce a diventare di moda è forse perché, in molte spiacevoli circostanze, non va mai in giro da solo ma è parte integrante di quel complesso dispositivo che è l’uomo-non-soltanto-con-il-casco-ma-anche-con-giubotto-antiproiettile-e-manganello. Dispositivo che, fra l’altro, si oppone a un altro, nei fatti e nella logica, che è l’uomo-con-passamontagna-tanta-paura-e-forse-la-pitrentotto che tanta iconografia ha suscitato nei decenni trascorsi, diventando il fantasma di se stesso. A opporre i due esseri, chiamiamoli così, non sono tanto i differenti copricapo (il passamontagna nasconde il viso senza proteggere il cranio, il casco fa entrambe le cose) ma i loro esiti narrativi e passionali: il tipo-con-passamontagna ha una paura fottuta e solo forse la pistola, mentre l’uomo-con-il-casco non ha alcun timore d’essere pestato e porta con sé certamente anche il manganello. La lotta è impari per principio.

 

 

Se insomma il casco è il sostituto contemporaneo, non tanto dell’elmo cervantino, ma delle storiche armature dei rapaci conquistadores cinquecenteschi, è perché contribuisce fortemente alla costituzione di quell’ibrido del nostro tempo, di quel pericoloso soggetto-rete pronto a colpire perché sa di essere sufficientemente protetto per poter osare, senza paura né d’esser a sua volta colpito né tantomeno d’essere punito per il suo atto, diciamo così, automatico. La responsabilità delle sue azioni e passioni, peraltro, si scarica volta per volta sui vari componenti di cui è fatto, sino a evaporare del tutto: chi ha picchiato? chi voleva picchiare? perché qualcuno, alla fine, è stato comunque picchiato? di chi è la colpa? del casco o di chi lo indossava? Come incolpare un dispositivo per metà umano e per metà non umano?

 

 

È per questo che l’idea di apporre un numero di identificazione sul casco dei poliziotti antisommossa appare come una mal celata ipocrisia. Il problema non sta nell’identificare a posteriori un ipotetico violento ma nell’aver costituito, a priori, un potenziale assassino. Nell’aver inventato un feroce dispositivo che nessun numero di serie potrà in sé modificare.

 

 

Meglio allora ricostruire la catena delle presupposizioni. Se c’è in giro un soggetto-rete antisommossa è perché c’è una sommossa, o si immagina che ci sarà. Già: e perché c’è, o si immagina che ci potrebbe essere, una sommossa?

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