Come si diventa psicoterapeuta

3 Giugno 2015

La raccolta di Nicole Janigro mi ha ricordato un altro libro di una dozzina d'anni fa: Chi sono i vostri analisti [Astrolabio-Ubaldini 2003], firmato da Jaques-Alain Miller e ottantaquattro amici. Il più bel saggio di quel libro denso oltremisura (cinquecentodieci pagine fitte) sostiene che dopo la lettura delle maggiori figure della psicoanalisi – che, in Francia, noblesse oblige, annoverano anche la Principessa Marie Bonaparte – era meglio tenersi i propri sintomi piuttosto che “aderire a una psicologizzazione moralizzante 'delle donne' alla quale gli analisti avevano ridotto l'enigma ereditato da Freud”. L'autrice di queste parole è Marie-Hélène Brousse, che di clinica se ne intende.

 

Il lavoro di Nicole Janigro è meno pretenzioso di quello di Miller, raccoglie il contributo di soli dodici terapeuti e di pagine ne conta circa duecento; tuttavia è molto più godibile, anche perché raccoglie dodici punti di vista tra loro eterogenei e mostra che si può diventare terapeuta attraversando vie differenti, piuttosto che una sola.

 

La rassegna si presta a possibili distinzioni tra i testimoni: analisti e non, freudiani e junghiani, uomini e donne, chi parla più di sé, chi meno, terapeuti medici e terapeuti filosofi, ecc. Una distinzione che mi sembra interessante, meno scontata, è quella tra i nati prima della guerra e dopo, o verso la fine. Se, in generale, chi è nato prima della seconda guerra mondiale se l'è passata peggio di chi è nato dopo, se i nati dopo la guerra sono i baby boomers, che hanno usufruito dei vantaggi economici e sociali del dopoguerra, nel caso della professione di psicoterapeuta sembra essere il contrario. Quella dello psicoterapeuta è stata una professione nobile fino agli anni Settanta; poi molti, interni o esterni al campo, hanno gridato: “il Re è nudo!”.

 

da "Io e Annie", regia di Woody Allen, 1977

 

Dentro la psicoanalisi, in continuità con essa, con l'intento di rifondarla, Elvio Fachinelli presentò l'intervento “Il denaro dello psicoanalista” a un convegno, nel 1975, poi le sue opere: Claustrofilia [Adelphi 1983] e La mente estatica [Adelphi 1989]. Il contributo di Fachinelli pone più e più volte la questione sociale: può la psicoanalisi disinteressarsi della povertà, dell'emarginazione, della devianza? Sempre dentro la psicoanalisi, ma in rottura con essa, Mara Selvini Palazzoli scrisse, con un gruppo di colleghi, Il mago smagato, nel 1976 [Feltrinelli]. Sono anni in cui la psicoterapia si cimenta con nuove patologie, come l'anoressia, e con le psicosi, anni di slancio, in cui emerge, in primo piano, la questione sociale.

 

Grazie a diverse forme di “ribellione” – terapia di gruppo, di comunità, terapia familiare, terapie corporee, la psichiatria democratica, ecc. – la psicoterapia degli anni Settanta comincia a perdere l'immagine nobile del salotto o dello studio asettico che l'aveva caratterizzata, dai mitici studi parigini contigui all'abitazione, ai grattacieli cinematografici degli studi degli psicoanalisti di New York. Queste immagini diventano ridicole grazie al contributo di nuovi intellettuali che non provengono dalla nobiltà accademica o professionale, ma dalla provincia, come Michel Foucault, o dalla strada, come Woody Allen. Durante una conferenza a Berkeley del 1983, Foucault scatena l'ilarità dei presenti raccontando l'antica storia di Ermotimo e Licinio, pseudonimo di Luciano, autore del testo consultato da Foucault:

 

Licinio chiede a Ermotimo: «Perché stai rimuginando», la risposta: «Sto cercando di rammentare ciò che devo dire al mio maestro» […] sappiamo che Ermotimo gli fa visita da vent’anni, che è quasi rovinato dal prezzo troppo elevato delle sue lezioni […] Scommetto che anche voi avete incontrato almeno uno di questi tipi che fanno regolarmente visita a un certo tipo di maestro che prende loro denaro (risa) per insegnare come prendersi cura di sé (risa e applausi). Fortunatamente ho dimenticato il nome moderno di questi maestri. In antichità erano chiamati “filosofi” (risa).

 

 

L'altro grande dissacratore della psicoterapia è Woody Allen, che ha più e più volte preso in giro gli psicoanalisti newyorchesi nei suoi film ma che, in un film di Paul Mazursky, Storie di amori e infedeltà, fa la parte del marito di una terapeuta familiare di Los Angeles che firma libri da lei scritti in un centro commerciale.

 

 

Che sia il destino di noi terapeuti l'essere presi nella trappola tra il salotto dell'oltre-uomo e la sbracatura del super-mercato? Tra élite che parlano un gergo desueto e noioso, benché incomprensibile, e piccoli strizzacervelli che usano malamente qualche nuova tecnica per far funzionare la psiche, purché abbia un nome inglese?

 

Mi affido alle pagine di Romano Madera che ha colto, nel suo capitolo, un dilemma diffuso tra chi ha intrapreso questa professione dopo gli anni Settanta. Per qualche strana ragione costoro, io sono tra questi, sono diventati psicoterapeuti malgrado le loro origini contadine, operaie, piccolo borghesi; lo sono diventati a partire da un clima culturale di sinistra, studiando filosofia. Sono diventati terapeuti passando per la politica e hanno letto Marx con o prima di Freud e Jung, hanno letto Fanon, Basaglia e Ronald Laing prima di Bowlby, Gabbard e Kernberg, e hanno tentato, senza esito, di farne una sintesi che non fosse disgiuntiva.

 

Di qui varie forme di ansia di prestazione e segnali di angoscia: ritirarsi o competere, fuggire o combattere? In questo viluppo di sentimenti contrastanti, come nell'etologia animale, nasce secondo me l’angoscia: non poter fuggire e sentirsi inadeguato al combattimento […] il doppio legame: se ti batti per emergere, allora vuoi superare chi è venuto prima di te e che dovresti, umilmente, seguire; se non ti batti, allora non riesci a ripagare il debito di riconoscenza, non porti a casa nessuna vittoria con la quale ripagare chi ti ha dato tanto [...] (p. 113)

 

Tuttavia questa «paura di non essere in grado stimola e dirige l'attenzione [...] studia attentamente le condizioni dell'azione” e, sopratutto, “non rende ciechi nel presupporre troppo di se stessi». Dagli anni Settanta la psicoterapia è diventata un fenomeno democratico, piaccia o no. La psichiatria democratica, le psicoanalisi laiche, il coinvolgimento delle famiglie, il lavoro nei gruppi, nel sociale, la messa in farsa delle forme “bonapartiste” di certa psicoanalisi, ma anche, sul versante opposto, la messa in ridicolo di certo behaviourismo a buon mercato; tutto ciò ha creato un altro doppio legame: ha depotenziato le élite di chi diventava psicoanalista attraverso il percorso Principe, per nascita, ma ha creato gergalità alla moda, e funzionalismi impoveriti. A questa condizione si può rispondere: “in medio stat virtus”, oppure creare nuove vie d'uscita. Questo libro, che raccoglie contributi di psicoterapeuti di vario orientamento, è una via d'uscita possibile. L'importante non è avere un orientamento, ma saperlo argomentare a partire dal soggetto che lo racconta e lo descrive.

 

 

Il libro: La vocazione della psiche, a cura di Nicole Janigro, Einaudi, Torino 2015, pp. XX – 204, 19,00 €.

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