Conversazione con Ilaria Bonacossa / La possibile collaborazione tra pubblico e privato

13 Maggio 2017

Fa sempre piacere trovarsi di fronte a persone che, nonostante titoli e incarichi si dimostrano disponibili, entusiaste del proprio lavoro e anche molto umili (nel senso nobile del termine). È il caso di Ilaria Bonacossa, classe 1973, milanese di nascita, con una laurea in Storia dell’Arte conseguita all’Università Statale di Milano e un Master in Curatorial Studies al Bard College di New York.

Dopo essere stata assistente curatrice a Manifesta 3 (Ljublijana, 2000) e dopo aver collaborato con il Whitney Museum per la Biennale del 2003 curata da Larry Rinder, dal 2003 al 2008 ha lavorato a Torino, presso la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, dove ha seguito il Programma di Residenza per Giovani Curatori (2008-2009) e dove ha curato mostre innovative tra cui la collettiva Subcontingent: The Indian Subcontinent in Contemporary Art (2006) volta a presentare il panorama contemporaneo del subcontinente indiano come un coagulo di differenti popolazioni, lingue, culture, fedi ed eredità storiche derivanti dall’incontro della volontà di conservare tradizioni eterogenee con la contingenza opposta della pretesa di modernità. Dal 2016 è direttore artistico della Fondazione La Raia, fattoria biodinamica che con una particolare attenzione al territorio commissiona installazioni site-specific nel paesaggio del Gavi.

 

Desiderosa di sostenere giovani talenti e di entrare in rapporto con il contesto dove operano, dal 2009 al 2013, assieme a Paola Clerico, Luca Conzato, Ilaria Gianni, Francesco Stocchi e Riccardo Ronchi, ha cofondato Art@Work, un collettivo che, non possedendo una specifica sede espositiva, commissiona e sviluppa progetti in luoghi sempre differenti attraverso un costante dialogo con gli artisti e in collaborazione sia con istituzioni pubbliche e private, sia con collezionisti e società (in particolare curando le installazioni site-specific per Antinori Art Project). Due, a mio avviso, sono le principali peculiarità dell’agire curatoriale di Ilaria Bonacossa: da un lato, una spiccata dote da “talent scout” che la induce a lavorare preferibilmente con validi giovani artisti, italiani e stranieri, permettendo loro di esprimersi liberamente senza mai incasellarli o schiacciarli in “percorsi obbligati”; dall’altro l’anticonformismo di non aderire al diffuso dictat (o preconcetto) per cui il curatore dovrebbe astenersi dal mondo del mercato, delle gallerie e dei collezionisti, dimostrando invece come sia possibile operare parallelamente nel pubblico e nel privato per intessere tra i due ambiti un rapporto di collaborazione volto a integrare le rispettive potenzialità in nome dell’Arte.  

 

Ne è un chiaro esempio il Museo di Villa Croce di Genova, di cui Ilaria Bonacossa è stata direttrice dal 2012 al 2016 e dove ha curato mostre di Zhang Enli, Tony Conrad, Julieta Aranda, Massimo Grimaldi, Alberto Tadiello e Katrin Sigurdardottir, sperimentando innovative forme di collaborazione tra pubblico e privato grazie anche al sostegno della Fondazione Palazzo Ducale per la Cultura e del Comune di Genova; forme di collaborazione peraltro approfondite in occasione del Forum dell’Arte Contemporanea da lei organizzato al museo il 16 aprile 2016.

 

 

Andy Warhol sul comò, Museo d’Arte Contemporanea Villa Croce, Genova, 2 aprile – 5 luglio 2015. Installation view. Foto: Nuvola Ravera e Anna Positano.

 

È anche in virtù di questo particolare interesse per la possibile collaborazione tra pubblico e privato che possiamo comprendere la sua candidatura al bando indetto nel 2016 per scegliere il nuovo direttore di Artissima, la fiera di arte contemporanea di Torino.

 

Torino, Oval, Esterni in occasione di Artissima 2016. Foto: Perottino Alfero Tardito

 

Ilaria Bonacossa è stata selezionata da una short-list nominata da una commissione esterna, composta da Andrea Bellini, Michela Bondardo, Silvia Evangelisti, Guido Guerzoni e Francesco Manacorda, che ha apprezzato il suo progetto volto a rafforzare l’identità culturale della fiera con una specifica riflessione sulle strategie non solo artistiche ma anche di mercato e commerciali.

Avendo avuto l’opportunità di incontrarla nella sua città natale dove attualmente vive (Milano), ho colto l’occasione della conversazione con lei, qui di seguito trascritta, per cercare di ripercorrere le tappe fondamentali che hanno preceduto questo suo recente e impegnativo incarico.

 

Perché nel 1999 hai scelto di laurearti in Storia dell’arte?

L’arte è una storia di famiglia: mia madre restaura quadri e mia nonna paterna proveniva da mecenati che collezionavano fondi oro e che ospitarono nella loro abitazione sul Lago Maggiore anche Umberto Boccioni mentre stava realizzando il Ritratto di Busoni del 1916. All’Università mi sono iscritta al Corso di Laurea in Lettere moderne e per molto tempo sono stata incerta se laurearmi in Letteratura contemporanea o in Storia dell’arte contemporanea. Da sempre amo la letteratura contemporanea, leggo moltissimi romanzi ma tutti di scrittori viventi, così come da sempre mi affascina l’idea di vivere l’arte quando nasce, incontrando l’artista, scrivendo la storia dell’arte prima ancora che sia Storia. Letteratura e Arte, a mio avviso, vanno sempre di pari passo e non penso che implichino lavori sostanzialmente diversi in quanto entrambi basati sulla sensibilità nello scoprire l’interessante nel mondo in cui viviamo. Avendo però avuto una famiglia incline all’arte, il riconoscere un’opera visiva interessante probabilmente era in me una capacità meglio sviluppata rispetto a quella del riconoscere un testo altrettanto interessante.

 

Su quale argomento hai svolto la tua tesi di laurea?

Seguita da Maria Mimita Lamberti, ho svolto una tesi a Bordeaux sul mercato dell’arte; nello specifico, sugli artisti italiani negli archivi Goupil. Adolphe Goupil è stato un mercante che ha in un certo senso inventato il metodo Gagosian: aprì numerose succursali della sua galleria dove comprava e rivendeva opere originali, tenendosi i relativi diritti di riproduzione e riproducendole in formati diversi: cartes de visite, cartes postal, affiches, affiches dipinte e, dopo la nascita della fotografia, in photogravures. Costruì così un impero in Europa e negli Stati Uniti intercettando la necessità della coeva borghesia in crescita che, a differenza della ricca aristocrazia, per arredare i propri palazzi non sempre poteva acquistare i quadri dei grandi pittori, ma optava spesso per incisioni e litografie.

 

Follow Me. Susan Philipsz, Museo d’Arte Contemporanea Villa Croce e Palazzo Ducale, Genova 10 settembre – 11 ottobre 2015, a cura di Ilaria Bonacossa e Paola Nicolin. Veduta del pulpito laterale della Chiesa di San Francesco, Genova. Foto Giovanna Silva (da “Follow me. Susan Philipsz a Genova”, Humboldt books, 2015)

 

Qual è stato il tuo primo lavoro?

Il mio primo lavoro è stato alla Galleria Guenzani con cui ho collaborato per un anno subito dopo la laurea, mentre durante il Master a New York ho lavorato part-time alla galleria Luhring Augustine. Non sono quindi tra i curatori che non hanno volontariamente mai toccato il mondo commerciale: in realtà, la scoperta dei giovani artisti succede in quel mondo e io sono sempre stata interessata a scovarli; per questa ragione non considero così strano passare dal museo al commerciale e viceversa.

 

Durante i tuoi studi frequentavi già gallerie e artisti?

No, per niente. Ho avuto la fortuna di conoscere un amico di Guenzani che ha iniziato a farmi frequentare le gallerie e che mi ha portato a visitare per la prima volta la Biennale di Venezia due mesi prima di laurearmi, era la Biennale di Szeeman.

 

Perché la scelta di fare un Master a New York?

Nell’estate successiva alla mia laurea, prima di lavorare da Guenzani, avevo svolto un internship al Guggenheim e New York mi aveva totalmente sedotta. Dopo aver lavorato da Guenzani, ho deciso di provare a fare un Master negli Stati Uniti. Sono stata la prima italiana a essere ammessa a Bard. Ho vissuto quindi a New York per i due anni del Master e poi per un altro po’ di tempo perché ho avuto la possibilità di collaborare alla Biennale del Whitney del 2003. Durante l’estate tra il primo e il secondo anno di Master, era infatti obbligatorio fare pratica e io, grazie a Maria Hlavajova che insegnava a Bard, collaborai alla Manifesta, curata anche da Francesco Bonami che poi mi propose di lavorare alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo di prossima apertura.

 

Arrivata alla Fondazione Sandretto nel 2003, di quali progetti ti sei occupata?

Non mi sono occupata di progetti miei, come era giusto che fosse per una curatrice che era agli inizi, ma ho collaborato con Bonami alla mostra di inaugurazione, Exit, costituita da ottanta giovani artisti italiani di cui avevo visto tutti i portfolio che, se interessanti, avevo mostrato a Bonami affinché procedesse alla selezione.

Il mio primo progetto firmato è stato D-segni (D come donna) nel 2004, un ciclo di mostre monografiche di disegni di quattro artiste (Marguerite Karhl, Micol Assael, Tabaimo, Katrin Sigurdardottir), organizzate durante l’anno della donna promosso da Bonami. Successivamente, in occasione dei XX Giochi Olimpici invernali – Torino 2006, ho curato la mostra intitolata La montagna incantanta e una collettiva sull’arte indiana organizzata con Francesco Manacorda.

 

Aldo Mondino. Moderno, Post.Moderno, Contemporaneo, Museo d’Arte Contemporanea Villa Croce, Palazzo Ducale, Palazzo Rosso, Palazzo Bianco, Genova, 24 settembre 2016 – 8 gennaio 2017, a cura di Ilaria Bonacossa in collaborazione con l’Archivio Aldo Mondino. Installation view a Villa Croce. Foto: © Enrik Blomqvist


Come nasce il progetto Art@Work?

Mentre mi stavo occupando per la Fondazione Sandretto del Progetto per Giovani Curatori, mi contattarono Luca Conzato e Riccardo Ronchi, proprietari della galleria MAZE! con cui avevo già collaborato per una mostra. Volevano chiudere la galleria per dedicarsi ad altri progetti essendosi resi conto che il mondo dell’arte si era professionalizzato e non era più possibile fare il gallerista senza farlo full-time. Nacque così l’idea Art@Work per proporre progetti di arte pubblica a Torino senza avere l’obbligo di mostre e fiere ogni mese.

 

Follow Me. Susan Philipsz, Museo d’Arte Contemporanea Villa Croce e Palazzo Ducale, Genova 10 settembre – 11 ottobre 2015, a cura di Ilaria Bonacossa e Paola Nicolin. Veduta della terrazza del secondo piano di Palazzo Reale, verso il porto. Foto: Giovanna Silva (da “Follow me. Susan Philipsz a Genova”, Humboldtbooks, 2015)

 

Perché hai poi deciso di provare a concorrere per la direzione di un museo, Villa Croce a Genova?

Penso che il museo sia il posto più bello del mondo. Pur essendolo più volte stata, a me non piace troppo fare il curatore freelance perché implica abbandonare la mostra appena la si inaugura, mentre tutt’altra esperienza è pensare a un progetto per un luogo e un pubblico specifico con cui si ha un rapporto continuativo. Ho così partecipato al bando per la curatela del Museo di Villa Croce. Quando nel 2012 sono arrivata a Genova non conoscevo molto la città, che è di una bellezza sconvolgente: il centro storico è piccolo ma ben preservato, via Garibaldi è patrimonio dell’UNESCO. È un luogo veramente magico, che facilita la disponibilità da parte degli artisti a pensare di tenerci una mostra. È per questa ragione che ho spesso allestito opere nei musei del centro storico e non solo a Villa Croce.

 

Nella tua attività a Villa Croce ho notato un medesimo approccio nel curare le mostre di artisti giovani e di artisti di generazioni precedenti…

Su questo fronte Bonami mi ha insegnato molto perché è sempre stato un curatore che rischiava, che proponeva lavori nuovi, che attivava la macchina della produzione dell’arte. Di conseguenza ho scelto, ad esempio, le opere per la mostra su Aldo Mondino come se fossero state realizzate adesso; come se le avessi viste per la prima volta nel suo studio e, alla stregua di quanto si fa per i lavori dei giovani artisti, avessi potuto scegliere quelle che mi piacevano e non necessariamente solo i capolavori storici. Così facendo, la mostra su Mondino sembrava davvero una mostra “contemporanea”. Se organizzare una grande retrospettiva implica un altro tipo di lavoro, impone cioè di raccontare l’attività dell’artista in tutte le sue fasi, a Villa Croce mi sono invece presa la libertà di scegliere le opere più forti, presenti e contemporanee, sia che si trattasse di lavori realizzati da artisti giovani o da artisti ormai storicizzati.

 

Da quest’anno sei la nuova direttrice di Artissima. Come vivi il passaggio dal lavorare per un museo pubblico, senza fini di lucro, al lavorare per una fiera che in quanto tale si basa sul mercato?

In realtà, oggi i musei sono cambiati a seguito della crescita del mercato da cui non sono più completamente estranei. Pian piano, da un mondo alla francese costituito da musei statali, arriveremo a un mondo più simile a quello americano. Inoltre l’Italia è il paese delle fondazioni private perché, non essendoci detrazioni fiscali, i collezionisti, anziché donare le proprie opere per un’ala di un museo come invece è successo allo Stedelijk di Amsterdam, preferiscono aprire fondazioni che diventano, in qualche modo, competitors dei musei pubblici.

Le fiere sono ormai simboliche del funzionamento del mondo dell’arte: a Torino, ad esempio, nei quattro giorni della fiera succede pertanto che tutti i players del mondo dell’arte (collezionisti, fondazioni e musei) di cui il mercato ormai fa parte, si relazionino tra loro e mettano alla prova i rispettivi format.

 

Aldo Mondino. Moderno, Post.moderno, Contemporaneo, Museo d’Arte Contemporanea Villa Croce, Palazzo Ducale, Palazzo Rosso, Palazzo Bianco, Genova, 24 settembre 2016 – 8 gennaio 2017, a cura di Ilaria Bonacossa in collaborazione con l’Archivio Aldo Mondino. Installation view a Palazzo Rosso. Foto: © Enrik Blomqvist


Ho letto che vorresti far dialogare Artissima ancora di più con il sistema museale di Torino e farla vivere per 365 giorni all’anno…

Quest’anno la fiera sarà sicuramente all’Oval perché abbiamo un contratto, non ci saranno special projects esterni perché non vorrei generare ulteriori competitors, ma fare sistema e potenziare il rapporto con le istituzioni cittadine. Se andando a New York durante Frieze il visitatore non si accorge della presenza della fiera, andando a Torino in occasione di Artissima deve invece percepire che tutta la città è in “parata grande”.

Vorrei inoltre proporre progetti volti a tenere in vita la fiera per 365 giorni l’anno, potenziando il digitale. Artissima offre moltissimi contenuti, impossibili da cogliere nella loro totalità nei soli quattro giorni di apertura della fiera. Bisogna poi trovare il modo di ricordare la sua storia e il digitale può venire in aiuto attraverso rewinds dei talks, dei premi assegnati, dei contenuti delle gallerie… Preferirei anche non pubblicare un catalogo cartaceo, ma un libro nel 2018 per celebrarne i 25 anni. Vorrei infine potenziare l’aspetto di talent scout della fiera, dando spazio ai talenti emergenti o a quelli in qualche modo dimenticati. Per quanto invece riguarda specificatamente il 2017 mi piacerebbe celebrare il progetto Luci d’Artista che quest’anno compie vent' anni.

 

Cosa consiglieresti a un giovane che volesse fare il curatore non solo in spazi pubblici ma anche in contesti volti al collezionismo privato quali le gallerie e le fiere?

Oggi è molto difficile diventare curatore perché c’è molta concorrenza. I primi curatori sono stati gli storici dell’arte della generazione di Hans Ulrich Obrist, gli eredi di Szeeman che si sono inventati quella professione, mentre la mia generazione è stata la prima in cui già esistevano scuole curatoriali e si era già affermata l’idea che il curatore non sia uno storico dell’arte contemporanea. Comunque, in Italia, non eravamo molti e il mercato del lavoro era più facile. Adesso, se un giovane vuole diventare curatore deve essere pronto a lavorare, studiare e vedere tanto, ma a guadagnare poco per molti anni. Deve inoltre cercare di fare solo i progetti che gli piacciono; è necessaria l’integrità: dedicarsi solo a progetti in cui credi, in qualche modo paga sempre. Sono però necessarie anche esperienze manageriali, così come l’umiltà di fare un po’ di gavetta senza pretendere di curare subito le mostre, perché è assistendo i curatori che si impara non solo il lavoro d’ufficio, ma soprattutto a guardare le opere e a relazionarsi con gli artisti.

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