Tommaso Landolfi. Tradire la poesia

14 Marzo 2015

Nelle più importanti antologie della poesia italiana del Novecento non c’è traccia di Tommaso Landolfi. E questa ingiustificata lacuna non dipende tanto dal fatto che Landolfi esordì tardi come poeta (la sua prima raccolta di liriche, Viola di morte, data al 1972, quando egli aveva ormai sessantaquattro anni), quanto, piuttosto, dalla sua totale estraneità al milieu poetico italiano coevo. Lontanissima dallo sperimentalismo di matrice neo-avanguardistica che andava allora per la maggiore, così come da ogni altra corrente o scuola coeva, la scrittura poetica di Landolfi è caratterizzata da uno stile solenne, quasi classico, e da un timbro squisitamente lirico, anzi ultra-lirico, che rende arduo ogni accostamento con altri poeti italiani contemporanei.

 

 

 

La poesia, per Landolfi, non rappresentò affatto un campo secondario rispetto alla prosa, ma fu, anzi, l’«ultima tule» a cui consacrò i frutti letterari più autentici e preziosi del periodo finale della sua vita. L’espressione virgolettata è tratta dalla premessa dell’autore alla sua seconda e ultima raccolta di versi, Il tradimento, ristampata opportunamente da Adelphi dopo ben trentasette anni dalla prima (e finora unica) edizione rizzoliana. Il libro forma, insieme a Viola di morte, una sorta di dittico, ossessivamente incentrato sul leitmotiv della morte. Nondimeno, se nella prima raccolta la morte era ancora una meta augurabile e circonfusa di una romantica fascinazione, nel Tradimento perde ogni aura mitizzante:

O morte sempre amata / Ed in segreto sempre corteggiata, / Avvolgiti di nere bende il capo: / Tu non sei più speranza.

Insomma: non c’è spazio per la morte, giacché «L’odiosa vita regna in ogni dove».

Al pari di Viola di morte, Il tradimento contiene componimenti di sapore diaristico, anche se nella seconda raccolta il disagio emotivo acquista quasi sempre sfumature metafisiche e si proietta in uno scenario di inquietudine cosmica (del resto, già in Viola di morte, viene evocato esplicitamente un celebre racconto di H. P. Lovecraft). In questo senso non mi sembra casuale che nella sovraccoperta della prima edizione del Tradimento campeggi un suggestivo disegno di Edward Gorey in cui due giganteschi massi sembrano sul punto di scontrarsi su uno sfondo di desolazione cosmica.

 

In molti versi del Tradimento, la cupa visione del cosmo di Landolfi sembra acquistare una singolare coloritura gnostica e l’esistenza stessa appare fatalmente funestata da un demiurgo maligno: «Ah, come non pensare ad un maligno / Fattore, a un bieco autore / Dei nostri giorni?». Se l’universo è dominato da una divinità malvagia, il libero arbitrio dell’uomo è molto limitato, se non meramente illusorio: «L’uomo più libero del mondo / Passò la vita ad obbedire», recita un esemplare epigramma landolfiano.

Il titolo della raccolta allude a un mondo in cui tutto tradisce, compresa, per l’appunto, la morte stessa, il cui tradimento è soltanto l’ultimo atto di una strage delle illusioni che precipita l’autore nell’inferno senza rumore descritto in un famoso passo della BIERE DU PECHEUR. Per di più Landolfi non riconosce alla sua sofferenza neanche quel carattere esemplare che potrebbe, almeno in parte, riscattarla:

Risucchiato in un buio / Vortice, io vedo solo / La mia miseria personale, / Donde nessuno potrà mai / Trarre una norma od esemplare almeno / Il cuore umano.

Gli unici lampi che interrompono le tenebre di questa angoscia immedicabile arrivano da una donna misteriosa, un’amante invisibile, che non esiste né, forse, è mai esistita, come quella a cui Leopardi (punto di riferimento essenziale della poesia landolfiana) intitolò la celebre canzone Alla sua donna. Ma anche la musa misteriosa invocata a più riprese da Landolfi si sottrae ai suoi richiami («Unica, t’ho invocata, / Ed ogni volta ti sei sottratta / All’appello…»), rendendo inconsistente anche questa labile scintilla di salvezza. La sola possibile via di scampo alla pervasiva entropia del tradimento è quella indicata nella splendida poesia Un capodanno, dedicata alla figlia Idolina, che può leggersi come un vero e proprio testamento in versi:

Idolina, ti conceda la sorte / Di tralignare sempre, / Di non perdere le tempre / A corteggiare la morte, / A vagheggiare le forme / Compite, cui fosse affidato / L’estremo compenso, il riscatto / Da tutte le infamie. Lo vedi: / Sono sorelle perfezione e morte / (O son la stessa cosa forse) / Ed ambedue deludono. E tu, vivi / Lungo aleatorie, provvisorie orme, / Libera, casuale ed imperfetta, / Sposa a tutti i cammini e a tutti i trivii… / Fa’, dico, tutto quanto è in tuo potere / Per non trovarti un dì tradita, / Anzi negletta dalla morte, quale / Il tuo misero padre.

 

Questo articolo è uscito in forma abbreviata su Alias – il manifesto.

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