Violenza e Islam

Adonis (Alī Aḥmad Saʿīd Eṣbar) è uno dei più importanti poeti e intellettuali del mondo aravo. Nato in un villaggio siriano nel 1930 da una famiglia di origine contadina, ha compiuto gli studi universitari a Damasco, laureandosi in filosofia. Successivamente si è trasferito a Beirut dove ha lavorato come insegnante e giornalista. Vive a Parigi. La sua opera è stata insignita di numerosi premi letterari. Tra i suoi libri: Memoria del vento, Cento poesie d'amore, Oceano nero.

 

 

Houria Abdelouahed insegna all'Università Paris Diderot. È psicoanalista, traduttrice e autrice, fra l'altro, di Figures du féminim en islam (PUF, 2012)

 

Houria Abdelouahed

 

 

H: Si parla sempre più spesso di radicalizzazione.

 

A: Non si può comprendere questo fenomeno se non si fa lo sforzo di ripensare la nascita dell’islam. Come abbiamo detto, la violenza è intrinsecamente legata alla nascita dell’islam, che sorge appunto come potere. Questa violenza ha accompagnato la fondazione del primo califfato e attinge a certi versetti coranici e ai primi commenti al Testo.

 

H: L’Isis ci riporta a un’epoca in cui la gente o si convertiva all’islam o moriva.

 

A: Abbiamo citato alcuni versetti, ma il Corano ne contiene molti altri, non meno violenti. Questa violenza è stata istituzionalizzata, ormai fa parte della forma statuale. Si aggiunga che i musulmani hanno agito fin dall’inizio da conquistatori. Il secolo che seguì alla morte di Maometto fu molto sanguinoso e la guerra arabo-araba, o la guerra musulmano-musulmana, non è mai finita. Basta leggere le opere sulla storia degli arabi.

 

H: Ma perché l’islam ha resistito al cambiamento?

 

A: Non abbiamo tenuto conto, o non abbastanza, della natura umana: il potere, il denaro e la violenza. L’islam ha risvegliato nell’essere umano l’istinto del possesso.

 

H: Vale a dire: aggiungere ai tentativi di risposta la dimensione psicologica e parlare del pulsionale. Il testo fondatore e i primi testi dei commentatori hanno permesso al maschio di soddisfare pienamente le proprie pulsioni, in particolare quella di possesso e quella sessuale. L’idea del paradiso come luogo di soddisfazione assoluta dove la nozione di mancanza non esiste è indice di una fantasia o di un rifiuto della castrazione. La fondazione ha colto l’essenziale nella natura della pulsione e della fantasia. Si può parlare di una malattia dell’islam, come ha fatto Abdelwahab Meddeb?

 

A: In La malattia dell’islam, Meddeb parla anche di un islam bello e vero.

 

H: Ma all’interno dell’universo musulmano ci sono la mistica, la filosofia, la letteratura...

 

A: Questi movimenti intellettuali non appartengono all’islam in quanto stato o istituzione. I mistici e i filosofi hanno usato l’islam come un velo o come un mezzo per sfuggire ai processi e alle condanne. Dal testo coranico non emerge alcuna filosofia.

 

H: Certo, la filosofia viene dalla Grecia e la mistica ha attinto a diverse fonti: il platonismo, il neoplatonismo, il cristianesimo, la lingua... Ma coloro che hanno forgiato questo pensiero vivevano all’interno della società musulmana.

 

A: I mistici dell’islam citavano il Testo per giustificare le loro interpretazioni, ma leggendo le loro opere ci rendiamo conto di quanto siano distanti dal testo coranico. Ibn ‘Arabī, per esempio, ha forgiato un sistema di pensiero che rompe radicalmente con la concezione religiosa e musulmana dell’uomo e dell’universo.

 

H: Ibn ‘Arabī era un grande filologo. Il suo interesse non era rivolto ai precetti, ma a ciò che la lingua nasconde nei suoi nuclei semantici. Era, come te, un amante della lingua. Il suo pensiero era imperniato su ciò che la lingua può esprimere e sulle realtà che non può dire.

 

A: Era un poeta e non aveva alcun rapporto con la dottrina, né col dogma, né col pensiero religioso. I suoi scritti, come le parole di al-Ḥallāj, non avevano niente a che fare con il pensiero ortodosso e con l’insegnamento religioso. Era una strategia e una forma di autodifesa. In fondo, è quello che facciamo anche noi: cerchiamo un islam vero e grande per proteggerci dalla violenza. Si può persino dire che Ibn ‘Arabī ha liberato la lingua dall’islam. I pensatori appartenenti alla società araba erano obbligati a indossare una maschera chiamata «islam» al solo scopo di aggirare l’ordine di uccidere qualunque musulmano abbandonasse la propria religione. Quelli che non l’hanno fatto hanno subito, come al-Ḥallāj, persecuzioni e condanne a morte, per non parlare della distruzione

delle opere. Niffarī, per esempio, ha scritto un libro che ha dovuto aspettare mille anni prima di essere scoperto. Ancora oggi, pochi lo conoscono.

 

H: Anche quando un libro viene pubblicato, il suo autore resta sconosciuto. In Egitto una fatwā si è opposta alla riedizione dei Futūḥāt al-makkiyya (Le rivelazioni meccane) di Ibn ‘Arabī, pubblicati per la prima volta dall’emiro ‘Abd el-Kader. Ciò detto, penso che Averroè, Abū Bakr al-Razī, Ibn al-Rawandī, Niffarī... facciano parte della società araba, in quanto dissidenti.

 

A: La mistica e la filosofia non fanno parte del pensiero islamico, che è composto solo di fiqh (giurisprudenza) e shar‘ (Legge).

 

H: Visto che abbiamo parlato di al-Ḥallāj, mi piacerebbe ricordare queste parole meravigliose: quando Satana si rifiuta di prostrarsi davanti ad Adamo, dicendo che non può cambiare l’oggetto del suo amore, Dio gli dice: «Ti torturerò in eterno», e Satana risponde: «Non mi guarderai?», «Sì» dice Dio. «Allora il tuo sguardo mi innalzerà al di sopra del supplizio. Fa’ di me ciò che vuoi.» Al-Ḥallāj sarà l’anima dannata per amore. E questo scambio fra il divino e l’innamorato stimola un’intera riflessione sulla lingua del mistico, sul segreto, sull’amore, sulla trasgressione e la femminilità.

 

A: Ci rendiamo conto che la femminilità, come il femminino, travalica la donna e costituisce una posizione. Anche la divinità rappresenta uno stato e una posizione. La femminilità è l’universo stesso. Non è questo, però, l’immaginario dell’islam ufficiale. La mistica ha detto l’amore del femminile e della donna. Ha messo sottosopra il pensiero sulla questione dell’alterità e della soggettività. Invece, nel Testo non c’è alcuna soggettività.

 

H: Intervenendo a una trasmissione televisiva, hai detto che il dialogo fra Dio e Satana era molto democratico. Erano in disaccordo, ma si parlavano. Dio avrebbe potuto annientarlo seduta stante, ma ha lasciato che dicesse la sua.

A: Oggi non abbiamo neanche più questa possibilità. I musulmani non rispettano nemmeno il loro Testo e il dialogo non è più ammesso. Il credente pensa di detenere la verità assoluta. Perciò, secondo lui, ogni altra credenza è da rifiutare. Questa forma di religiosità ha trasformato la politica islamica in una techne il cui fine ultimo è il potere e la ricerca dei modi per conservarlo. Tutta la storia degli arabi lo conferma. La loro è una cultura di potere. Oggi, da un punto di vista politico ed economico, gli arabi hanno la possibilità di comprarsi il mondo grazie al gas e al petrolio. Tuttavia, non hanno né Averroè, né Ibn Khaldūn, né al-Ma‘arrī.

H: Mi ricordo un congresso sulla mistica tenutosi a Oran. Inutilmente, avevo cercato i Mawāqif dell’emiro ‘Abd el-Kader (tradotto in francese da Michel Chodkiewicz col titolo Écrits spirituels e quindi in italiano da Anna Silva col titolo Il libro delle soste), che è stato un grande commentatore di Ibn ‘Arabī.

 

A: In questo senso, gli arabi sono i più poveri fra i poveri. Non conoscono né la loro cultura, né la loro lingua. Come possono pensare di fare una rivoluzione? A partire da quali principi e su quali basi?

 

H: L’Isis propugna la fondazione di uno stato islamico, ma un progetto simile calpesta ogni idea di civiltà. In Il disagio della civiltà, Freud dice che questa può fondarsi soltanto sulla rinuncia alla soddisfazione degli istinti bruti. Ma oggi cosa vediamo? Sequestri di donne, sbudellamenti, decapitazioni e addirittura cannibalismo...

 

A: L’uomo che si crede più forte della morte – perché soggiornerà tranquillamente in paradiso – pratica la barbarie senza paura, né sensi di colpa. È separato dalla natura e dalla cultura. Vedo nell’Isis la fine dell’islam: ne è senza dubbio il prolungamento, ma ne annuncia la fine. Oggi, sul piano intellettuale, l’islam non ha niente da dire. Nessuno slancio, nessuna idea su come cambiare il mondo: né pensiero, né arte, né scienza. Questa ripetizione è il sintomo stesso della sua fine. Infatti, supponiamo che l’Isis riporti una vittoria sul piano politico o strategico: cosa potrebbe mai significare sul piano intellettuale e scientifico?

 

H: A parte il caos, non saprei. Nelle regioni dell’Iraq conquistate dallo Stato Islamico la scuola è stata sospesa in attesa di elaborare un programma conforme ai dogmi della religione.

 

A: L’Isis non rappresenta una nuova lettura dell’islam, né la costruzione di una nuova cultura o di una nuova civiltà. Incarna soltanto la chiusura, l’ignoranza, l’odio del sapere, l’odio dell’umano e della libertà. Ed è una fine umiliante. Da un punto di vista storico, l’islam ha quindici secoli, ma sulla scala dell’umanità è poca cosa: fino a oggi è durato meno dei faraoni, dei greci, dei romani... C’è un disagio reale, perché una religione che possiede una visione e un progetto non può permettersi di sgozzare la gente. Anziché esaltare la libertà, si rafforza il servilismo. L’individuo che vive nella società araba soffre una mancanza di libertà: non c’è libertà di espressione, né di credo religioso, né di scrittura, né uguaglianza fra uomini e donne. A oggi, non ha potuto vedere la luce una società civile e laica. La nozione di laicità è tuttora bandita e il potere politico opera al di sopra della libertà. E dal momento che lo scontro non è legato al progresso, ma al potere, queste rivoluzioni fanno uscire la gente di prigione solo per recluderla in un’altra prigione.

 

H: È vero che siamo ormai abituati a fare analisi economiche, socio-politiche e strategiche, ma non ci siamo dati il tempo di riflettere sulla dimensione psicologica. Di fronte a ciò che sta attualmente succedendo, è impossibile non pensare in termini di pulsione di morte o di

distruzione. Perché è di questo che si tratta, di un’autodistruzione. Demolendone le vestigia e le tracce, i fanatici cancellano la loro stessa storia e distruggono i popoli che appartengono alla loro terra, i loro fratelli e le loro sorelle. Bisognerebbe studiare questo fenomeno alla luce dei testi psicoanalitici sulla pulsione, il parricidio, il matricidio, il fratricidio, la castrazione e il godimento.

 

A: Il wahabismo sta cancellando ogni traccia dell’umano. Dato che è Dio a fare ogni cosa, l’umano non può inventare, creare o realizzare alcuna opera pittorica, musicale, poetica... E poiché c’è un solo Creatore, bisogna eliminare ogni creazione umana, in quanto è wathan (idolo) e segno di idolatria. Questo spiega la devastazione dei musei e dei siti archeologici. Si distrugge ogni opera prodotta dall’essere umano perché lo si accusa di rivaleggiare con Dio. L’uomo deve essere soltanto un esecutore di precetti. Dio crea, l’uomo imita.

 

H: Mi viene in mente questo versetto: «Non eri tu a lanciar frecce, bensì Dio le lanciava ».1 La nostra memoria è modellata da frasi che non mettiamo mai in discussione...

 

A: Dal momento che è Lui a lanciare, a uccidere, a fare ogni cosa, l’uomo è venuto al mondo solo per essere guidato o telecomandato. Bisogna dunque cancellare le tracce di ogni creazione umana; e persino l’atto di lanciare un oggetto qualunque, per esempio una pietra, non dipende da una decisione umana e individuale, ma è dettato da Dio che decide ogni cosa. L’umano, in questo contesto, fa molta fatica a innalzarsi verso le nobili vette della creatività, perché deve emanciparsi dal divieto religioso e dalla concezione comune e diffusa che vede in ogni spirito di iniziativa un attacco nei confronti del divino. Il versetto coranico riflette questa cancellazione dell’umano e delle tracce del suo passaggio terreno. «Wa yabqā wajhu rabbika, e solo resta il Volto del Signore».2 Si può edificare una civiltà facendo strame dell’uomo e di ciò che è profondamente umano?

 

H: Gli eventi attuali mostrano chiaramente che ciò a cui si mira è lontano dall’idea stessa di cultura. Comprovano il trionfo del pulsionale.

 

A: Non è la malattia dell’islam. È il contrario della cultura, della civiltà e dell’umano. E aggiungo: è odio di sé spinto fino al suicidio. Pur di andare in paradiso, ci sono migliaia di persone pronte a farsi saltare in aria. È un fenomeno senza precedenti nella storia delle civiltà, un unicum assoluto nella storia dell’umanità. Il cosiddetto jihadista ritrova il godimento eterno, quello del paradiso descritto dal Corano. Mentre il godimento terreno è effimero, quello dell’aldilà è eterno e assoluto. La visione islamica, attraverso l’immagine di un paradiso popolato di fanciulle, ha trasformato il sesso in uno strumento di seduzione a favore della fede. Il musulmano che muore musulmano, o che muore per l’islam, in realtà non muore: lascia questo mondo per andare in paradiso al cospetto di Dio. E in questo paradiso, moltiplica le sue possibilità di godimento.

 

H: Vladimir Bartol, in Alamut, ha immaginato questo scenario: alcuni giovani fanatici si uccidono per andare in paradiso, sinonimo per loro di donne e godimento. È la questione del godimento che riaffiora di continuo.

 

A: L’erotico riceve così una valenza divina. L’uomo ha inventato l’immagine di un fallo in paradiso che resta eretto come l’alef destinato alla penetrazione della donna, per rafforzare l’idea che quest’ultima sia solo un oggetto di possesso su cui l’uomo esercita il suo diritto di conquista. Così, anche nell’aldilà, la donna rimane la cosa penetrata, posseduta. Il fallo diventa una sorta di fascinum naturale che non viene mai meno, ed è quindi il simbolo del potere e dell’autorità.

 

Adonis

 

H: Gli imam wahabiti, su YouTube, non fanno che predicare il godimento eterno. C’è persino un imam che ha usato la teoria della relatività per spiegare che al posto delle quaranta o settanta donne promesse nell’aldilà, ogni musulmano ne avrà ogni giorno, tenendo conto che il giorno ultramondano è più lungo del giorno terrestre, settanta che a loro volta avranno ciascuna settanta schiave da offrire all’uomo. Il godimento dell’uomo è senza fine e il concetto stesso di «senza limiti» significa: niente castrazione. Quel che sta accadendo oggi ci obbliga a riflettere sul rapporto dei primi commentatori del Testo con la questione della castrazione.

 

A: Quello che sta accadendo merita uno studio psicoanalitico. L’uomo e la donna del jihād sono ritratti come uniti nel godimento, all’interno di un rito che li eleva. Ognuno dei due si innalza verso qualcosa che li trascende. Cessano di essere due individui appartenenti a una società umana per diventare, dopo questa consumazione o questo rapporto, due esseri universali.

 

H: Al tempo stesso, godere prima di trovare la morte, assaporare il godimento assoluto e indicibile è un modo per assaporare l’incesto. Sul piano psichico, è una regressione. E se guardiamo da vicino la bandiera nera dell’Isis, notiamo che mancano i punti diacritici. Persino la scrittura è invitata a regredire.

 

A: La regressione è generale. E coloro che cercano un altro islam all’interno dell’islam non lo troveranno mai. L’islam dominante non riconosce ciò che lo contraddice. Abbiamo rievocato la guerra dichiarata ai filosofi, ai mistici e ai poeti. Il riconoscimento dell’altro come diverso non è contemplato. L’islam rifiuta e mette al bando tutto ciò che contraddice le sue tesi, e questo dimostra la sua estrema intolleranza. Non riconosce l’uguaglianza tra gli individui, né tra gli esseri umani. E posso aggiungere che non promuove il progresso, perché il suo presente è il passato-futuro.

 

H: Ogni movimento intellettuale si scontra con il piano politico-religioso. Bisognerebbe quindi lavorare in modo laico sul testo religioso. Solo la laicità potrebbe garantirci un’interpretazione libera e una lettura libera del nostro corpus.

 

A: Bisogna elaborare una nuova lettura, che distingua in modo profondo ed essenziale la pratica religiosa individuale dalla dimensione collettiva e sociale. Senza questa lettura innovativa e moderna, l’islam resterà prigioniero della violenza e del potere politico. C’è bisogno di una nuova interpretazione che separi ciò che è politico, culturale, sociale da ciò che attiene al credo religioso di ciascuno. La religione dovrebbe essere una questione individuale. Come è possibile che l’islam, che accetta che un ebreo e un cristiano abbandonino la loro fede per convertirsi all’islam, si rifiuti di accettare che chi nasce musulmano possa scegliere di abbracciare un’altra religione?

 

H: Quindi, secondo te, non è assolutamente possibile parlare di diversi islam?

 

A: Non esiste un islam moderato accanto a un islam estremista, né un islam vero accanto a un islam falso. C’è un solo islam. Abbiamo però la possibilità di cercare altre interpretazioni.

 

H: Abbiamo quella dei fuqahā’ (teologi), che alimentano il wahabismo e quindi la sharī‘a. Poi ci sono quelli che hanno letto la filosofia greca e occidentale, le scienze umane... e non possono più accettare questo islam delle origini. Qualcuno propone la soppressione dei versetti imbarazzanti. Ma a cosa può servire? Delle due l’una: o diciamo che è un testo divino e ce lo teniamo (cosa che appare difficile nel XXI secolo) oppure ci reinventiamo la nostra modernità. Di fatto, fin dall’inizio, noi interroghiamo gli strati pulsionali e simbolici della nostra identità.

 

A: C’è bisogno di una nuova interpretazione, libera e ponderata, e dobbiamo uscire da questa confusione fra islam e identità. La religione non è un’identità. E ricordo due circostanze: all’epoca delle conquiste islamiche, il mondo era quasi vuoto e la nuova religione non aveva davanti a sé una grande civiltà; per questo ha prevalso. Oggi, invece, ha di fronte una civiltà che ha compiuto una rottura radicale con il passato, ma l’islam non ha saputo dialogare con l’avanzata delle civiltà moderne. In questo senso, fa parte del passato. Storicamente parlando, è finito.

 

H: Gli antropologi si interessano alla religione perché i loro studi si concentrano sulle basi simboliche della cultura. Quando tu dici che l’islam «è finito», io interpreto così: l’eccesso pulsionale ha segnato la fine di una religione le cui basi erano più pulsionali che simboliche. È terribile.

 

A: Davvero terribile. Quando si osserva l’islam nel mondo attuale, si viene assaliti dall’amarezza o da un senso di rabbia e d’indignazione. Ignoranza, crudeltà, oscurantismo... Sgozzare, sbudellare le donne, violentare, saccheggiare... Questi fatti segnano la morte dell’umano. I musulmani, per giunta, non dicono niente su questa realtà. Di tanto in tanto si ode una voce qua o là, ma non esiste una vera ribellione.

 

H: A parte la paura e il condizionamento o l’indottrinamento, non potrebbe trattarsi di uno sbigottimento che inibisce la reazione e il pensiero?

 

A: In ogni caso è vergognoso.

 

H: Come la rinascita ha bisogno di un periodo di latenza, anche la caduta lo richiede. Può darsi che ciò che stiamo vivendo costituisca l’agonia di un mondo.

 

A: Sarà lunga. L’agonia sarà lunga. Lo dico con rammarico. Sono stato iniziato da mio padre, che era musulmano, alla religione e alla poesia.

 

H: Hai scritto un testo sulla mancanza di progresso scientifico nella concezione islamica. Ma le scienze umane non hanno ancora fatto davvero ingresso sulla scena intellettuale araba. Per esempio, i demoni sono proiezioni, ma dirlo equivale a bestemmiare, perché la loro esistenza è attestata dal testo coranico. Ci sono individui psicotici che parlano di geni o folletti definiti jinn, ma la società, plasmata dall’insegnamento religioso, protegge la loro psicosi. Nelle nostre società si comincia a malapena a parlare di psicosi e di nevrosi.

 

A: Ancora oggi, persino negli ambienti accademici, si continua a parlare di matrimonio fra un uomo e una diavolessa o fra una donna e un genio.

 

H: Nel primo caso, si tratta di Bilqis, che nella versione musulmana divenne la donna di Salomone. La leggenda vuole che sia per metà umana e per metà diavolessa. Io direi: come ogni donna, purché non ci si perda nei meandri di un’interpretazione letterale.

 

A: Si può dire che l’islam è un terreno molto ricco per gli psicoanalisti come te. La cultura musulmana è dominata dal pensiero magico, dalla leggenda e dalla superstizione. I musulmani sono ossessionati da leggende considerate alla stregua di verità assolute. Non c’è nessuno spazio per il pensiero scientifico.

 

H: Il pensiero magico, protetto dalla religione e dall’analfabetismo, ostacola e impedisce il radicamento in terra araba della psicoanalisi, la quale rimane un pensiero ateo, che si immerge nelle profondità dell’umano. Queste profondità sono le pulsioni, la bisessualità psichica, la fantasia... Non abbiamo ancora riflettuto, all’interno della nostra cultura, sull’assenza dell’uccisione del padre nell’islam, sul problema della scissione nei primi narratori che descrivevano l’orrore senza il minimo pathos...

 

A: Ogni conoscenza psicoanalitica o filosofica che possa allargare gli orizzonti o decostruire la leggenda viene combattuta. L’islam è antipsicoanalitico per definizione, perché la psicoanalisi apre nuovi orizzonti alla riflessione e al pensiero.

 

H: Può persino spodestare Dio.

 

A: Senza dubbio. La psicoanalisi, nella sua essenza, rompe con la religione.

 

H: In questo contesto, è difficile che il mondo arabo possa dare alla luce un Freud.

 

A: Freud non è nato in un paese ebraico. Era un europeo di origine ebraica che viveva a Vienna. Ci sono ebrei il cui pensiero è svincolato dalla religione. Ma l’islam è nato, come si è detto, in quanto potere, perciò ostacola ogni pensiero che possa metterlo in discussione e minare i suoi fondamenti. E gli arabi provenienti dalle società arabe diventano francesi, americani, canadesi o tedeschi. Quelli che oggi vivono in Francia, come te e come me, non fanno parte, in senso stretto, della società araba o della cultura musulmana. Che cos’hai a che fare tu con la cultura araba, a parte l’amore che provi per la tua famiglia?

 

H: Mi rimane l’amore per la lingua e il desiderio di trasformare la storia-leggenda in una storia-lavoro, per usare la formula di Michel de Certeau.

 

A: L’islam ha represso persino la lingua. Non ha lasciato che si esprimesse liberamente in tutti i domini del sapere. La nostra lingua odierna dovrebbe aprirsi alla modernità.

 

H: È un peccato che chi non legge l’arabo non possa comprendere fino a quale punto tu decostruisci il testo coranico, come fai sia in Le livre du siège, sia in Ismaël e in Al-Kitāb. Continuo a pensare che il lettore occidentale di Adonis non colga la profondità della decostruzione e la non religiosità della sua opera. Quando tu ti appropri di un versetto, riesci a rendere il radicarsi della leggenda e del pensiero magico nella cultura musulmana.

 

A: Sentivo il bisogno di decostruire questa cultura religiosa, di rimettere in moto il pensiero e la lingua. Ma se tu, oggi, mi chiedessi cosa posso dare in quanto musulmano, ti risponderei che in quanto musulmano non posso dare nulla.

 

H: Tu ami Cristo!

 

A: Come amo Ibn ‘Arabī, Niffarī, Abū Nuwās... come amo la poesia e la creatività. Cristo era un poeta.

 

 

1. Corano 8:17.

2. Corano 55:27.

 

 

 

Il brano è stato tratto da:

Adonis, Violenza e Islam. Conversazioni con Houria Abdelouahed, trad. it. di Sergio Levi, Guanda 2015 (ed. or. Le seuil, 2015), pp. 192, € 14,00, pp. 109-124.

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