Bruno Latour contro la modernità

18 Ottobre 2023

Lo scaffale con i libri di Bruno Latour, adesso che è scomparso (ed è già un anno), si riempie sempre di più. Bizzarria? Per nulla. È come se la notorietà di questo sociologo-antropologo-filosofo-semiologo – in qualche modo trattenuta, con lui in vita, anche grazie alla prolificità, alla prontezza nell’intervenire, all’acutezza nell’interpretare, alla lucidità nel reagire che lo caratterizzavano – fosse infine esplosa per così dire serenamente, senza tema di un suo pronto intervento in merito alle teorie, alle politiche, alle faccende complesse delle società contemporanee e, soprattutto, dei suoi interpreti. Da qui il flusso continuo di ripubblicazioni, traduzioni, raccolte di scritti, saggi su, paper e poster, convegni e relativi atti che, appunto, si stringono euforicamente su quello scaffale che sta trasbordando. Tutti ne parlano, tutti lo vogliono, tutti lo citano, a proposito o a sproposito non importa, come una coperta troppo corta che ognuno tira nella propria direzione. Finalmente, viene da dire.

Il fatto è che, si sa, su Latour è pesata a lungo una fatwa greve: quella di chi lo ha accusato in contumacia d’essere un relativista sfegatato, un nomade del pensiero, un criticone senza arte né parte, un pericoloso negazionista. Tutto comincia negli anni Novanta con la celebre beffa perpetrata dal fisico americano Alain Sokal ai danni di una rivista americana, “Social Text”, e soprattutto di ciò che essa rappresenta: la cosiddetta French Theory, ovvero il pensiero parigino post-strutturalista trasferito, tradotto, e parzialmente tradito, negli Stati Uniti alla fine del secolo scorso. Sokal riesce a pubblicare in quelle pagine un finto articolo sulla meccanica quantistica riletta alla luce del pensiero di Lacan e Irigaray, Althusser e Derrida, Lyotard e Deleuze, Serres e, appunto, Latour, usando citazioni reali di questi autori in un contesto che li ridicoleggiava. Una specie di pastiche che fa molto scalpore mediatico, in nome di una visione sostanzialmente positivista della scienza e, a conti fatti, del peggiore senso comune. 

Così, in un libro dal titolo feroce, Imposture intellettuali, pubblicato da Sokal con il collega belga Jean Bricmont nel ‘99, Bruno Latour, in ottima compagnia, viene accusato di confondere i fatti con le scoperte scientifiche, la realtà con la sua rappresentazione, la natura immemore e silenziosa con la parola di chi la studia. E in molti vanno dietro ai due fisici, demonizzando in blocco il fior fiore dell’intellighenzia francese e no, fra cui Bruno Latour, colpevole ai loro occhi di disprezzare la verità e la scienza – senza averlo minimamente letto o, peggio, capito. A poco a poco si crea un fronte agguerritissimo che, in nome di un generico universalismo veritativo, riunisce oltranzisti come papa Ratzinger a spregiudicati filosofi di sinistra, onesti scienziati di mezzo mondo a sofisticati epistemologi dell’accademia, sempre pronti, questi ultimi, ad accusare il cosiddetto relativismo di derive nazifasciste – al grido per cui, se anything goes, andrà bene anche il Mein Kampf

Col senno di poi lo scossone si rivela efficace. Ma al contrario. Non solo dà a Latour una notorietà transatlantica insperata, ma lo sprona a chiarire le sue posizioni, ad approfondire le sue teorie, a divulgare al meglio il suo pensiero: da cui volumi decisivi come Politiche della natura (1999), Pandora’s Hope (stesso anno), Riassemblare il sociale (2005), Cogitamus (2010), Enquêtes sur les modes d'existence (2012), Tracciare la rotta (2018) e così via. Non mi interessa il relativismo, dice a più riprese e a gran voce, semmai il relazionalismo, che è cosa ben diversa: studio reti di senso, intrecci di pensieri e pratiche, di idee e tecnologie. E del resto, continua, non sono io a confondere fatti e valori, cose e idee, realtà e rappresentazioni, ma la modernità occidentale, sempre pronta a spalleggiare la scienza con la politica e, parallelamente, a legittimare il potere con l’autorevolezza (l’autorità) delle enunciazioni pretese definitive pronunciate nei laboratori sperimentali.

Così, a fronte di chi lo accusa di nichilismo (se la legge di gravità è da decostruire, gli suggeriscono perfidamente, perché non ti getti dalla finestra?), Bruno Latour raffina al meglio gli strumenti di analisi già utilizzati in libri come La scienza in azione (1989) o Non siamo mai stati moderni (1991), e contemporaneamente fa di tutto per superare l’asfittica opposizione fra universalismo e relativismo, razionalismo e scetticismo, chiarendo come le sue accurate ricostruzioni degli intrecci fra discorso scientifico e altre concomitanti prese di parola (politica, economica, ecologica, artistica etc.) non portino affatto all’appiattimento di tutti i valori ma, proprio al contrario, a una costante vigilanza circa le loro inevitabili ricadute sociali. Indicare le reti di relazioni fra i diversi soggetti – umani e non umani – che si agitano nel mondo è a suo avviso il miglior modo per soppesare le valenze anche politiche di ognuno di essi. Altro che anything goes

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Da qui, fra l’altro, Disinventare la modernità (pp. 106, € 14), prezioso libro-intervista del 2005 che Eleuthera rimanda adesso in libreria con una nuova importante introduzione di Telmo Pievani. Rispondendo alle domande incalzanti di François Ewald, acuto filosofo foucaultiano, Latour ha modo di ripartire da zero, chiarendo passo passo il senso del proprio percorso intellettuale, nonché le ragioni delle sue teorie tanto assennate quanto dissacranti. Proviamo a ripercorrere le tappe principali di questo cammino.

Tutto ha inizio negli anni Sessanta a Abidjan, in Costa d’Avorio, dove il giovane Latour, mandato lì per modernizzare le industrie locali, coglie immediatamente un problema: che cosa significa modernizzare? se e come imporre valori europei all’Africa postcoloniale? sulla base di quali convinzioni culturali dovremmo sovrapporre la cultura occidentale moderna a quella locale? Per rispondere a questi interrogativi, pensa, occorre istituire una base teorica forte: se pure esiste da tempo una sofisticata antropologia africanista, non ne esiste una simmetrica che studi gli europei. Ecco il progetto cui Latour non è mai venuto meno: un’antropologia dei moderni che ricostruisca i meccanismi etnologici profondi che pongono in essere qualcosa come il pacchetto di valori dell’Occidente. Ma come si producono tali valori? a partire da quali fondamenti, da quali certezze, da quali convinzioni ideologiche, da quali verità?

Si forma così, poco a poco, un progetto di ricerca del tutto originale che porta Latour a San Diego, California, dove entra, con curiosità e sguardo antropologici, in un laboratorio scientifico, alla ricerca dei dispositivi semiotici grazie ai quali la parola finale della scienza viene considerata, una volta riversata in società, fonte di indiscussa verità. Per lui, il problema non è decidere se certe teorie scientifiche siano corrette o meno (quello è compito dell’epistemologia), né tantomeno di studiarne i presupposti e gli effetti di potere (come fa certa sociologia). Piuttosto, ciò di cui questo antropologo sui generis va in cerca, è la ragione per cui esse, le teorie scientifiche, sono agli occhi del mondo la fonte unica e sola della razionalità e del metodo, portando così a immettere nel mondo sociale, economico, politico, emotivo e estetico occidentale esseri nuovi, cose ed entità prima non conosciute, dunque non considerate, non trattate, come dire non esistenti. C’erano i microbi prima di Pasteur? Sì e no: stavano come nascosti, in attesa che, fortunosamente, qualcuno li additasse, li mostrasse, li rendesse visibili, li inserisse cioè nella società, con le sue pratiche mediche, i suoi valori salutisti, le sue crisi sanitarie e così via. Rendendoli, per così dire, reali. Una scoperta scientifica ha conseguenze ontologiche precise: fonda esseri nuovi, e li mette in circolazione. Leggiamo: “Le scienze mettono gli umani in relazione con esseri che, se le scienze non esistessero, non farebbero parte del mondo comune. Ad esempio danno particelle elementari, embrioni, transistor; forniscono legami che ci permettono di vivere le nostre esistenze con una moltitudine di esseri che vengono così socializzati fra di noi, irregimentati, esseri che possiedono un gran numero di proprietà singolari che ci sfuggono ampiamente”.

Le idee scientifiche, per affermarsi nell’arena del sapere, hanno una loro base materiale che le sostiene, una base che sta dove meno ce lo aspetteremmo – nella disposizione degli spazi entro un laboratorio, nelle relazioni familiari dei ricercatori, nel metodo di lavoro, nei finanziamenti esterni, negli scritti, nelle mail, nei computer e relative applicazioni a supporto etc. –, ossia giusto là dove, come sanno bene gli antropologi, si istituiscono e si trasformano le culture umane, le società. E tali società non sono altro, allora, che reti di attori di tutti i tipi – esseri umani, istituzioni, tecnologie, entità naturali, ideologie, forze in gioco… – in continua trasformazione, di cui, a un certo punto, facciamo come un’istantanea e dichiariamo: ecco la Francia, ecco l’Italia, ecco la California – esattamente come gli etnologi dicono, dopo accurate e pazienti osservazioni sul campo: ecco la Costa d’Avorio.

Cosa c’entra tutto questo con il relativismo? Latour non fa altro che occuparsi della verità, del suo senso, della sua efficacia pragmatica: dopo la scienza studierà difatti altre sue fonti costitutive, come il diritto, la religione, la tecnica, la finzione, la politica, assegnando a ciascuna di esse un preciso modo di esistenza, nelle rispettive relazioni, nelle reciproche traduzioni e ibridazioni. In un mondo comune, si dà perciò una pluralità di discorsi, ciascuno dei quali negozia diplomaticamente con altri le proprie ragioni, i propri valori.

Il testo introduttivo di Telmo Pievani è molto chiaro su questo punto: Latour, in quanto “filosofo dell’inclusione, delle associazioni, delle concatenazioni di entità diverse che ri-assemblano incessantemente il naturale e il sociale”, è un realista che studia i processi di costruzione delle verità scientifiche, “un pluralista immune da qualsiasi tentazione disfattista post-moderna”. Non essendo mai stati moderni, come potremmo del resto essere post-moderni? Il suo presunto relativismo, da questo punto di vista, è un punto di partenza, non certo di arrivo: “è la postura intellettuale di chi si apre alla ricchezza di cosmologie, quadri concettuali e linguaggi dell’umanità, esplorando reti di traduzioni locali fra loro, e rinunciando a una teoria della razionalità che li comprenda tutti”. I punti di arrivo sono di là da venire, con buona pace di Sokal e soci.

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