La cuoca di Lenin

3 Ottobre 2023

La cuoca di Lenin, figura leggendaria, era com’è noto una metafora, o meglio un’allegoria, un modo di dire. Nella società comunista potrà governare perfino la mia cuciniera, sembra amasse ripetere Vladimir Il′ič Ul′janov per illustrare l’idea del proletariato al potere. La metafora sarà stata forse euforica per l’utopia comunista, ma si rivelava parecchio svilente per le cuoche, collocate assai in basso nella scala sociale da quell’avverbio malefico – perfino – che ne presupponeva un ruolo infimo, degradato. Tutto il contrario delle attuali, soverchianti mitologie degli chef.

Ma che nesso c’è, e soprattutto c’è stato, fra cucina e politica, fra praticoni dell’una e dell’altra, dunque fra cucinieri e governanti? Qualche anno fa è uscito un bel film intitolato La cuoca del presidente, diretto da Christian Vincent, che raccontava la storia di Danièle Delpeuch, cuoca perigordina assunta all’Eliseo per soddisfare i gusti e le esigenze dietetiche di François Mitterrand. Desideroso di cibi genuini, infrangendo etichette e cerimoniali il Presidente aveva fatto ingaggiare Danièle perché esperta di fois gras e tartufi, porcini e pere al vino – la quale, dal canto suo, mai avrebbe immaginato di poter esser apprezzata tanto in alto. Aldo Moro invece, come abbiamo visto nella serie tv Esterno notte, preferiva cucinare da sé un uovo al tegamino quando rientrava silenziosamente a casa a tarda notte. 

Alquanto diverse le storie raccontate dal giornalista polacco Witold Szablonski in Come sfamare un dittatore, appena uscito per Keller (traduzione di Marzena Borejczuk, pp. 316, €  18,50), dato che i protagonisti del libro sono, da un lato, spietati aguzzini del calibro di Saddam Hussein, Idi Amin, Enver Hoxha, Fidel Castro e Pol Pot, mentre, dall’altro, figure tanto anonime quanto decisive che per costoro hanno cucinato quotidianamente e a lungo, seguendoli laddove occorresse, dal fronte delle varie guerre alle fastose residenze estive nelle quali amavano intrattenersi con le amanti di turno. Visti dalla prospettiva di chi preparava loro manicaretti sopraffini e colazioni al sacco, questi signori spietati, sanguinari, violentissimi con tutto e con tutti si confermano, certo, per quel che erano – matti senza quartiere –, rivelando al contempo i nessi spesso serratissimi fra papille e conflitti, stomaco e risoluzioni, gusto e politica. Il cibo, si sa, ha relazioni molto strette con le emozioni e i sentimenti, confermandoli o  trasformandoli a seconda dei casi, influendo perciò in modo determinante coi processi cognitivi, il problem solving d’ogni giorno, le piccole e grandi decisioni. Sfamare un dittatore – ha intuito ingegnosamente Szablonski, che ha girato mezzo mondo alla ricerca di questi eroi senza volto e senza opportuno riconoscimento –  poteva significare così, di quando in quando, evitare una strage, deviare il corso di una carneficina, diminuire l’asprezza di una tortura. Come anche, stando nel tinello di casa, come dire al cuore del potere, partecipare agli ideali spesso malsani di questi simpaticoni. Yong Moeun, per esempio, preparava regolarmente zuppa agrodolce e insalata di papaia per Fratello Pol Pot perché sostanzialmente lo amava, lo trovava bello e seducente, abile e simpatico, aderendo in tutto e per tutto all’ideologia dei khmer rossi che in pochi anni quasi dimezzarono il numero degli abitanti della Cambogia. Assai diverso il rapporto fra Otonde Odera e Idi Amin Dada, il sanguinario dittatore ugandese sospettato di dare in pasto ai coccodrilli i nemici politici, conservandone in freezer dei grossi pezzi per i banchetti delle grandi occasioni. Otonde non vedeva l’ora di fuggire dalle grinfie del malfattore, e costui non lo faceva fuori sol perché la capra al forno del suo cuoco recalcitrante era ineguagliabile. Chissà chi gli cucinava invece i fegati degli oppositori al regime.

In un modo come nell’altro, il libro racconta la vita privata di questi cinque dittatori e di quelli che più o meno regolarmente li circondavano: moglie e figli, fidanzate e madri, guardaspalle e segretari, ma poi soprattutto camerieri e assaggiatori. Se la passione predominante dello staff, palpabile a tutti i livelli, era certamente la paura d’esser mandati da un momento all’altro al patibolo o d’esser sbattuti in un lager, anche il dittatore, qualunque esso sia, ha un terrore costante, imprescindibile, acuto: quello d’essere avvelenato. Da cui appunto la figura principe dell’assaggiatore, comprimario in questo di quella del cuoco che, spesso, si trovava costretto a ingurgitare in prima persona ciò che si trovava nei piatti che stavano per esser serviti a Fidel o a Enver, a Idi o a Saddam. Così il cibo, prima ancora d’essere sostentamento o piacere, ricordo d’infanzia o simbolo d’identità territoriale, era per il dittatore un probabile veleno; cosa che il cuoco non poteva non tenere in considerazione quando redigeva un menu, pena la vita.

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Del resto, a sentire i racconti di questi eroici cucinieri – Erasmo Hernandez per Castro, il signor K per Hoxha, Abu Alì per Hussein e i due già menzionati Otonde Odera per Amin e Yong Moeun per Pol Pot – i loro capi avevano gusti semplici, per non dire banali, perennemente desiderosi di cibo locale, di pietanze che le madri o le nonne predisponevano per loro da bambini. Inutile aspettarsi in queste pagine descrizioni di pranzi luculliani, banchetti da Trimalcione, ricche tavolate da famiglia regnante inglese. Così Saddam Hussein si faceva preparare quanto meno una volta alla settimana la kofta (piccantissimo macinato di manzo e agnello servito come companatico della pita) oppure la zuppa alla ladrona, brodaglia immonda a base di pesci grassissimi come il lucio-barbus o la carpa, sol perché del Tikrit, regione irachena d’origine da cui il dittatore importava feroci sodali e cattivo gusto. Analogamente il signor K – che ancor oggi, perennemente terrorizzato da possibili rappresaglie, preferisce mantenere l’anonimato – cucinava al terribile Enver Hoxha (che per oltre cinquant’anni ha governato l’Albania comunista con brutalità inenarrabile) soltanto piatti provenienti da Argirocastro, città in cui il dittatore era nato. Fra questi il più amato era la sheqerpare, un dessert assai semplice tipo torta della nonna. Pol Pot, dal canto suo, nonostante il lungo soggiorno parigino, mangiava soprattutto robe provenienti dalla giungla, dove s’era rifugiato per organizzare nel dettaglio la sua delirante rivoluzione cambogiana. Quanto a Fidel, in questo spalleggiato dal Che, era più oltranzista di lui, mangiava quello che mangiavano i suoi soldati: altrimenti perché dichiararsi comunisti? Salvo poi peccare di gola dinnanzi a un ajiaco, tipico piatto cubano cucinatogli dal suo amato Erasmo. In controtendenza Idi Amin che, rinnegando il suo stesso credo indipendentista, preferiva gustare i cibi dei colonizzatori bianchi come la t-bone steak o il pudding di frutta secca. 

Questa specie di irredentismo gastronomico perpetrato da personaggi di tal fatta dovrebbe far riflettere i fanatici dell’identità culinaria locale e della cosiddetta sovranità alimentare (che non a caso tanto piace all’attuale governo). La cucina è sempre traduzione e ibridazione, mescolanza e, perché no, tradimento. Chiudersi in sé alla ricerca di presunte verità è sciocco, se non peggio. Lo sa bene, del resto, il nostro autore, che nelle prime pagine del libro racconta il suo passato da sguattero polacco in un ristorante di Copenaghen. Questo ristorante danese serviva piatti messicani come burrito e fajita, in cucina c’era due curdi iracheni che mai erano stati in Centr’America ed era gestito da un ricco signore arabo che l’aveva rilevato da un canadese attempato. Invenzione di una tradizione?

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