Speciale

Calvino guarda il mondo

15 Novembre 2023

Scripturalist

“Non sono stato precoce per niente. Neppure a leggere”. Così ha scritto di sé Italo Calvino. Ma c’è da dubitare che abbia detto il vero, dal momento che a diciassette anni, nel 1940, pubblica quattro vignette sulla rivista “Bertoldo” di Giovanni Guareschi e Giovanni Mosca e a diciotto collabora con almeno tre recensioni cinematografiche al “Giornale di Imperia”, inserto del “Giornale di Genova” – una delle tre è andata persa, si sa solo che era dedicata a Ombre rosse. Ma è dal disegno che bisogna partire se si vuole capire cosa significhi per lo scrittore ligure “guardare”, e trovare un significato specifico alla frase che scrive nel 1960 in una lettera al suo editor francese, François Wahl: “quello a cui io tendo, l’unica cosa che vorrei insegnare è un modo di guardare, cioè di essere in mezzo al mondo”. 

Firmate con lo pseudonimo di Jago, le illustrazioni dal tono umoristico e sarcastico sono pubblicate nella rubrica “Il Cestino” del “Bertoldo”, curata dallo stesso Guareschi e aperta ai giovani disegnatori non professionisti, e seguono un gusto nuovo all’epoca. Appaiono come vignette, con un dialogo in due o tre battute scritte sotto il disegno. Sono freddure; una delle tre non troppo velatamente è critica verso il regime fascista – ironizza sul dettato di usare il “voi” al posto del “tu”. Calvino firma con Jago le vignette. Sarà il personaggio di Shakespeare o forse lo pseudonimo viene da Santiago, la città cubana dove era nato? Assumerà questo nome come nome di battaglia da partigiano; esiste anche una vignetta non pubblicata sulla rivista firmata con questo nome per esteso. Lo stile del disegno s’inserisce nel solco dei collaboratori del settimanale milanese: c’è qualcosa del tratto di Mosca e anche di Saul Steinberg, il quale, dopo l’uscita del primo numero del “Bertoldo” nel 1936, è diventato una delle colonne del periodico; vi disegnava spesso la copertina, senza tuttavia scriverne i testi, affidati invece a Mosca. L’elemento grottesco è la cifra del giornale e domina nei disegni dello stesso Jago; in questi ultimi si sente anche la passione di Calvino per un disegnatore sanremese che ha avuto una notevole influenza su di lui, Antonio Rubino. 

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Frequentatore di casa dei genitori, la Villa Meridiana, Rubino, secondo quanto ha raccontato Calvino allo scrittore Gianni Celati, intratteneva il piccolo Italo con il suo segno elegante, stile art nouveau. Parlandone in una conversazione dedicata al tema della fantasia, Celati ha sostenuto che la forza immaginativa dello stesso scrivere di Calvino deriva proprio da quel marchio di fabbrica, dall’essere stato, prima ancora che uno scrittore, un disegnatore. Ricordava che, in una delle conversazioni avute con lui a Roccamare, Italo si era definito il maggior scripturalist italiano, un termine che Celati dice di non sapere bene dove l’avesse trovato, ma che a suo avviso appariva perfetto nel definire il “lavoro di fantasia che seguiva certi spunti narrativi e usava la scrittura come una specie di disegno a mano libera”. 

In quella stessa occasione, con una battuta autoironica, Calvino spiega a Celati la sua necessità di porsi dei limiti, delle contraintes, per non seguire troppo pedissequamente la sua capacità di disegno, in cui il tratto sgorga da sé sul foglio come se fosse guidato da qualcosa di irresistibile, cosa che accade sovente ai disegnatori, in primis proprio a quel Saul Steinberg tanto ammirato sia dal giovane Calvino, come anche dallo scrittore adulto. Mettere dei limiti, imporre alla facoltà immaginativa un argine, gli impediva di diventare, come diceva, uno scrittore dilettante: “Io devo pormi degli ostacoli, altrimenti sono uno scrittore della domenica”, riferisce Celati in una conversazione con Massimo Rizzante.

In un articolo del 1984, Scrittori che disegnano, dedicato a una mostra parigina, apparso prima su “La Repubblica”, poi raccolto poi in Collezione di sabbia, Calvino scrive: “La spinta dell’energia grafica di momento in momento si trova di fronte a un bivio: continuare a evocare i propri fantasmi attraverso l’uniforme stillicidio alfabetico oppure inseguirli nell’immediatezza visiva d’un rapido schizzo”. Probabile che qui parli di sé stesso, e per quanto abbia continuato a disegnare più per gioco che per altro, la scelta di usare “l’uniforme stillicidio alfabetico” sia stata per lui una strada senza ritorno.

Cartoons

“Passavo le ore percorrendo i cartoons d’ogni serie da un numero all’altro, mi raccontavo mentalmente le storie interpretando le scene in diversi modi, producevo delle varianti, fondevo i singoli episodi in una storia più ampia, scoprivo e isolavo e collegavo delle costanti in ogni serie, contaminavo una serie con l’altra, immaginavo nuove serie in cui personaggi secondari diventavano protagonisti”. Così nella lezione americana Visibilità descrive la propria iniziazione all’immagine, che è anche una iniziazione all’arte del racconto. Una volta imparato a leggere, al giovane Italo il vantaggio appare tutto sommato minimo: “Comunque io preferivo ignorare le righe scritte e continuare nella mia occupazione favorita di fantasticare dentro le figure e nella loro successione”. Spiega poi che questa abitudine aveva provocato altri problemi, tra cui un ritardo nella capacità di concentrarsi sulla parola scritta, per quanto “la lettura delle figure senza parole” era stata per lui “una scuola di fabulazione, di stilizzazione, di composizione dell’immagine”.

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Se dobbiamo credere a Calvino, questa è la sua personale “leggenda d’artista”, il modo con cui lo scrittore ligure spiega la propria propensione per l’immagine e per il pensiero visivo in generale, un aspetto che ha determinato non solo una passione per le figure, ma anche una particolare disposizione a connettere l’immagine a quella che nella lezione definisce “fabulazione”, la caratteristica peculiare del suo stile letterario, insieme a un atteggiamento per il guardare, cui ha riservato ampio spazio nella sua attività. 

Guardare è un’attività che, come suggeriscono gli psicologi della percezione, implica un allontanamento dall’oggetto guardato, una distanza, e più di un critico – il primo è stato Cesare Cases – ha parlato al riguardo di “pathos della distanza”, descrivendo un atteggiamento simile a quello di uno dei suoi più celebri personaggi, Cosimo Piovasco di Rondò, protagonista del Barone rampante. Il giovane nobile vive la propria vita sugli alberi guardando da lassù quel mondo in cui abitano e agiscono tutti gli altri, dai familiari alla donna che ama, Viola. Anche un altro dei suoi personaggi, che pare somigliare per molti tratti allo scrittore ligure, Amerigo Ormea, protagonista del romanzo La giornata di uno scrutatore (1963), è interessato all’attività di guardare, in particolare ai ritratti fotografici delle monache che si recano al seggio elettorale. La parola “scrutatore” indica il servizio che Ormea assolve nel seggio elettorale all’interno del Cottolengo di Torino su mandato del partito a cui è iscritto, il Partito Comunista Italiano, e insieme specifica anche un modo del guardare che comporta attenzione, ricerca e indagine. Allo stesso modo anche il signor Palomar, personaggio che dà il titolo a uno dei suoi ultimi libri (1983), è un campione di osservazioni e visioni, per lo più destinate a uno scacco epistemologico – il signor Palomar vuole non solo guardare, ma agire anche sugli “oggetti” che osserva, i quali gli sfuggono come accade nel primo racconto dedicato alle onde del mare. 

Immaginazione

L’istanza visiva in Calvino implica prima di tutto la presenza di qualcosa di non razionale, che egli stesso chiama “immaginazione”, e che è collegata con la parte razionale della sua personalità di scrittore – la possiamo chiamare “ragione”. Le due componenti di questo “carattere” – immaginazione e ragione – si fondono così in una forma unica. Come spiega a Wahl nella lettera del 1960, l’immagine funziona come motore d’avvio della narrazione con le sue componenti intuitive, irrazionali, illogiche, che implicano, immediatamente dopo, la presenza d’una logica che scandagli l’interno dell’immagine stessa, per dare forma a una storia.

Nella lezione dedicata alla Visibilità Calvino elenca le proprie procedure visive secondo un ordine progressivo: osservazione diretta del mondo reale; trasfigurazione fantasmatica e onirica; processo di astrazione; condensazione e interiorizzazione dell’esperienza sensibile. Mentre le prime due – osservazione e trasfigurazione – sono abbastanza consuete in molti scrittori, l’astrazione indica invece la presenza di un elemento che possiamo definire geometrico – parola che Calvino ha usato i più di un’occasione –, aspetto che è stato più volte indicato dai suoi critici come un limite dell’ultimo Calvino, ma che, a ben guardare, è già operante sin dai suoi primi racconti, quelli che sono raccolti nel volume del 1949: Ultimo viene il corvo. Proprio il racconto con questo titolo è un perfetto esempio della capacità di geometrizzare il racconto da parte dello scrittore. 

In questa sequenza enunciata nella lezione sulla Visibilità, all’astrazione succede la condensazione, che indica il passaggio da uno stato all’altro della materia immaginativa, proprio come accade alla materia stessa nella transizione, ad esempio, dallo stato di vapore a quello liquido; per poi giungere all’interiorizzazione, per cui l’immagine di partenza diventa un motivo che indirizza il racconto in una precisa direzione narrativa. 

Nel caso di Pin l’immagine-motivo sono i “nidi dei ragni”, in cui il ragazzino nasconde l’oggetto topico della storia, il revolver sottratto all’amante tedesco della sorella, nidi che sono metafora della sua aspirazione alla protezione e all’affetto – poi si è anche scoperto che esistono ragni che formano sacche lanuginose che mimano appunto la forma del “nido”. L’esperienza sensibile è quindi sempre presente nei testi dello scrittore ligure e riveste una “importanza decisiva tanto nella visualizzazione quanto nella verbalizzazione del pensiero”, fino a diventare oggetto di un libro rimasto incompiuto dedicato ai cinque sensi, uscito postumo, con il titolo di Sotto il sole giaguaro.

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Dunque non tutto è razionale nel procedimento immaginativo di Calvino, anzi è vero proprio il contrario: “le soluzioni visive continuano a essere determinanti, e talora arrivano inaspettatamente a decidere situazioni che né le congetture del pensiero né le risorse del linguaggio riuscirebbero a risolvere”, afferma in Visibilità. Lo scrittore sa che la fantasia imprime uno scatto all’immaginazione, ma da sola non basta, per cui l’elemento costruttivo, logico e geometrico, diventa per lui fondamentale.

Occhio-mente

Guardare è un atto complesso e il sistema occhio-mente, su cui Calvino si sofferma in Palomar (1983) e in Collezione di sabbia (1984), è una delle risorse più importanti a livello biologico e anche antropologico, poiché a definire la fantasia concorre “il mondo figurativo trasmesso dalla cultura ai suoi vari livelli”, come scrive sempre nella medesima lezione americana. Lo scrittore irrobustisce la propria naturale immaginazione visiva ricorrendo a varie fonti culturali, come mostrano le storie di Qfwfq, protagonista delle Cosmicomiche, racconti nati da frasi o aforismi scientifici ricavati dalla lettura di riviste o libri. 

Se all’epoca della stesura del Sentiero, Calvino è ancora un autodidatta che narra la storia di Pin dentro il paesaggio ligure, quando pubblica Ti con zero (1967) e Le città invisibili (1972) ha accresciuto la propria consapevolezza letteraria fino a cercare di comprendere come funziona la propria personale macchina narrativa. Per questo dalla fine degli anni Cinquanta incontriamo nei suoi libri personaggi che s’interrogano sui processi percettivi legati al vedere e al guardare, tanto da produrre una narrazione che problematizza sé stessa, attivando in questo modo un dispositivo metanarrativo.

Un esempio ce lo offre Il cavaliere inesistente (1959), in cui Suor Teodora, voce narrante, si dichiara autrice della storia che sta imbastendo utilizzando le carte d’una antica cronaca. Nel capitolo ix, per accelerare il ritmo del suo racconto, s’immagina di passare direttamente al disegno: “Istoriare ogni pagina con duelli e battaglie”, di “incidere il foglio” per mostrare il percorso di una biscia in mezzo all’erba. Così nell’Origine degli uccelli, incluso in Ti con zero, lo scrittore utilizza l’espediente della sceneggiatura di un fumetto per raccontare i cartoons – “Nella striscia di fumetti che segue si vede il più sapiente di tutti noi, il vecchio U(h) che si stacca dal gruppo…” –, un procedimento opposto a quello descritto nella rievocazione della sua attività infantile con il “Corriere dei Piccoli” tra le mani. E in questo racconto lo fa ricorrendo alla parola scritta, che mima il disegno, oppure lo evoca come ulteriore possibilità espressiva.

Superficie

Uno dei temi fondamentali del visivo calviniano è senza dubbio la “superficie”, non solo quella dei quadri, delle fotografie o delle immagini di cui si occupa, ma quella che si presenta come la forma del mondo stesso. Nella prosa intitolata Dall’opaco (1971), dedicata al paesaggio ligure, il mondo è presentato attraverso un racconto molto astratto in cui la superfice è determinata da orientamenti che sembrano aggirare, o almeno risolvere, il problema della profondità. A un certo punto della lezione sulla Leggerezza confessa di voler sfuggire proprio a questo mito romantico. Con un aforisma tratto da Hugo von Hofmannsthal, Calvino compendia la propria idea del mondo visibile: “La profondità va nascosta. Dove? Alla superficie”. 

La superficie è una metafora che sintetizza due aspetti che Calvino pare respingere in modo dichiarato: la profondità psicologica, ovvero le istanze dell’Io, e la gravità del pensiero, ovvero il peso del mondo, che è una delle sue ossessioni che lo tallona come una sorta di doppio della sua opera. Tra i progetti di racconti in chiave autobiografica, che dovevano prendere il titolo di Passaggi obbligati, una autobiografia senza Io, ne esiste uno il cui titolo ipotetico è Istruzioni per il sosia. Quella dualità espressa nella coppia razionale/irrazionale era stata ipotizzata anche per il signor Palomar; doveva aveva un suo opposto e simmetrico, il signor Mohole, il “negativo”, che è poi il nome di un progetto per investigare la profondità del Pianeta Terra arrivando sino a 6000 metri di profondità; poi Calvino optò per il solo Palomar arrivando alla conclusione che la profondità era nella superficie secondo l’aforisma di Hoffmansthal. 

La predilezione per il visibile si connette senza dubbio al suo carattere, come ha scritto lui stesso lucidamente a Wahl. Il narratore di Palomar, schermo sottile che lo separa dalla completa identificazione con il suo personaggio, sentenzierà: “Solo dopo aver conosciuto la superficie delle cose ci si può spingere a cercare quello che c’è sotto. Ma la superficie delle cose è inesauribile”. 

Descrivere e dipingere

Per questa ragione Calvino dà grande importanza alla descrizione quale strumento conoscitivo del mondo inteso come superficie che si coglie con lo sguardo. Tuttavia anche la descrizione presenta un problema irrisolvibile, come spiega nell’introduzione alla sezione Osservare e descrivere di un’antologia per la scuola che realizza per Zanichelli tra il 1969 e il 1972: “Descrivere vuol dire tentare delle approssimazioni che ci portano sempre un po’ più vicino a quello che vogliamo dire, e nello stesso tempo ci lasciano sempre un po’ insoddisfatti, per cui dobbiamo continuamente rimetterci a osservare e a cercare come esprimere meglio quello che abbiamo osservato”. 

L’inesauribilità della superficie ha così una doppia valenza: da un lato positivo, in quanto dispone all’osservazione del mondo con uno sguardo sorpreso e meravigliato; dall’altro negativo, poiché non è mai possibile esaurire la descrizione della superficie delle cose. Il nevrotico signor Palomar manifesta una forte insoddisfazione nelle sue esplorazioni visive, si agita dentro continui scacchi, fino a che non muore.  

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Questo tema della scontentezza emerge in modo specifico nelle pagine che Calvino dedica alla pittura, là dove scrive di Picasso: “Qui entra in gioco la differenza fra la figura e la parola: esiste una felicità del dipingere, ma una felicità dello scrivere non esiste” (Vittorini: progettazione e letteratura, 1967). Il tema torna in altri scritti sull’arte, come nel testo dedicato a Sobrero del 1971: “Sarà che chi si esprime col pennello è sempre più felice di chi si esprime con la penna?” Nella sua aspirazione a una scrittura che abolisca la profondità dell’Io, dunque le istanze psicologiche, e nella sua ricerca d’una oggettività quasi assoluta, a Calvino pare di poter cogliere in alcuni degli artisti che più lo interessano l’assenza d’una dimensione espressiva che rimandi alla psicologia personale. 

In Se una notte d’inverno un viaggiatore mette in scena il personaggio dello scrittore, Silas Flannery, ennesimo suo alter ego nella lunga galleria dei suoi protagonisti, che lotta con il proprio ingombrante Io tanto da confessare la propria aspirazione segreta: “Come scriverei bene se non ci fossi! Se tra il foglio bianco e il ribollire delle parole e delle storie che prendono forma e svaniscono senza che nessuno le scriva non si mettesse di mezzo quello scomodo diaframma che è la mia persona!”. Come sappiamo nella prima versione della Squadratura il testo dedicato all’opera di Giulio Paolini, intitolato Lo scrittore in casa propria, Calvino sviluppa questa idea della libertà dello scrivere come possibilità espressiva e non oppressiva. Questo dattiloscritto risalente agli anni Settanta è incluso il progetto del libro Se una notte d’inverno un viaggiatore, sviluppato in modo ampio. Successivamente Calvino decise di approntare un altro testo per il volume dedicato a Paolini pubblicato da Einaudi nella collana diretta da Paolo Fossati, “Einaudi Letteratura”, mantenendo tuttavia il tema della felicità del dipingere contrapposto alla fatica angosciosa dello scrivere. Negli anni Sessanta in un saggio intitolato Cibernetica e fantasmi (1967) aveva ipotizzato la possibilità di realizzare opere letterarie che si producono da solo attraverso il computer. 

Precipitare e volare

Nonostante gli scacchi visivi e concettuali dei suoi personaggi, cui presta la propria voce di narratore, Calvino resta ancora oggi uno degli scrittori che ci forniscono le coordinate per decifrare la realtà in cui viviamo, un mondo in cui le macchine di ferro ci sono sempre, come scrive nella lezione sulla Leggerezza, per quanto la realtà stessa sembra essersi polverizzata sotto la spinta di flussi d’informazione che transitano attraverso il software dei computer, come aveva cominciato a riflettere poco prima della sua scomparsa. Il nostro mondo, scrive in quella lezione, pare reggersi “su entità sottilissime: come i messaggi del dna, gli impulsi dei neuroni, i quarks, i neutrini vaganti nello spazio dall’inizio dei tempi…”.

La lezione che ci ha trasmesso attraverso le pagine dedicate alla visione e al guardare è esattamente questa: la lettura del mondo è sempre possibile, per quanto difficile, complessa e destinata facilmente alla sconfitta. Per capire quale sia il punto di vista da cui Calvino guarda il mondo bisogna ritornare alla sua risposta a un’inchiesta della rivista “Ulisse” del 1957, l’anno stesso di pubblicazione del Barone rampante. Calvino spiega perché non gli riesce di scrivere un romanzo di tipo tradizionale: “C’è Thomas Mann si obietta; e sì, lui capì tutto o quasi del nostro mondo, ma sporgendosi da un’estrema ringhiera dell’Ottocento. Noi guardiamo il mondo precipitando nella tromba delle scale”. 

Cosa si vede precipitando dalla tromba delle scale? Il mondo che scorre a velocità sempre più accelerata, ovvero un flusso d’immagini difficili da arrestare e da comprendere. Calvino ha anticipato la situazione in cui si trova qualsiasi scrittore che voglia fornire un’immagine convincente e precisa del mondo contemporaneo. L’ha spiegato bene nelle Lezioni americane, che sono, come ha scritto, sei proposte per il “prossimo millennio”, il nostro. Quella più nota e citata, dedicata alla Leggerezza, si chiude con un’immagine simile e nello stesso tempo contraria a quella enunciata nella risposta a “Ulisse”. 

È tratta da un racconto di Kafka, Il cavaliere del secchio, composto nel 1917, sul finire del primo grande conflitto mondiale, che aveva coinvolto l’Europa e mandato in frantumi il suo assetto geopolitico. Scritto in prima persona racconta il tentativo compiuto da un personaggio-narratore di farsi dare un secchio di carbone per riscaldarsi nel freddo inverno di guerra. Il secchio si trasforma in una cavalcatura e lo trasporta per aria, come si trovasse sulla groppa d’un cammello. L’esito è tragico. La moglie del carbonaio, da cui si è recato con il suo secchio, lo scaccia col grembiule come si fa con una mosca. L’effetto è che il secchio vola via come se fosse un fuscello e con quello anche il personaggio a cavalcioni fino a che entrambi si perdono oltre le Montagne di Ghiaccio.

L’immagine di quel volo è opposta ma analoga al precipitare nella tromba delle scale di cui parla negli anni Cinquanta, e l’esito appare il medesimo. Forse con quella frase, affidata a un’intervista, e con questa storia tratta dallo scrittore praghese, con cui conclude la propria magistrale lezione, Calvino voleva dirci qualcosa sul modo in cui siamo costretti a guardare la realtà. Una allegoria o una similitudine, se si vuole, che serve per farci riflettere sul nostro stesso modo di guardare. 

Testi citati

I disegni di Calvino pubblicati per la prima volta in Album Calvino a cura di Luca Baranelli e Ernesto Ferrero, Arnoldo Mondadori, Milano 1995; poi ripresi in Italo Calvino, Guardare, a cura di Marco Belpoliti, Arnoldo Mondadori, Milano 2023, sono quattro. Su Rubino si può leggere il libro di Antonio Faeti, Guardare le figure, Einaudi, Torino 1972. Sul rapporto tra Calvino e Steinberg si veda la voce “Calvino” nel volume Steinberg AZ, a cura di Marco Belpoliti, Electa, Milano 2021. Le frasi di Gianni Celati sono incluse nel volume Il transito mite delle parole. Conversazioni e interviste 1974-2014, a cura di Marco Belpoliti e Anna Stefi, Quodlibet, Macerata-Roma 2022. I testi saggistici e narrativi di Calvino citati si trovano nelle opere pubblicate presso Arnoldo Mondadori nella collana “I Meridiani”: Saggi, vol. I e vol. II, a cura di Mario Barenghi, Mondadori, Milano 1996 e poi nei tre volumi di Romanzi e racconti, diretta da Claudio Milanini, a cura di Mario Barenghi e Bruno Falcetto, Mondadori 1994. L’intervista al questionario della rivista “Ulisse” è del 1957; Osservare e descrivere si legge nel volume Dalla favola al romanzo, a cura di Nadia Terranova, Mondadori, Milano 2021. Il testo dedicato a Giulio Paolini è inedito e l’ho potuto leggere grazie alla gentilezza dei curatori delle opere dello scrittore che qui ringrazio. Come riferimento ulteriore rinvio a due lavori miei: L’occhio di Calvino, Einaudi, Torino, edizione ampliata 2006 e Italo Calvino, Guardare, op. cit., in particolare le note introduttive alle singole sezioni del volume; questo libro contiene i testi dedicati dallo scrittore a cinema, arte, fotografia, visione, paesaggio e collezione.

giovedì 16 novembre ore 11
Biblioteca Galline Bianche

Guardare
con Marco Belpoliti

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