C.H. De’ Medici, leggende e occultismo

12 Settembre 2023

Chissà se Howard Phillips Lovecraft si sarebbe fatto una bella risata nello scoprire che a Trieste, tempo fa, aveva preso forma una confraternita di adoratori del suo libro immaginario: il “Necronomicon”. Perché, a fare parte della setta, non c’erano lettori devoti delle opere del grande evocatore di incubi. Ma, piuttosto, quattro creduloni caduti nella rete di una furba operazione editoriale. 

Negli anni Ottanta, infatti, era uscito un volume che sosteneva di avere ritrovato una copia originale dello pseudibiblion: il “Necronomicon”, appunto. E lo proponeva come fosse non un libro inventato a uso letterario, ma un vero manuale di evocazione di potenze arcane. Nientemeno che i temibili Grandi Antichi: tipacci come Cthulhu e Yog-Sothoth. Esseri di forma e capacità straordinarie, che facevano parte di una specie aliena sbarcata sulla Terra, in un tempo lontanissimo, per dominarla.

Il libro giocava sull’equivoco. Mescolava spezzoni dei racconti del solitario di Providence, soprattutto quelli del Ciclo di Cthulhu dove viene citato il terribile “Necronomicon” scritto dall’arabo pazzo Abdul Alhazred, alternati a rituali tratti da manuali di evocazione demoniaca, a segni del comando riciclati da qualche testo di magia rituale, a formula estrapolate da antichi grimori.

Fa sorridere pensare a quella setta di creduloni. Soprattutto oggi, che siamo a conoscenza dell’esistenza di un altro libro immaginario. “Sathan”, questo il nome dello pseudibiblion, rilegato in “pelle di bimbo morto senza battesimo”, lo aveva inventato, prima che comparisse il “Necronomicon”, uno scrittore che abitava non troppo lontano da casa nostra: a Gradisca, in Friuli Venezia Giulia. La cittadina costruita sulla riva destra dell’Isonzo, a pochi chilometri da Gorizia.

“Sathan” veniva attribuito allo stregone fiorentino Cosimo Ruggeri, l’astrologo di Caterina de’ Medici. Ma, in realtà, a immaginarlo era stato un sulfureo, dimenticato scrittore: Carlo H. De’ Medici, nel suo romanzo Gomòria. Libro sparito assai in fretta, dopo che l’editore Gaetano Facchi di Milano, attento alle avanguardie artistiche e alle derive esoteriche della filosofia novecentesca, lo aveva pubblicato nel 1921.

Per lungo tempo, di questo non erede della dinastia di Lorenzo il Magnifico e di Caterina de’ Medici, si erano perse le tracce. Nemmeno i più attenti studiosi della letteratura fantastica italiana, che hanno sempre cercato di individuare in un ipotetico albero genealogico gli antenati di Massimo Bontempelli e Alberto Savinio, Dino Buzzati e Tommaso Landolfi, Italo Calvino e Giorgio Manganelli, si ricordavano più di lui. 

Né, del resto, erano rimaste in circolazione copie dei suoi pur numerosi scritti. Non solo i romanzi e i racconti, ma nemmeno i suoi studi storici o le traduzioni come quella di Là-Bas di Joris Karl Huysmans, il romanzo che raccontava l’iniziazione al satanismo, in una tenebrosa discesa agl’inferi, del protagonista Durtal. 

Molti anni dopo, nel settembre del 1990, L’abisso sarebbe riapparso pubblicato da SugarCo Edizioni nella nuova versione di Annamaria Galli Zugaro. A rendere particolare la copertina c’era un’illustrazione firmata dall’artista svizzero H.R. Giger, il papà dell’Alien cinematografico. Intitolata, guarda caso, Le “Necronomicon”.

Insomma, Carlo H. De’ Medici era destinato a scivolare in un saporoso oblio, se, un giorno, qualcuno non avesse deciso di far recapitare alla redazione della casa editrice Cliquot, a Roma, una vecchia copia di Gomòria. Era il 2017, nessuno poteva immaginare che quel romanzo dimenticato si sarebbe trasformato presto in una rocambolesca e appassionante avventura editoriale. 

Sì, perché da allora, in sei anni, sono uscite la nuova edizione di Gomòria (2018, con un saggio di Guido Andrea Pautasso) e la raccolta di racconti I topi nel cimitero, che include anche i testi inediti di Crudeltà (2019, con prefazione di Federico Cenci). Ma, soprattutto, molti recensori e studiosi si sono messi a scandagliare la biografia dell’autore, per farlo uscire dall’ombra.

Adesso, con Leggende friulane (2023, preceduto da uno scritto di Antonella Gallarotti), il viaggio di Cliquot alla riscoperta di Carlo H. De’ Medici si arricchisce di un nuovo capitolo. Accompagnato dalla certezza ritrovata della data di morte dell’autore, che finora era accompagnata da un prudente 19??.

La storia di questo misterioso autore merita di essere raccontata dall’inizio. Nipote di Giuseppe Hakim, amministratore della sinagoga Eliyahu Hanavi di Alessandria d’Egitto, Carlo era nato a Parigi il 29 agosto del 1887 da Giovanni Hakim, ricco banchiere ebreo, e da Maria Verstl Eichtaedt, nobildonna di origini polacche nata in Baviera. Era stato il padre a ottenere, con decreto del Regno d’Italia nel 1889, la concessione di aggiungere al proprio cognome quello di De’ Medici, e di estendere anche ai figli il diritto di utilizzarlo.

Che cosa abbia spinto la ricca famiglia Hakim a spostarsi da Alessandria a Parigi, per andare a vivere in una piccola località periferica come Gradisca d’Isonzo, non è dato sapere. Certo è che lì c’era una comunità ebraica, tutelata dalle leggi cosmopolite dell’Impero austro-ungarico. 

Alcuni sostengono, al contrario, che la cittadina isontina sia uno dei punti d’incontro di misteriose correnti energetiche. E a sostegno della loro tesi portano il fatto che l’antico castello di Gradisca sia stato costruito su un roccione carsico, isolato nella pianura, conosciuto come lo Sperone degli spiriti.

A dare credito a questa storia, suonerebbe quasi scontato aggiungere che Carlo Hakim De’ Medici è stato sì giornalista, scrittore e illustratore, ma soprattutto studioso appassionato di scienze occulte. Tanto da abitare per lunghi anni proprio a Gradisca in una villa a tre piani (che reca, ancora oggi, sopra il portone d’ingresso lo stemma dei De’ Medici), organizzata in grandi spazi intorno a una scala a chiocciola. Simbolo esoterico del faticoso e tortuoso percorso che deve intraprendere chi vuole arrivare alla conoscenza arcana.

Ogni libro di De’ Medici era un nuovo passo verso il maelstrom dell’irrazionale. Qualcuno sostiene che scrivesse storie così oscure, piene di riferimenti negromantici, di situazioni scandalose, per condurre i suoi lettori a compiere un percorso di iniziazione. 

Così, in Gomòria, che nel titolo rende omaggio al diavolo abituato a comparire a chi lo evoca in sembianze di donna, lo scrittore aveva scelto di far ruotare la sua storia oscura attorno a Gaetano Trevi di Montegufo. Un dandy annoiato, munifico con le amanti eppure crudele, che si spinge verso il baratro di edonismo puro e nevrosi profonda già esplorato da Jean Floressas Des Esseintes in À rebours-Controcorrente di Huysmans. Senza mai abbandonarsi allo sfrenato Piacere praticato, senza ripensamenti morali, dall’aristocratico Andrea Sperelli nel romanzo di Gabriele D’Annunzio.

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I topi nel cimitero, a modo loro, come i quattro fulminanti frammenti di Crudeltà, sono il grado di iniziazione successivo a Gomòria. Lo conferma il fatto che De’ Medici stesso decidesse di dedicare il volume “al mistico e satanico fratello mio Gaetano Trevi di Montegufo”. Ovvero il suo alter ego romanzesco. 

Ai racconti dei Topi, contrappuntati sempre da una profonda inquietudine e dal desiderio di stupire, scandalizzare, dare voce al mistero dell’esistenza senza rivelare troppo, era incatenata l’evidente frustrazione di un’anima tormentata dalla ricerca di una via per fondersi con l’oscuro segreto dell’universo. Che, però, non riesce a trovare la formula giusta per compiere la trasmutazione alchemica e fare parte del Tutto.

Le Leggende friulane, pubblicate per la prima volta nel 1924 e recuperate adesso da una raffinata edizione di Cliquot (pagg. 95, euro 22), sono un curioso tentativo di insinuarsi nel patrimonio folclorico e popolarissimo delle favole, che si tramandano da generazioni nelle diverse regioni italiane. E, poi, manipolarlo, contaminarlo, scardinarlo. Inventando versioni parallele di storie che ricordano altre storie. Affiancando a personaggi vissuti per davvero figure enigmatiche uscite dalla fantasia di De’ Medici.

Se Italo Calvino, nella sua introduzione alle Fiabe italiane, ricordava come il lavoro dei fratelli Grimm avesse preso origine “dalla bocca del popolo”, per poi assumere i connotati di “scrupolosa fedeltà stenografica al dettato dialettale del narratore orale”, De’ Medici fa capire subito di voler rompere la camicia di forza del canone tradizionale rivolgendosi direttamente ai lettori. 

Così, i suoi racconti partono da un colloquiale “A te parlo, sconosciuto, che passi ignaro”. O, ancora, con un fuorviante tentativo di puntualizzazione storica, pronto a rivelarsi solo un furbo stratagemma per collocare la narrazione in un tempo immaginato: “La mattina del 23 maggio 1344, il giovane e ricchissimo conte Odorico di Villalta aveva sposato la più bella, la più leggiadra, la più pura delle fanciulle friulane”.

È un Medioevo che ha perso la sua sincronia con il tempo storico, quello in cui De’ Medici ambienta le sue sei Leggende friulane. Lo scrittore procede come un Philip K. Dick che si insinua in un possibile corridoio parallelo alla realtà dei fatti. E, da lì, guarda il nostro mondo con occhi del tutto nuovi.

La Dama Bianca, che apre la raccolta di storie, illude chi legge di voler riproporre la storia dello spettro del Castello di Gorizia. Ma subito De’ Medici rimescola le carte, porta in scena nuovi personaggi, sussurra una versione dei fatti mai ascoltata né letta. Così, dando credito all’autore, si finisce per cavalcare liberissimi verso un finale del tutto imprevedibile.

Sono quasi sempre le donne, innamorate o deluse, promesse in matrimonio e poi assalite da uomini che vogliono violarle contro il loro desiderio, il motore di questi racconti. E se la passione porta Adalgisa della Groina a perdere se stessa e un’impossibile felicità, sarà la titanica forza d’animo di resistere allo stupro a trasformare Ginevra di Strassoldo in un blocco di pietra. Disposta a riprendere le proprie carnali fattezze, in un’erotica trasmutazione, soltanto quando saranno le carezze del suo sospirato Odorico di Villalta a percorrerle le membra.

Dove De’ Medici lascia che sia il suo lato satanico a impossessarsi del racconto è in Fra’ Mauro l’eremita. Perché lì non è sufficiente una sacra immagine della Vergine, accompagnata da estenuanti ore di meditazione e preghiera, a incatenare Satana all’obbligo di costruire una chiesa. Basta solo un piccolo cedimento, qualche ora di sonno appena dell’ingenuo e temerario eremita, per liberare il principe delle tenebre dall’incantesimo. E trasformare il frate in una vittima sacrificale. In un suicida il cui sangue colora ancora di una sfumatura vermiglia le acque dell’Isonzo nel tratto che scorre di fronte a Salcano.

Nelle sue leggende, De’ Medici non si allontana mai da quelle funzioni che governano le favole da secoli, individuate e schematizzate nel 1928 dallo studioso russo Vladimir Propp nel suo libro Morfologia della fiaba. Eppure, lo scrittore sa sovvertire l’andamento del racconto popolare pur rimanendo all’interno del canone. 

Basterebbe analizzare attentamente La spiritata di Gradisca, dove l’amor cortese non trionfa. Ma viene sbeffeggiato, per puro capriccio, dall’intrusione di una sirena che ruba il cuore donato alla dolce Lucia dal cavaliere Antonio Miulitti, come pegno splatter dei suoi sentimenti, prima di ritornare al suo posto di combattimento. L’irridente furto spingerà la ragazza verso un’inevitabile follia. 

Anche La beffa di Richinvelda scivola via su binari narrativi del tutto personali. Mette in scena un personaggio del tutto amorale come Nicolò di Lussemburgo che, per assaporare meglio il gusto forte della vendetta, decide di servire in tavola a uno dei nemici le cervella di sua madre. Piatto prelibato di un raffinato, macabro banchetto.

Tutti i libri di Carlo H. De’ Medici sono accompagnati da raffinate xilografie. Donne in preda al terrore, manieri tenebrosi e amanti infelici, impiccati e demoni, streghe a cavallo di gatti neri, irridenti scheletri e misteriose maliarde discinte, escono dalla fantasia del fedelissimo illustratore Cleo Miladic. Che per tutta la vita ha accompagnato, con un segno grafico rigidamente in bianco e nero, le tenebrose fantasie dello scrittore, morto a Como il primo ottobre del 1956.

Cleo Miladic, in realtà, era soltanto una maschera. Una delle tante indossate da De’ Medici stesso, nel corso della sua vita, per nascondere il vero profilo biografico dietro un romantico velo di enigmi e mezze verità. Era lui, infatti, a scrivere le storie, sempre lui a illustrarle. In un susseguirsi di liberissimi voli della fantasia.

Ma non basta. C’è un mistero, tutto letterario, che accompagna l’unica copia di Gomòria custodita dalla Biblioteca Civica di Trieste. Quel libro fa parte del Fondo Anita Pittoni, la scrittrice, stilista e animatrice culturale, che è stata per lunghi anni compagna di Giani Stuparich e motore propulsivo di un salotto culturale. 

Nella raccolta sono compresi certi volumi che le erano stati donati dal critico d’arte Umbro Apollonio. Alcuni di questi, si dice, potrebbero provenire dalla biblioteca di Ettore Schmitz, meglio conosciuto come Italo Svevo, andata dispersa dopo il bombardamento che distrusse Villa Veneziani nel febbraio del 1945.

Che l’autore di Senilità e La coscienza di Zeno si interessasse di spiritismo, con un atteggiamento molto critico e disincantato, è cosa nota. Anche perché era legato da sincera amicizia a Nella Doria Cambon, poetessa del tutto devota al dialogo con le anime dei morti e autrice dei libri Il convito spiritico e Il convegno celeste. 

Ma davvero Svevo, cresciuto leggendo Enrico Pea e Arthur Schopenhauer, Émile Zola e Karl Marx, coltivava una passione segreta per le storie indiavolate come quelle di Gomòria? Niente di strano, dal momento che il fantasticare appariva allo scrittore triestino come l’unico antidoto potente capace di esorcizzare la “vita orrida vera”. Quella che tutto ingloba nel suo essere arida, violenta, feroce e prosaica.

Come dire che, per non lasciarsi fagocitare dalla vita, il fine ultimo di ogni scrittore dovrebbe essere sempre quello che Julio Cortàzar prendeva a prestito dalle parole di Edgar Allan Poe: “Pensare poesia, pensare letteratura”.

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