Dress code. Vestirsi da turista

20 Luglio 2023

Da quando il tandem Birkenstock e calzino è stato assorbito dal sistema moda, il turista ha dovuto riscrivere il dress code del brutto ma comodo. Viaggiando si cammina per diverse ore in condizioni climatiche sconosciute o avverse, ci si stipa in mezzi di trasporto con spazi angusti, e bisogna rispondere prontamente ai cambi di scenario imprevisti. Il viaggio presuppone dinamicità, prevede spostamenti e tragitti, l’attraversamento di luoghi “assoluti, di cui deve afferrare di colpo l'essenza” – direbbe Roland Barthes – che richiedono a gran voce un determinato guardaroba e condizionano l'agire dei corpi con cui si relazionano.

La moda da viaggio va considerata come un agente della dinamicità delle culture che utilizza l’innovazione come novità trasformativa del suo nucleo di significati portante, radicato nel suo sistema di riferimento e di appartenenza.  Nonostante l’approccio con una nuova cultura richieda un avvicinamento alle usanze locali, “vestirsi da turista” impone il distacco visivo dalla comunità autoctona per incarnare lo spirito del “fuori stagione”, o, peggio ancora, del “fuori luogo”, non tanto nel senso di inopportuno, ma proprio della scarsa appropriatezza al posto che si sta visitando. Trovo affascinante la leggerezza degli outfit di chi visita l'Italia tra autunno e primavera: a gennaio imperano shorts e pareo sulle spalle a mo' di mantella per proteggersi dal gelo, come se piumini e cappotti fossero banditi ai controlli di sicurezza. Capisco che il cambiamento climatico possa confondere le idee, ma le previsioni del tempo sono facilmente consultabili da Web e App; dunque, l’incognita potrebbe essere facilmente risolta qualche giorno prima di arrivare a destinazione. Le aspettative di chi visita l’Italia sono così radicate nell’immaginario filmico, musicale e artistico che la stagione invernale non viene contemplata come possibilità. Belpaese significa bel tempo, e se malauguratamente si beccano giornate di pioggia e grandine, bisogna rivalersi contro l’host del B&B di turno, scrivendo nella recensione “Tutto perfetto, eccetto il meteo”. Il clima avverso non giustifica l’assetto classico da turista, che, in caso di pioggia deve ricorrere a improponibili mantelline di plastica scadente, vendute a prezzi esosi da ambulanti oppure ripararsi con il telo mare inserito nel necessaire per visitare gli scavi di Pompei. Oltre all’ingombro del “dover essere in Italia”, c’è quello della valigia, che trae giovamento dal cielo terso e dalle temperature miti. L’ottimismo è la chiave per non pagare extra sui voli low cost e snellire il processo di scelta indumenti. Il processo di scelta di un capo da viaggio ha una strutturazione narrativa poiché riguarda da vicino un’esperienza di vita, in ogni sua fase trasformativa e organizzativa. Si tratta di un percorso di produzione e circolazione di senso con uno scopo individuabile, le cui tappe sono prestabilite, ricorrenti e segmentabili, quali sequenze di azioni e passioni. Comporre una valigia che abbia senso rispetto al luogo in cui ci si reca e sia adatta alle esigenze è un’operazione consumante che richiede una solida strategia. E, soprattutto, ciò che sembra funzionare a casa, una volta a destinazione, sembrerà inutile.

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Per quanto possa essere sciatto, il look da turista è imperituro perché rimane per sempre nelle cronache di viaggio, vale a dire nelle fotografie da socializzare sulle varie piattaforme dove narrare e narrarsi. Il grand tour italiano si inserisce in una possente tradizione visiva storica e contemporanea: non solo le foto vanno scattate in un punto panoramico particolarmente instagrammabile, ma bisogna preoccuparsi anche di coordinare l’outfit. I codici moda/luogo fluiscono nella direzione del “senza inventiva”, con combinazioni cristallizzate: destinazione romantica=pattern floreale, località balneare=righe, short di jeans, isole=tessuti svolazzanti, merletti, metropoli=camicia. Come ben sappiamo, passare qualche giorno sulle spiagge italiane non impone la marinière, che, complice Coco Chanel, dalle navi della Normandia è arrivata a essere considerata simbolo di una sobria eleganza da “Dolce Vita” e capo iconico dei gondolieri veneziani. Insomma, le righe al mare ci sembrano naturali e allegre, nonostante la loro origine sia associata alla marchiatura dei reietti nel Medioevo. Michel Pastoreau in Righe. Una storia culturale (Ponte alle grazie 2023) ricorda che nel Levitico si suggerisce di non indossare un abito caratterizzato dalla dualità, come se il doppio rimandasse a una dimensione contaminata dalle opposizioni. Gli anni passano e la cultura macina significati da modellare in base ai differenti contesti, e le righe assumono sensi terribili sui pigiami nei campi di sterminio, o diventano anticonformiste con Jean Paul Gaultier.

Qualunque sia il senso degli indumenti o dei loro motivi ornamentali, è indubbio che persiste un’estetica della totalità turistica, in genere mancante di aplomb. Trascorrendo buona parte del mio tempo in luoghi come Roma e Sorrento, ho avuto modo di classificare delle invarianti del “dover vestire in Italia” secondo il senso comune trasversale a varie culture. Partiamo dal capo per arrivare ai piedi.

L’accessorio necessario è il cappello tipo Panama, attestatosi a inizio ‘900 come segno distintivo del cosmopolita highbrow, lanciato da Theodore Roosevelt all’inaugurazione del Canale di Panama, oggi bandiera dello sbracamento vacanziero. Non è certo un caso trovare un corner Borsalino poco prima dei gate dell’aeroporto di Fiumicino con quattro lunghi scaffali di cappelli di paglia e una mini-esposizione di coppole, indispensabili per l’italiano all’estero – meglio se in Grecia o Spagna – o come souvenir dell’ultimo minuto. Il copricapo di paglia compare tanto in aeroporti e spiagge, quanto nei corridoi universitari nei primi giorni della stagione estiva, per dare un’aria scanzonata anche al più serio degli accademici che vuole pensarsi Hemingway a Cuba. Nella moda viaggio rimane a galla il cappello da baseball con visiera, meglio se ricamato con frasi in inglese senza alcun senso compiuto, specialmente se si tratta di turisti non anglosassoni. Il cappello scompare dallo schema canonico del vestire formale per riapparire baldanzoso nell’ensemble vacanziero, articolato da tratti essenziali nella loro brevità o “cortezza”, come i calzoncini e la maglietta a mezze maniche, o ancora, da calzini a vista abbinati a ciabatte di gomma o a sandali dall’aspetto iper-performante, che aderiscono al piede attraverso un dedalo di velcro. L’addio al feticcio Birkenstock, ora troppo in voga e non più percepito come scarpa-pantofola, inaugura l’era del ciabattone oversize, quello che sembra sul punto di abbandonare il piede a ogni passo. In Corea del Sud la ciabatta raggiunge la sua acme, agisce da livella di status e di genere, adattandosi a tutti gli stili. Guardare coreane e coreani ciabattare per le strade di Seoul trasmette la gioia di camminare, di tracciare i percorsi quotidiani crogiolandosi nella confortevolezza plantare. Spesso troppo grandi per i piedi aggraziati delle donne, le ciabatte affermano la loro adattabilità quando calzate con varie fogge di pedalini, fantasmini e pariscarpa, o nel momento in cui esibiscono la condizione di “calchi vuoti” adagiati sul selciato perché chi le indossa riposa le proprie estremità su sedie e muretti. In tal caso le ciabatte significano un’inesistenza che equivale a essere – riprendendo Paolo Fabbri sul cappello – “segno zero” della liberazione del corpo poiché permettono ai piedi di ritornare immediatamente allo stato naturale di “scalzo”. Gli infradito non permettono la stessa libertà poiché la loro aderenza al piede richiede qualche frazione di secondo per essere tolti e – molto importante per gli orientali – mal si adattano ai calzini (eccetto i tabi giapponesi).

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Insomma, i vestiti che portiamo in viaggio e qualificano la condizione da turista diventano un tramite per specchiarsi nell’alterità e permetterle di classificare l’appartenenza culturale con uno sguardo. L’abbigliamento turistico ricalca una visione personale del mondo che funziona come ancora per non naufragare nella contaminazione culturale.

Per quanto mi riguarda, ogni volta che raggiungo una meta all'estero, specialmente se si tratta di un luogo dal genius loci marcato, provo a mimetizzarmi per non sembrare turista. A Parigi bisogna darsi un tono elegante, ma senza troppo sforzo, preferibilmente evitando il baschetto, corrispettivo del cappello di paglia in Italia. A New York l’outfit equivale a una dichiarazione identitaria, mentre Tokyo e Londra sono accomunate da estrosità e giocosità perché l’anonimato non è in voga. A Seoul è un'altra storia, perché l'estetica dei k-drama si accorda con convenzioni sociali che non disdegnano le lunghezze mini di gonne e pantaloncini, e aborrono scolli più profondi dello sterno. Oltre a visitare le location in cui vengono girati i video k-pop e le scene dei k-drama, chi visita la Corea del Sud si sente in dovere di manifestare la passione per questi prodotti culturali replicando i look delle celebrità. Vedere persone provenienti da continenti diversi che omaggiano l’Hallyu con un accessorio o un indumento dimostra quanto sia potente l’onda della cultura coreana all’estero. Così facendo il proprio viaggio diventa una narrazione subordinata, un meta k-drama, perché alla fine ciò che preferiamo consumare non è tanto l’oggetto, ma l’atmosfera. 

La selezione delle immagini per questo articolo deriva dalla query di ricerca “tourist fashion Italy” effettuata su Google Image Licenza Creative Commons e sembra che gli stereotipi descritti abbiano trovato conferma empirica.

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