Emmanuel Bove, un genio del grigio

16 Agosto 2023

Con periodicità, a cadenze non fisse, si presenta in Italia lo scrittore francese Emmanuel Bove con i suoi libri. Introdotti e tradotti in larga parte da Carlo Alberto Bonadies, non portano gioia o allegria, né disegnano proposte sul futuro, ma trasmettono malessere e spaesamento. Ora esce il romanzo Memorie di un uomo particolare (Ventanas, 2023), presentato postumo in Francia nel 1987 dopo il rifiuto dell’editore Gallimard del 1939. Suddiviso in tre parti, la prima è dedicata ad un certo Richard, che si scopre non essere il protagonista, che ha nome invece Jean Marie. Non si comprende ancora il legame tra i due, salvo che il primo, medico benestante, mantenga economicamente il secondo, “depresso, annoiato”, senza lavoro e girovago nella città. Il capitolo successivo (“Ieri”) è proiettato nel passato di Jean Marie, nella sua infanzia infelice di bambino sballottato tra famiglie diverse, nel suo disadattamento, nella sua incapacità di amare pur sposandosi con la benestante Denise. Costei è la cugina del sopra indicato Richard il quale gestisce, manipolandoli a proprio favore, i denari di Jean Marie e di Denise che nulla controllano e a cui nulla rimane. Mantenuto sporadicamente dal cugino anche quando rimane vedovo, Jean Marie si arrabatta, vagabonda spinto dalla corrente, tenta lavori controvoglia. L’ultimo capitolo è calato nell’oggi: il protagonista persevera nella sua indolenza, conosce superficialmente persone nei bar tra cui donne con cui intesse rapporti istantanei, sperando che questa superficialità abbia fine (“Dio dammi uno scopo nella vita”).

Questo romanzo non devia dal mondo di Bove, popolato di personaggi “particolari” come rammenta il titolo, disseminati in ogni classe sociale, né campagnoli né cittadini, né poveri né borghesi. Travolti dalla solitudine essi sono abulici, dimessi, periferici, incapaci di amore autentico, parassiti, trascinati dal vivere, inoperosi, perduti nella folla solitaria. Appartengono sostanzialmente alla categoria degli “inetti” di sveviana memoria, indifferenti al flusso del tempo, pur con qualche sussulto nel cercare di inserirsi nel mondo, però senza successo. Non riescono a comunicare con le altre persone anche perché il linguaggio è fattore di disturbo e di fraintendimenti, e la lingua si mostra inadatta: “quando gli capitava di sfogarsi con un amico (...) balbettava le stesse parole per significati diversi e all'improvviso sentì che si stava allontanando da lui mentre parlava.” Si diffondono l’angoscia di confrontarsi, il timore per l'incomprensione degli altri, e per questo le proprie emozioni non hanno sbocco. Una sorta di ritirata che avrebbe potuto fornire risultati positivi, come in Pranzo di gala all’Hotel Gallia (Passigli, 2019). André Poitou si reca in quell'Hôtel dove lo aspetta un banchetto per celebrare la nomina alla Legion d'Onore. Anche bonario, non è né pietoso né lacrimevole, ma soltanto assente. Attorno ai tavoli le conversazioni si svolgono in tono giocoso, ma perché sono banali e convenzionali, sempre superficiali? La risposta è senza repliche: perché ci si vuole mantenere intatti, senza contraccolpi o ferite per non distruggere questa fragile e spesso ipocrita “armonia”. Questo fallimento delle relazioni porta l'individuo a rinserrarsi nella solitudine: “Oggi mi sono sentito stanco, triste, picchiato come raramente sono stato... quando penso alle persone che incontro ogni giorno, mi fa bene lasciarle e tornare in me” [Diario d’inverno, Marietti, 1990].

I romanzi, molti non ancora tradotti, non propongono tesi ideologiche, né sono sorretti da una dimensione politica, ma trasudano questa ossessione. In La coalizione (Lavrieri 2011) Aftalion è dominato dall’indifferenza, schiacciato da un immobilismo precario e insuperabile. Come avviene nel suo romanzo forse più noto I miei amici (Feltrinelli, 1991). Ivi il protagonista Victor Baton è solo, vecchio anche se l’età è relativamente giovane, senza un soldo, in una cupa Parigi del dopoguerra, disoccupato, emotivamente paralizzato, sfiorato soltanto da incontri superficiali. Ogni mattina scende in strada alla ricerca di un amico: incontra Lucie Dunois, la “facile” proprietaria di una bottiglieria, Henry Billard un distinto signore rivelatosi fannullone che gli chiederà un prestito senza restituirlo, Neveu marinaio aiutato a non suicidarsi, Lacaze l’altero industriale che gli regala denaro per poi respingerlo quando apprende che ha avvicinato la figlia; Blanche la cantante di rivista. Con nessuno diviene amico anche se lo vorrebbe, e la discesa verso l’emarginazione è inarrestabile. Si ritrova solo in questa elegia triste, paradossalmente affollata di presenze (“Quando esco di casa spero sempre in un avvenimento che possa sconvolgermi la vita. Lo aspetto fino a quando rientro. È per questo che non resto mai nella camera”). 

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I personaggi di Bove sprofondano sempre nella tristezza, congelati di fronte a un mondo che li spaventa e quindi impossibilitati a reagire. La pressione proveniente dall’esterno sembra così forte che si sentono dei perseguitati, temono che altri si alleino per far loro del male: “Il marito Lecoin non mi ama. Eppure sono gentile con lui. Un giorno, passandomi accanto, mormorò: “Pigro!”. Sono diventato pallido e non sapevo cosa rispondere. La paura di avere un nemico mi tiene sveglio per una settimana.” (I miei amici).

A differenza del cocciuto Bartleby, lo scrivano di Melville, e del suo “preferirei di no” come intransigente opposizione all’efficientismo borghese, in Bove talora la nebbia nichilista è trafitta da spiragli di luce. Compaiono timidi tentativi di reazione verso l’amicizia e la solidarietà, una sorta di empatia spirituale ed anche materiale. Come l’empatia nella descrizione di un quartiere, il sobborgo parigino Bécon-les-Bruyères (racconto con quel titolo, Il nuovo melangolo, 1999), consapevole Bove che nulla è meno marginale dei margini, e che i margini della vita hanno sempre un sovrappiù di vita. È il caso di Maurice Lesca (Un uomo che sapeva, Casagrande, 2000), un ex medico disperato, che conduce un'esistenza sordida in un appartamento squallido con la sorella, ma che tuttavia spera di cambiare. "Un uomo non è mai perduto perché per quanto avanzata sia la sua età e decrepita la sua salute, può avere ancora molti anni da vivere, e finché si vive tutto è possibile.” Cerca di migliorare la propria situazione ma, infastidito dal destino contrario, sfoga il risentimento sulla sorella. Insignificante, soffre di mancanza di immaginazione, il suo sguardo non va oltre la quotidianità per cui il progetto di cambiamento diventa irraggiungibile nonostante gli atti sgraziati e devianti che pone in essere. Nella “Storia di un pazzo” (in Visita serale ed altri racconti, Fusta edizioni, 2016) il narratore cerca di dimostrare il contrario. Progetta di recidere ogni legame con chi ama (genitori, moglie, amici), ma non riesce a dominare il destino. Incapace di dominare la propria storia, Fernand Blumenstein ha scarso controllo sulla vita, anche se vuole far credere che può disporne a suo piacimento. 

Anche il suicidio non è una soluzione. Nel momento decisivo Aftalion si domanda: “Se mi buttassi in acqua cosa succederebbe? In realtà è molto semplice, devo solo fare un passo, un solo passo avanti. Cosa mi impedisce di fare questo passo?”. Sente il suicidio in suo potere, ma in punto di morte intuisce di subire fattori esterni alla sua volontà. A contatto con l'acqua “ha sentito di non essere più padrone di se stesso.” (Coalizione, cit.).
Il suicidio in ogni caso non è una soluzione: “Non avevo intenzione di morire, ma spesso mi faceva piacere ispirare pietà. … La scorsa settimana ho quasi fatto il grande passo per apparire sincero.” (I miei amici, cit.). 

In concreto, osserva Bove, ogni comportamento è stretto tra due possibilità: da un lato lo sforzo di agire anche se minimo rende la persona gioiosa, ma dall’altro nello stesso tempo infelice per la debolezza mostrata che non ha consentito di dare una svolta alla propria vita. In questo disagio esistenziale la volontà è importante ma non sufficiente, in quanto le intenzioni soggettive a prendere un posto nel mondo non riescono a superare le circostanze oggettive che lo impediscono. “Ciò che mi terrorizza è che sono sempre infelice e che mi comporto come un uomo felice, (...). Si leva dentro di me una voce che… mi dice che questo è dovuto solo alle circostanze.” (Diario d’inverno, cit.). Gli uomini sono pertanto in realtà intercambiabili, fanno ciò che “devono” secondo il proprio destino, senza poter scegliere. Per questi personaggi è segnata la condanna a una “coscienza infelice”, come osservato da Philippe Chardin (Musil e la letteratura europea, Utet, 2002). La volontà debole è sconfitta dalla meccanicità dell’esistenza, essi percepiscono la futilità delle rivolte “Non c'è niente da fare, tutto è già sistemato, programmato… sapere che non sarò mai più felice di adesso né più infelice… Perché sembro un relitto? … In questi momenti di disperazione il mondo trova la forza per reagire. Con me sta accadendo il contrario.” (Diario d’inverno, cit.). 

Bove vive il mondo che descrive e i suoi romanzi sono segnati da una sorta di traumatismo esistenziale. Nato il 1898 a Parigi da padre russo di nome Bobovnikoff, ha una giovinezza dura e instabile, trascorsa a Ginevra, in Inghilterra e poi a Parigi dai diciott’anni. Mentre infuria la guerra vive in alberghi di passaggio – un ambiente familiare per molti romanzi – e colleziona disparati ed umili mestieri (cameriere, operaio, tassista, operatore del tram tra i molti). Il suo momento formativo, oscillante tra Freud e Nietzsche, è quello tra gli anni 20 e 30 del novecento, nel quale cattura l'esperienza della generazione perduta dei veterani di guerra, la diffusa disoccupazione e il disamore della classe operaia. Cambiato il cognome in Bove si sposa, si reca a Vienna, tenta di fare soldi con romanzi pulp ma con scarsi risultati, quindi torna a Parigi. Inizia a scrivere come cronista anche di nera annotando omicidi e piccole tragedie di una umanità disadorna, finché pubblica nel 1924 il suo primo romanzo I miei amici. Nel 1934 entra nel “Comitato di vigilanza degli scrittori antifascisti” e testimonia solidarietà politica sulle principali riviste antifasciste. Muore ancor giovane a Parigi nel 1945, circondato da consensi anche autorevoli come quelli di Colette, Rilke, Beckett, e negli anni ottanta Handke che lo traduce in tedesco. Per non parlare di Wim Wenders che, a New York per un cortometraggio, passeggia con una copia di I miei amici in tasca perché gli “restituiva il senso del narrare”. Viene ricordato come un tipo grigio, scialbo, sbiadito come i suoi personaggi, un cavalier errante con aria di fantasma, come se pensasse ad altro, fu osservato. Secondo il giornalista Enrico Terracini: “Bove visse come in uno stato crepuscolare. A volte si metteva improvvisamente una mano davanti al viso perché voleva nasconderlo da occhi indiscreti. Quando lo incontravi per strada, sempre pallido e magro, spesso avevi la sensazione che non sarebbe sopravvissuto al giorno dopo. Si ritirava spesso in ospedale, ma non parlava mai dei suoi malesseri” (France culture 1973). Non a caso La vie comme une ombre è il titolo sia di una trasmissione televisiva (regia di Bettina Augustin, Arte/ZDF 1997), che di una monografia /Cousse e Bitton, 1977 e poi 1994) a lui dedicate.

Nei suoi romanzi è prepotente la distanza dalla narrativa di intreccio. Quello che conta è il “tono” che si compenetra in uno stile privo di pietismi, secco, disadorno. Per lui, soggettivista e relativista dichiarato, l’unica verità è quella interiore, esposta con una narrazione microscopica dove i particolari creano l’atmosfera più adatta. La scrittura evoca paesaggi esterni e ambienti emotivi che si leggono come fotografie ad alta risoluzione, una sorta di “rumore sottile” per dirla con Manganelli. In questa narrazione senza crepe il dettaglio emerge denso, fisico, mai evocato o sollecitato (“la mia attenzione era come quella dei bambini: era concentrata su tutto ciò che si muoveva.”)
Bove “più di altri ha un vero e proprio istinto per il dettaglio” (Beckett), una “vera e propria allucinazione per l’infimo dettaglio” (Barthes). 

Tra Bove e Simenon, pur con cautela, esiste una qualche affinità. Si è detto dell’attenzione esasperata per gli indizi con cui entrambi esplorano la realtà da cronisti di nera, come dimostrano i loro reportages e le cronache di delitti anche pubblicati di recente (per Bove Arrestation celebres, Edition cent pages, 2013). In questa veste collaborano a celebri riviste dell’epoca (ad esempio Detective, 2 volumi, Meridiano zero, 2000) facendo risaltare lo stile secco, asciutto, controllato. Ma non basta. Bove si impegna anche in alcune prove narrative di stampo decisamente poliziesco. Alcune trattano il delitto senza indagini, concentrandosi sul versante psicologico, come Crime de la nuit del 1926 (nell’antologia Henri Duchemin e le sue ombre, non tradotto). O come Raskolnikov del 1932 (Livrieri, 2011) in cui Pierre Changarnier pretende di essere condannato per un delitto che avrebbe commesso solo nella sua mente, in uno stato di incoscienza delirante che ha alterato la sua percezione della realtà. Si rende conto che avrebbe potuto realmente uccidere l’uomo e questo lo terrorizza, cerca la punizione e si consegna alla polizia. L’eroe di stampo dostoevskiano sembra aver smarrito quel che restava di Dio per sostituirlo con il Padre di influsso psicoanalitico, responsabile ma non più onnipotente, con cui confrontarsi ad armi pari.

I ‘polar’ veri e propri, cioè i romanzi di indagine poliziesca con delitto, sono in realtà due, entrambi non tradotti. Il primo è Le toque de Breitschwanz del 1933, con il commissario Croiserel che fumando indaga sul rinvenimento del cadavere di una giovane nel giardino della casa coniugale. Tutto sembra convergere intuitivamente contro il marito, ma il commissario non è convinto e avrà ragione. Discutendo con il capitano osserva: “non bisogna credere che la soluzione più semplice sia la migliore… nella nostra professione non è sufficiente avere uno spirito logico, essere in grado di trarre dai fatti deduzioni consequenziali. Occorre ugualmente il fiuto, l’intuizione…”). Il secondo è Le meurtre de Suzy Pommier sempre del 1933. Suzy Pommier, giovane e bella attrice, viene assassinata la sera della prima del film in cui recita la parte di un’attrice assassinata nel suo bagno. Hector Mancelle, un giovane ispettore, indaga a modo suo, rifiuta approcci affrettati, trae conclusioni meditate in disaccordo con le indicazioni del suo superiore, il commissario Piget. Questi ritiene invece che “…è sempre l’ipotesi più semplice quella vera ... se voi entrate negli alibi, nelle giustificazioni non ne uscite più”. Ma l’ispettore va per la sua strada, scende nei particolari, scava e raduna i dettagli come risulta nel capitolo finale in cui espone le conclusioni cui è giunto.
In entrambi i romanzi di Bove (riuniti ora in Trilogie noire, ETS, 2018), i fatti si svolgono a Parigi e la sede delle indagini è il commissariato di Quai d’Orfèvres. In quegli anni, in quegli ambienti, con quelle riflessioni sulle indagini, faceva ingresso dietro spirali di fumo la pipa del commissario Maigret.

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