Ernesto Ferrero, maestro senza retorica

1 Novembre 2023

La notizia della scomparsa di Ernesto Ferrero, editore, romanziere raffinato, saggista eclettico, drammaturgo, operatore culturale di prima grandezza, lascia l’amarezza che accompagna la perdita di un amico che avresti voluto rivedere, frequentare di più, che per molti è stato uno straordinario compagno di strada. Lo è stato per chi, come me, si è trovato negli anni Ottanta del secolo scorso a imparare il lavoro editoriale: lavoro difficile, che richiede umiltà e pazienza, dove i successi sono pochi e le sconfitte molte, dove paga la dedizione e l’attenzione ai libri degli altri e dove è richiesta una abilità tutta particolare, tutta giocata sul paradosso di una vicinanza distante e di una distante partecipazione, in una parola di una sorvegliata identificazione simpatetica. 

Ferrero possedeva queste virtù, era il maestro che ognuno desidera incontrare. Lo è stato con l’esempio, non con la dottrina, che pure possedeva in abbondanza ma si guardava bene dallo sciorinare agli allievi. Sapeva insegnare lo sguardo sui libri: la visione in cui passione e disincanto si intrecciano. Riusciva a cogliere al volo l’autentico e sapeva rifuggire dal falso, dagli stili levigati ma finti, dalle formulazioni vuote.

La doppia veste di editore e scrittore, veste scomoda e insidiosa, Ferrero l’ha indossata con saggezza e understatement, guidato sicuramente dai grandi che l’hanno preceduto come Pavese, Natalia Ginzburg, Vittorini, Calvino, per citare gli autori einaudiani a cui si è sentito più vicino. 

La sua maieutica si è estesa ai molti scrittori e saggisti che ha saputo far crescere e accompagnare nella loro carriera e che gli devono, al di là dei successi editoriali, gratitudine per la lezione di stile e di eleganza dello scrivere e del vivere che ha saputo offrire ad essi.

Esiste una retorica del rimpianto di cui, come è noto, soffrono in molti, soprattutto gli anziani, e il discorso sull’editoria non è immune da questa inclinazione nostalgica. Si parla di un’età dell’oro in cui per una straordinaria congiunzione astrale un gran numero di scrittori, studiosi delle più varie discipline, artisti, grafici, tipografi, si trovarono a progettare libri e collane editoriali. Figure che trovavano il loro centro gravitazionale nella figura dell’editore che ne captava gli stimoli e sapeva ricondurre la varietà delle voci e le loro inevitabili dissonanze all’unità armonica di un progetto condiviso.

Questa vocazione Roberto Calasso, forse con un eccesso di ottimismo, l’ha paragonata a un’arte, ancora da esplorare compiutamente, che sa dare un luogo e una forma alla molteplicità dell’ispirazione artistica e dei percorsi di conoscenza.

È probabilmente vero che questa maniera di pensare i libri ha segnato soprattutto la seconda metà del Novecento e che oggi, forse, può dirsi esaurita. D’altra parte, si sa che le utopie muoiono e quella di un’editoria concepita come un’opera d’arte, il cui artefice sommo non sono i singoli autori ma l’editore nella veste di demiurgo, probabilmente è finita. Di questa fine Ferrero, allergico com’era alla retorica e alle intonazioni tragiche, è stato un testimone partecipe ma non meno disincantato. 

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Con Ernesto capitava di fare discorsi sulle mutazioni che questo mestiere attraversava, soprattutto negli ultimi decenni del secolo scorso, quando si formarono le grandi concentrazioni editoriali in Italia come altrove in Europa (negli Stati Uniti c’erano già da molto tempo).

Ebbene la postura riflessiva di Ernesto che si accompagnava a una istintiva ironia riusciva a stemperare la nostalgia e a dirigere lo sguardo verso il futuro, non per legittimare l’esistente ma per capirne le dinamiche evolutive e sottrarsi così alle miopie del pessimismo.

La sua direzione del Salone del libro torinese (1998-2016), che seguì i suoi anni editoriali (Einaudi, Boringhieri, Comunità, Mondadori), ha saputo coniugare magistralmente la ricerca dei nuovi talenti e la valorizzazione delle nuove realtà editoriali con le ragioni della diffusione di massa della lettura. Contro le concezioni elitarie del sapere e gli ascetismi che spesso l’accompagnano Ernesto ha scommesso sulla commistione dell’alto e del basso, di fatto negandone le pretese assolute e dimostrando come talora le sorprese culturali nascano dalla loro commistione.

La sua attività di scrittore e di saggista, se osservata da quella giusta distanza che Benjamin assegnava al compito del critico, rivela un tratto comune pur nella estrema varietà dei temi trattati e delle storie narrate: la capacità di esplorare gli eccessi, le polarità estreme della vita, le ascese e i declini dei grandi, per ricondurle anziché alla dimensione del tragico a quella della eterna comédie humaine.

L’abilità nell’interrogare le vite degli altri, che fa da contraltare alla sua intelligenza della scrittura degli altri, era frutto di una curiositas che sapeva osservare il mondo dal basso, con la consapevolezza della fungibilità delle infinite prospettive, a cominciare dalla sua. 

Questo osservatorio sapeva tradursi in parola con un’abilità rara in cui l’istinto mitopoietico dava voce all’ironia. I racconti con cui Ferrero ci ha deliziati hanno in comune un’intonazione affabile che cattura il lettore e lo fa partecipe di vicende che, seppur talora drammatiche, sono sempre alleggerite dall’effetto catartico della sua scrittura. 

Si pensi al finto capo indiano, che negli anni del fascismo visita un’Italia avida di emozioni antropologiche (Cervo Bianco, 1980 e poi L’anno dell’indiano, 2001), o alla storia romanzata dei trecento giorni di Napoleone all’isola d’Elba (N, vincitore del Premio Strega 2000). E non meno felicemente affabulatorie sono le sue opere di natura saggistica, come quella dedicata ai gerghi della mala (I gerghi della mala dal ‘400 a oggi, uscito nel 1971 e poi ampliato nel Dizionario storico dei gerghi italiani, 1991) oppure alla storia di Barbablù (1998), l’eroe del bene e del male Gilles de Rais, “compagno prediletto di Giovanna d’Arco, alchimista, assassino, evocatore di diavoli”.

Altrettanto importanti e rivelatori di una consuetudine critica raffinata sono le sue traduzioni, ad esempio quella fondamentale, quasi un monumento all’arte del tradurre, che è il Viaggio al termine della notte di Céline.

Ferrero, anche quando scriveva un saggio di carattere storico, o persino un’opera compilativa, sapeva iniettare nelle parole una carica di letterarietà che ne elevava la prosa senza per altro cedere a tentazioni retoriche. Il suo stile, che meriterebbe di essere indagato da un vero scavo critico, sapeva dare visibilità immediata a ciò di cui parlava, pur lasciando alla parola la sua prerogativa di suono e di senso.

Questa che non saprei chiamare altro che leggerezza è stata per lui, come per altri scrittori di vaglia, non solo un’opzione letteraria ma una strategia di sopravvivenza intellettuale al peso della vita che non gli ha risparmiato delusioni, nonostante i successi e i meritati riconoscimenti.

Con Ernesto Ferrero se ne va un testimone attento ai mondi sociali e ai cambiamenti che hanno investito la cultura tra la fine del secolo scorso e i primi decenni del nuovo millennio. La sua vita non è stata scandita da proclami, né da asserzioni apodittiche, ma dal senso della fallibilità a cui tutti siamo esposti e da essa ha saputo trarre il gusto della narrazione sua e altrui lasciando in eredità non solo un’opera che vivrà negli anni, ma un esempio raro di affabile intelligenza e umana simpatia.

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