Atul Gawande: scegliere la propria vita / Essere mortale

29 Aprile 2016

Rendendo merito ai numerosi professionisti che, nelle più remote località degli Stati Uniti, hanno contribuito a innovare le pratiche di assistenza, Gawande afferma: “Nel mondo ci sono persone che cambiano il modo di pensare della gente”. È questo il ruolo di Gawande nel panorama sanitario statunitense. Medico, chirurgo, giornalista, scrittore, professore di chirurgia alla Harvard Medical School, e alla Harvard School of Public Health, autore di articoli e saggi considerati tra i più influenti in ambito medico.

 

Gli occhi scorrono, parola dopo parola, riga dopo riga, pagina dopo pagina, e faticano a staccarsi dal testo che si dispiega attraversando storie di pazienti oncologici e di anziani. Soprattutto restano attoniti di fronte alla capacità di acuta osservazione e di analisi di un momento culminante dell’esistenza: il fine vita.

In un’epoca in cui l’invecchiare e il morire avvengono per lo più in ambiti sanitari (ospedali e residenze sanitarie assistite), tanto che deleghiamo abitualmente alla medicina la gestione di questa fase fondamentale della nostra esistenza, dall’interno del mondo medico Gawande, figura di spicco nel panorama medico statunitense, lancia un invito ineludibile: riprendere tra le proprie mani la vita, in particolare di fronte al limite che essa impone.

 

Gawande ricolloca il lavoro delle professioni sanitarie in orizzonti capaci di fare i conti con i limiti della stessa medicina, non per abbandonare il campo ma per allargarlo, per contemplare al suo interno aspetti relazionali, etici, umani. La medicina non può sempre salvare vite, ma può sempre provare ad accompagnare a vivere meglio il fine vita; se non sempre può guarire, sempre può curare. E la cura ha a che vedere con la capacità di ascoltare la storia dell’altro, di riconoscere la sua unicità, le priorità della sua vita, di rendere il consenso informato non una mera procedura ma uno spazio di autentico incontro tra paziente, operatori della salute, familiari.

Quest’opera è uno straordinario esempio di come sia possibile aprire spazi di dialogo nelle situazioni limite dell’esistenza, di come sia possibile coniugare evoluzione scientifica e approccio umanitario, di come sia possibile trovare strategie che aiutino a pianificare e gestire il proprio fine vita e la propria anzianità; una fase di vita sempre più in espansione nella nostra società e alla quale si preferisce non pensare. 

 

A partire dalla figura del nonno, vissuto e scomparso in India, per concludere con il toccante epilogo dedicato al padre, Gawande esplora l’esperienza contemporanea della mortalità, interpolando con maestria registro narrativo e saggistico, presentando storie, resoconti di casi ed esiti di ricerche che mettono in luce la necessità di riconsiderare “con onestà” le forme dell’invecchiare e del morire in occidente. È ormai invalsa a tal punto la metafora della medicina come macchina da guerra, contro quello che è considerato il nemico par excellence, la morte, che sino alla fine conduciamo la nostra battaglia nonostante l’evidenza che nulla potrà salvarci. E quando ci troviamo, impreparati, di fronte a decisioni estreme, “l’unico nostro impulso è combattere, affrontare la morte con la chemio nelle vene, un tubo nella gola, o ferite chirurgiche nella carne. Il fatto che forse stiamo accorciando o peggiorando quel poco di vita che ci resta appare privo di rilevanza. Pensiamo di poter tener duro fino a quando i dottori non ci diranno che non c’é più niente da fare.

 

Ma è raro che i dottori non abbiano più niente da fare”. Uno studio, condotto nel 2010 dal Massachusetts General Hospital su 151 pazienti affetti da tumore ai polmoni al quarto stadio, mostra gli straordinari risultati raggiunti proponendo a metà dei pazienti la possibilità di accedere a colloqui con esperti in cure palliative. Coloro che, in seguito agli incontri, avevano deciso di rivolgersi al servizio di hospice, sospesero prima la chemioterapia, ridussero il dolore, e vissero il 25% più a lungo. Dopo aver esposto questi dati dall’esito controintuitivo l’autore ne evince una morale che definisce quasi zen: “si vive più a lungo solo quando si smette di cercare di vivere più a lungo”. È tempo, come ci dice Gawande, di elaborare una nuova ars moriendi, che ci aiuti a discernere tra vivere a lungo e vivere bene sino in fondo.

Leggendo la prima parte del libro dedicata all’anzianità e all’opera di deistituzionalizzazione e desanitarizzazione dei servizi rivolti a questa fase dell’esistenza, non si può evitare di pensare come l’Italia in questo campo sconti un grave ritardo rispetto agli Stati Uniti e a gran parte delle nazioni nord europee. Per questo le esperienze narrate dall’autore possono contribuire ad alimentare un dibattito pubblico, sinora rimasto relegato allo stretto ambito specialistico e legislativo, nonostante riguardi la vita di ciascuno di noi. 

 

 

 

Evocando Sunsan Sontag e Erving Goffman, riferendosi all’esperienza vissuta dalla suocera Alice in una casa di riposo, Gawande scrive: “Alice doveva sentirsi come se fosse finita in un paese straniero da cui era impossibile espatriare. Le guardie di confine erano tutto sommato amichevoli e sorridenti…Ma il fatto è che Alice non voleva essere curata da nessuno; voleva semplicemente avere una vita sua. E quelle sorridenti guardie di confine le avevano requisito le chiavi di casa e il passaporto. Insieme alla casa Alice aveva perso il potere di decidere della sua vita”.

 

A cosa e quanto siamo disposti a rinunciare per un po’ di sicurezza in più? Siamo disposti a rinunciare alla privacy, a stare un po’ soli, ad alimentarci quando abbiamo appetito, ad andare a letto e a svegliarci quando desideriamo, a mangiare ciò che vogliamo, a condividere quotidianamente tempi e ritmi uniformati, a essere contenuti meccanicamente o farmacologicamente? Siamo disposti a vivere in uno spazio in cui nulla rimandi al nostro passato, in cui animali, bambini, musica, una partita a carte, i colori, gli odori sono trasformati in terapia? Siamo disposti a ingaggiare una battaglia quotidiana per un frollino? “Chi l’avrebbe mai detto che ci si può ribellare sgranocchiando un frollino?”. Qual è il livello di abdicazione che possiamo tollerare senza che questo ci trasformi in una persona nella quale non ci riconosciamo più? Serve un po’ di fantasia e di immaginazione e un po’ di coraggio per sperimentare nuove forme di residenzialità per anziani, per favorire una buona vita sino alla fine. 

A tratti è un vero spasso seguire la battaglia del dott. Bill Thomas contro quelle che definisce le “tre piaghe” della vita nella casa di riposo: la noia, la solitudine, l’impotenza. Il lettore, quando pagina dopo pagina approderà a metà libro, non dubiterà che ci sia riuscito e che tutto ciò, magari in modo meno temerario, sia possibile.

 

“Tutto quello che chiediamo è riuscire a continuare a scrivere la nostra storia… a plasmare la nostra vita in modo coerente con la nostra personalità e con ciò in cui crediamo… La lotta dell’essere mortale è la lotta per mantenere l’integrità della propria vita”.

Gawande, anche grazie al suo sguardo interculturale da immigrato di seconda generazione, con la sua prosa incisiva ci accompagna nel guardare in faccia la nostra storia sino al suo possibile esito. “Il terrore dell’infermità e della vecchiaia non è soltanto il dolore delle perdite che si è costretti a sopportare… Gli uomini, quando diventano consapevoli della finitudine della propria esistenza non chiedono grandi cose. Non cercano nuove ricchezze. Non vogliono più potere. Chiedono che sia loro consentito, nei limiti del possibile, di continuare a plasmare la storia del loro essere al mondo”. Parole che fanno eco a quelle pronunciate da Hannah Arendt che, in un saggio dedicato a Karen Blixen, ci dice: “Quando il narratore è ligio… alla storia, alla fine, il silenzio parlerà. Se la storia sarà stata tradita, il silenzio sarà un vuoto. Ma noi, noi ligi, quando avremo pronunciato la nostra ultima parola sentiremo la voce del silenzio”.

 

Alla fine della nostra storia, imparare a costruire una nuova alleanza tra paziente e medico, tra assistiti e assistenti diventa fondamentale, perché “nelle storie il finale conta”. Sono questi i nuovi sviluppi necessari alla medicina, che anche in Italia negli ultimi anni grazie al movimento Slow medicine, al counselling sanitario, alla Medicina narrativa, sta lentamente acquisendo la consapevolezza che l’incontro con il paziente e con la sua famiglia “non richiede minori capacità di un’operazione chirurgica”; perché la malattia non colpisce solo il corpo ma la storia di vita di una persona. 

Siamo storie incorporate e la malattia introduce una frattura nella nostra trama di vita che richiede la capacità di negoziare una nuova storia, possibile sino alla fine. Ma in ciò siamo ancora “goffi novellini”, afferma Gawande. Per questo Essere mortale, non è solo un’opera che conferma la straordinaria capacità narrativa di un medico e scrittore, ma è un libro necessario per poter continuare consapevolmente un viaggio appena intrapreso, un viaggio che riguarda tutti, nessuno escluso.

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