Fare, rifare e disfare Duchamp

5 Gennaio 2024

Dunque era questo che faceva Marcel Duchamp dopo aver smesso di fare l’artista. O meglio, quando impegnava le proprie giornate a non fare l’artista, nel senso di quello comune ai suoi tempi che – a suo avviso – era costretto a produrre giornalmente la solita merde per il mercato azionistico dell’arte. Posato il pennello da pittore e imbracciate le pedine degli scacchi, in verità Duchamp si ritrovò a riempire il proprio tempo con esercizi indefessi volti alla ripetizione, più simili a quelli di un copista medievale o di un paleografo artigiano, riproducendo ad libitum le sue stesse opere per crearne ora dei facsimile, ora delle repliche, ora delle varianti. Il motivo di tanto affaccendarsi era dato dal bisogno di tenere assieme le sue opere, sempre che le considerasse tali, per ricontestualizzarle rispetto allo stadio della sua vita oppure riscriverle di sana pianta. Confidava Duchamp all’amica pittrice e mecenate Katherine S. Dreier, il 5 marzo 1935: “Voglio fare, prima o poi, un album con praticamente tutte le cose che ho prodotto”.

In effetti, questo non-artista spese gli anni a venire a fare, rifare e disfare tutto ciò che aveva realizzato trovando nuovi modi di moltiplicazione seriale dei suoi prodotti con forme, dimensioni, materiali e tecniche sempre diversi. A cominciare con le miniature in collotipia per la cosiddetta Boîte Verte (1934), passando per la celebre Boîte-en-valise (1935-41) e l’album cartonato EAU ET GAZ À TOUS LES ÉTAGES (1958-59), per finire con le repliche commerciali nel 1964 dei suoi dispersi ready-made, la vita di Duchamp ruotò attorno all’autoanalisi condita da una sana dose di umorismo tale da non prendersi mai troppo sul serio. Ripetendo ossessivamente e modificando infrasottilmente il frutto della sua materia grigia, Duchamp si interrogava su cosa significasse vivere come se la propria vita fosse un’opera d’arte, mentre presentava allo spettatore dei rebus visivi per superare la dimensione retinica. 

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Marcel Duchamp: À propos de jeune sœur, 1911, olio su tela; New York, Solomon R. Guggenheim Museum.

La mostra “Marcel Duchamp e la seduzione della copia” curata da Paul B. Franklin per la Collezione Peggy Guggenheim presenta nel percorso espositivo e in un dettagliato catalogo (Paul B. Franklin, Marchel Duchamp e la seduzione della copia, Marsilio Arte 2023) proprio il lavoro di questo non-artista fotografandolo – in senso teorico, per dirla con Rosalind Krauss – febbrilmente affaccendato a riflettere, replicare, variare il proprio corpus creativo, così da mettere in dubbio non solo il valore dell’originale in arte, ma dell’arte tout court. Suddivisa in sezioni che vanno dalla pittura degli esordi agli ultimi lavori editoriali, la mostra veneziana ripercorre minuziosamente la traiettoria creativa del maestro francese suggerendo come la sua influenza sul (secondo) Novecento non sia interpretabile nei termini di un’immediata o differita rivoluzione dei paradigmi dell’arte, bensì di una modificazione incrementale dei suoi confini concettuali attraverso la reiterazione di nuovi schemi che dopo decenni giunsero infine a logorare la visione modernista. Collegando tra loro le numerose riprese e ripetizioni che Duchamp fece delle proprie opere, Franklin insiste sul peculiare approccio di Duchamp all’arte per eludere le classificazioni artistiche in uso al suo tempo, le cui forzature ed esplorazioni con vari media sono quindi da intendersi come l’applicazione del metodo musicale del “tema e variazione”, secondo cui l’artista può liberamente replicare creazioni proprie o altrui senza limitarsi a un insipido citazionismo.

Al tempo stesso, avverso al senso mercantile dell’unicità, Duchamp reclamava per la pittura il diritto al multiplo come normalmente attribuito alla scultura, non a caso limitandosi a otto repliche dei suoi storici ready-made nella serie per Arturo Schwarz, interrogato da Luigi Bonfante proprio su questo punto. Che la copia fosse in verità accettata storicamente anche nella pittura a lui cronologicamente vicina – basti pensare alle versioni della Toteninsel di Arnold Böcklin oppure alle varianti della Sünde di Franz von Stuck – Duchamp lo ometteva forse volutamente per addentrarsi piuttosto in un dibattito assai più importante all’alba del XX secolo, quello relativo al rapporto tra arte e produzione industriale. Le numerose repliche di cui fu costellata la vita produttiva del maestro francese enfatizzano proprio come la serialità della produzione risulti comunque differenziabile e personalizzabile – non a caso vi giunse poi anche l’industria del lusso – tanto da imbarcarsi in un lavoro editorial-sartoriale collaborando con svariati artigiani: da tipografi a ceramisti, da valigiai a cartai. 

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Marcel Duchamp: La Mariée mis à nu par ses célibataires, même, nota come Boîte Verte, 1934, contenitore di cartone contenente 94 facsimile e 1 nota manoscritta, edizione deluxe; collezione privata.

A tal proposito, ben documentata nel catalogo accompagnatorio è la rilevanza che ebbero nella fase giovanile di Duchamp il lavoro come bibliotecario, i corsi di archivistica e la conoscenza delle tecniche artigianali del facsimile utilizzate fin da subito per i pizzini riprodotti nella Boîte de 1914 (1913-1915), tutte risorse che perfezionò specie attraverso l’uso della collotipia unito alla colorazione a pochoir. Fulgido esempio fu poi la Boîte Verte di cui è presente in esposizione un'edizione deluxe con la miriade di annotazioni sparse sul Grand Verre, per la quale fece produrre una quantità sterminata di facsimile – oltre 30.000 pezzetti di carta – con una ricerca maniacale di materiali uguali o simili agli originali. Produsse così un archivio dei suoi appunti ideato come guida concettuale alla celebre La Mariée mis à nu par ses célibataires, même (1915-1923), la cui lettura poteva annullare la funzione retinica dell’opera e dischiuderne il senso ermetico. Tutte le scatole di Duchamp, in particolar modo la Boîte-en-valise, fungevano da catalogo ragionato, anzi da vera “monografia” a detta dello stesso artista nell’intervista per Time rilasciata nel 1942 a casa di Peggy Guggenheim a New York.

Nello speciale dedicato da DOPPIOZERO ai cento anni dall’operazione “Richard Mutt”, ossia il famigerato orinatoio capovolto, firmato  e presentato a New York come Fountain (1917), si esplorava proprio la sottile linea tra copia e omaggio, influenza e (auto)citazione così centrali nella ricezione del lavoro di Duchamp specie da parte di artisti delle generazioni a lui successive – tra cui Elaine Sturtevant, Sherrie Levine e Alexander Koslapov ricordati da Carla Subrizi, oppure in Italia Gianfranco Baruchello, Paolo Gioli e Luca Maria Patella citati da Elio Grazioli. La pioggia di mostre e volumi recenti su Duchamp, ben ricostruita da Riccardo Venturi, ha teso spesso a enfatizzare diversi aspetti o tecniche nel suo percorso creativo, mentre la mostra alla Collezione Peggy Guggenheim riporta tutto alla persistente e trasversale ossessione del maestro francese per la replica quale strategia d’(auto)analisi ed elusione del sistema dell’arte. La seduzione della copia, nell’intendimento di Franklin, fu per Duchamp un modo di praticare attività non ancora considerate artistiche interrogando con vari media e molto umorismo il concetto di somiglianza di famiglia – quella dei gemelli, per intenderci – da cui prende avvio la riflessione sull’infrasottile (infra-mince) praticata attraverso duplicati identici per similitudine ma infinitesimamente diversi (Elio Grazioli, Duchamp oltre la fotografia. Strategie dell’infrasottile, Johan & Levi 2017).

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Marcel Duchamp con l’esemplare non ancora completato di da o di Marcel Duchamp o Rrose Sélavy (Scatola in una valigia) 1935–41, in casa di Peggy Guggenheim, 440 East Fifty-first Street, New York, agosto 1942. La fotografia è in origine pubblicata in Time, 7 settembre 1942. 

La mostra veneziana, la prima che il Guggenheim dedica a Duchamp nell’ultima dimora della collezionista americana, parla necessariamente anche del rapporto che Peggy intrattenne con il suo confidente Marcel. Lo fa in maniera piuttosto originale, poiché va oltre alla nota consulenza di Duchamp nel battesimo artistico di Guggenheim Jeune nel 1938, mostrandoci la proverbiale intraprendenza della collezionista finalizzata alla promozione in Nordamerica della Boîte-en-valise. A Peggy si deve nel 1942 la prima presentazione pubblica della valigetta sulle pagine della rivista Time, nonché la sua esposizione temporanea nelle vetrine di Brentano e poi di Scribner. Autentiche chicche in mostra sono inoltre il ricordo di Duchamp nell’audio di Peggy intervistata da Giorgio Fabbris e Giorgio Spiller nel 1975, nonché la serie completa dei rotorilievi, dispositivi ottici ideati per acquisire profondità e movimento sul giradischi.

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Marcel Duchamp: Rotorilievo n°5 – Pesce giapponese, parte di Rotoreliefs (disques optiques), 1935, stampa litografica offset a colori su sei dischi di cartone, edizione non numerata di 500 esemplari; Parigi, collezione privata.

Probabilmente il tesoro veneziano inaspettato di questa mostra duchampiana è tuttavia la raffinatissima collezione di Attilio Codognato che da solo ha prestato circa la metà delle opere esposte. Suo è ad esempio il guazzo su carta cerata incisa con la versione definitiva di Anagramme pour Pierre de Massot (1961), una luminosa pissotière anni Venti che rappresenta un ricordo di gioventù e un umoristico monumento all’amico poeta bisessuale, facendone un faro nella notte della Parigi ruggente del primo dopoguerra quando al calar delle tenebre iniziava a costituirsi la cultura alternativa della comunità omosessuale. Forse però nel prosieguo della mostra Franklin attualizza un po’ troppo il discorso duchampiano sull’ambiguità di genere, perdendosi nell’abile gioco di specchi del maestro francese in cui, come sostiene Riccardo Venturi, la moltiplicazione caleidoscopica dell’identità ha prodotto una pioggia acida di letture postmoderniste. La chiave del rebus cui Duchamp ci pone davanti – nell’alterego femminile di Rrose Sélavy, come nella Monna Lisa baffuta – sembra piuttosto da ricercare proprio nel concetto dell’infrasottile, in quella differenza infinitesimale che rende i gemelli identici ma diversi, oppure la mano destra e quella sinistra uguali ma contrarie.

Uscito dalla mostra mi rimbombano in testa le parole scritte a caratteri cubitali da Joseph Beuys con la cioccolata durante la sua azione per la rete televisiva ZDF nel 1964: “DAS SCHWEIGEN MARCEL DUCHAMPS WIRD ÜBERWERTET”. Nell’intendimento di anti-arte del movimento FLUXUS, per cui chiunque è artista, Duchamp era colpevole di non aver tratto le necessarie conseguenze della sua non-arte. Riavvolgendo rapidamente il nastro, trent'anni prima a rimanere ammutolito di fronte alle riproduzioni miniaturizzate del maestro francese era stato invece Walter Benjamin, ancora al lavoro sulla teoria dell’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Come documenta il catalogo accompagnatorio, ne rimase sconvolto e ammirato al punto che non seppe come conciliare questo caso insolito con il suo pensiero abbandonando infine l’intento di citare Duchamp nella stesura definitiva del suo libro. Il lavoro di Duchamp, in fin dei conti, è come le spore aliene evocate da Luigi Bonfante, in attesa delle condizioni adatte per poter germinare, ma non è poi nemmeno detto che non venga travisato una volta che l’ambiente è fertile. Lo statuto della copia in arte, ci dice la mostra alla Collezione Guggenheim, fu una grande lezione di Duchamp a quello che egli definiva il nascente mercato azionistico dell’arte, ma non servì allora, nè è stata ancora colta a giudicare dalla tragicomica parabola della supposta unicità digitale degli NFT.

Comunque, aveva ragione Duchamp: per restare liberi bisogna prenderla con umorismo, annacquare i propri originali con una pioggia di repliche e starsene quanto più alla larga possibile dal fagocitante sistema dell’arte. Poi, qualunque cosa tu faccia o non faccia, ci sarà sempre chi ti criticherà. Per Benjamin Duchamp era ancora troppo audace, mentre trent’anni dopo per Beuys lo era troppo poco. Ma sarebbe ingiusto attribuire colpe a Duchamp per la ricezione della sua opera, poiché alla fine non voleva fare l’artista, non voleva produrre arte, non voleva fare la differenza, non voleva proprio nulla di ciò che è diventato, men che meno attribuirsi da solo il titolo di profeta. Perché alla fine, a ben guardare, sono stati gli altri a conferirgli quel ruolo da gigante nella storia dell’arte che meritava di buon diritto. Perché alla fine poco importa, come espresso da Elio Grazioli, che l’orinatoio e tutte le altre sue cose siano realmente esistite o meno, è bastato replicarle e variarle per continuare a far sì che se ne parlasse. Duchamp aveva compreso precocemente che, dopotutto, anche in arte l’originale è sopravvalutato. Basta diffonderlo mediante la ripetizione ossessiva, come ha ricostruito la mostra veneziana curata da Franklin e, soprattutto, come ricordava Duchamp stesso nel dialogo con James Johnson Sweeney per la NBC nel 1955: “If it’s repeated a number of times, it becomes taste”.

La mostra Marcel Duchamp e la seduzione della copia a cura di Paul B. Franklin è visitabile dal 14 ottobre 2023 al 18 marzo 2024, orario 10–18 (chiuso il martedì) alla Collezione Peggy Guggenheim di Venezia; catalogo Marsilio Arte 2023, pp. 240 con 123 ill. a colori, euro 49,00.

In copertina, foto d’allestimento nella sezione “CLONARE IL SÉ, VESTIRE L’ALTRO” della mostra Marcel Duchamp e la seduzione della copia a cura di Paul B. Franklin alla Collezione Peggy Guggenheim di Venezia, foto Matteo De Fina, © Association Marcel Duchamp, SIAE 2023.

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TAGGED: Marchel Duchamp