Il nuovo e il possibile

31 Dicembre 2015

domani è ancora un giorno (sul serio?)

di aprire gli occhi e di vedere: 
qualcosa di buono, di dire: ho avuto torto.
dolce giorno, in cui il va-da-sé
va da sé, più o meno!
che trionfo, cassandra,
assaporare un futuro che ti confuta!
qualcosa di nuovo che sia buono (il buono vecchio lo si conosce già...)

(Hans Magnus Enzensberger, dubbio; traduzione di Nunzio La Fauci)

 

 

 

Nello scorso novembre il ministro Giuliano Poletti ha affermato, con le libertà sintattiche concesse dal discorso orale: «Dovremmo immaginare contratti che non abbiano come unico riferimento il rapporto ora/lavoro, ma misurare l'apporto dell'opera: la misurazione ora/lavoro è un attrezzo vecchio che frena rispetto a elementi di innovazione». Ricorderete tutti le obiezioni suscitate da queste parole, nel merito. Da un certo punto di vista è anche interessante notare come l’evocazione di un fatto incontestabile (il cambiamento strutturale dei tempi di lavoro e più in generale del tempo sociale) in politica prenda subito un valore diverso. È lo stesso meccanismo per cui la formula della «giustizia giusta», incontestabile come tutte le tautologie, stava per una campagna molto forte e del tutto contestabile. Quando qualcuno evoca un fatto ovvio in un contesto politico la domanda è: dove vuole arrivare? Non è dietrologia, è il contrario: vedere verso quale obiettivo futuro sta mirando.

 

Ma nell’affermazione di Poletti c’è traccia di qualcosa che personalmente mi interessa anche di più, o piuttosto mi riguarda professionalmente. Per limitarsi all’organizzazione sociale del tempo, nessuno ha obiettato che è «vecchia» anche l’usanza di avere tre pasti nel corso della giornata, come quella di avere un periodo di vacanza in estate e uno in inverno, come quella di avere un periodo di sonno, possibilmente durante la notte. Che senso diamo alla parola «vecchio»?

 

Siamo tanto abituati che non ci facciamo neppure caso: ciò che si proclama «vecchio» è ciò che va cambiato, in politica è diventata quasi una presupposizione linguistica. Anche della Costituzione si è detto che è sorta in altri tempi, in un’Italia che non c’è più. L’attrezzo vecchio, dice infatti Poletti, frena deplorevolmente la santa «innovazione»: si rende così chiaro, pressoché esplicito, che siamo in presenza dell’ennesima manifestazione di ciò a cui personalmente riservo la denominazione di  «mitologia del Nuovo».

 

Non è sempre stato così, non sarà sempre così, non è inevitabile che sia così (anche se altre volte è stato così) ma nel mercato politico e mediale attuale il nuovo ha una valorizzazione invariabilmente positiva. Le riforme per esempio sono buone in quanto riforme, non per come intendono cambiare le cose e per come vengono fatte approvare. Di riforma elettorale e riforma costituzionale si discute da decenni, ed è vero: ma non è vero che si discuta fra chi vuole farle e chi no; si discute di come farle, e di quali fare. Io non credo che ogni riforma sia buona in quanto riforma: e mi devo rassegnare al fatto che è un parere, o meglio un sentimento, minoritario.

 

Circa venticinque anni fa in Italia si è cominciato a parlare del «Nuovo che avanza», la locuzione divenne anche il titolo di una raccolta di racconti di Michele Serra uscita nel fatale 1989. Possiamo prendere questa come la data della comparsa sulla scena nazionale della mitologia del Nuovo, almeno nella sua forma contemporanea e più pervasiva. Ora, mitologia è proprio una bella parola: tiene assieme due opposti, il mythos e il logos, la narrazione con le sue libertà e la razionalità con le sue legalità. Siamo noi a dover scegliere tra la fiaba della ragione o le ragioni della fiaba, ma sta a noi anche tenere presente che al mondo d’oggi la narrazione è più forte e non basta smontarla per farne cessare la seduzione.

 

Smontarla significa per esempio far notare che la narrazione mitica non si preoccupa delle proprie contraddizioni. La mitologia antica ha avuto proprio la funzione di rappresentare ambiguità e contraddizioni umane, sciogliendole in narrazioni che risultano ancora oggi catartiche. La mitologia contemporanea funziona alla stessa maniera: le contraddizioni nella nozione di «nuovo» hanno certamente enorme rilevanza.

 

Il «nuovo», per esempio, si può presentare nella forma della rivoluzione, parola che al di là dei suoi usi tecnici in diverse discipline, da tempo ricorre anche a proposito di nuovi modelli di automobili o computer. Nel suo significato mitologico, la rivoluzione è il nuovo assoluto. In politica corrisponde alla distruzione di tutte le relazioni sociali e politiche fino allora in vigore, così come nella scienza è un azzeramento di tutto il paradigma precedente. Quando avviene una rivoluzione scientifica bisogna buttare via tutti i manuali e scriverne di nuovi. Tutto ciò che resta invariato nelle rivoluzioni è il terreno in cui avvengono: nella Rivoluzione Francese quello che è rimasto è il territorio francese, nella rivoluzione copernicana quello che rimane è che si tratta di astronomia. Tutto il resto cambia, bruscamente.

 

Che tutto ciò sia davvero successo, o possa succedere, è ovviamente dubbio. La realtà è sfumata, rispetto all’enfasi con cui il discorso mediale la categorizza, anche soltanto per suscitare scalpore e imporre i propri messaggi sul brusio di fondo dei messaggi concorrenti. È probabile che, in realtà, il nuovo come rivoluzione sia una sorta di limite a cui si tende: è una sorta di superlativo assoluto del «nuovo».

 

Ma certo la parola «nuovo» non implica, di per sé e in ogni caso, una rivoluzione. Esiste anche la riconfigurazione: la struttura rimane, ma ne viene cambiato il funzionamento. Ancora prima del tormentone del Nuovo che avanza si era avuto quello sulle «regole del gioco», su cui ha insistito a lungo e senza successo Ciriaco De Mita. Le regole del gioco poi sono cambiate davvero, parzialmente e disorganicamente; però sono cambiate abbastanza perché sia stato possibile parlare di una presunta Seconda Repubblica. Per esempio si è invocata la legittimazione dei governi, come se esistesse l’elezione diretta del premier, che invece non c’è. Allora si fa riferimento alla prassi e a qualcosa come la «Costituzione materiale» («materiale», come se fosse più concreta di quella messa su carta, nero su bianco, settant’anni fa). Del resto la politica ha un suo rapporto speciale con le regole: se in Italia c’è stata una rivoluzione è stata quella fascista, e Mussolini non si è mai preoccupato di abrogare o riscrivere lo Statuto Albertino. Se n’è semplicemente infischiato. Ma sappiamo che la nostra Costituzione prevede i modi in cui essere essa stessa riformata: un perfetto caso di riconfigurazione, in cui si cambiano le regole del gioco seguendo altre regole e quindi senza far venire giù tutto. La riconfigurazione è il tipico obiettivo del riformismo, in tutte le declinazioni che ha avuto dal «rinnegato Kautsky» al migliorismo della destra Pci, e in tutte le formule tacco-punta, come la «socialdemocrazia» e la formula del «partito di lotta e di governo», o la «forza tranquilla» dello slogan vittorioso di Mitterrand. La sinistra ha sempre avuto il problema di posizionarsi (come si dice degli oggetti del marketing) fra il conservatorismo degli avversari e le proprie pulsioni rivoluzionarie, ciò che spesso ne ha resa tortuosa e inefficace la comunicazione.

 

Non bisogna però pensare che le accezioni della parola «nuovo» si esauriscano tra rivoluzione e riconfigurazione. C’è anche il nuovo della variazione, proprio nel senso musicale: lo stesso tema, declinato in maniera leggermente diversa. In politica è il tirare a campare andreottiano della cosiddetta Prima Repubblica: leggere variazioni di persone e ruoli all’interno di un modo di governare immutabile. Ma in politica è anche la pratica dello spoils system: la struttura è quella, cambiano gli uomini. Nella rivoluzione cade la struttura, nella riconfigurazione si modifica, nella variazione resta la stessa ma cambiano alcuni elementi.

 

«Nuovo» però è una parola così curiosa che dipende anche da dove collochiamo l’aggettivo. Non è detto che il nuovo libro di un autore sia anche un suo libro nuovo.  Non è neppure detto che il nuovo anno sarà davvero un anno nuovo.  A differenza che in tutte le altre, in quest’ultima accezione «nuovo» non è sinonimo di «diverso» né e contrario di «uguale». Esiste infatti anche il nuovo di ripetizione, che è un po’ ironico ma è fondamentale per le comunicazioni di massa e per la produzione in serie. Come dice Rossella O’ Hara, «Domani è un altro giorno». Ma è davvero un giorno nuovo? La ripetizione è fondamentale per imprimere nella memoria dei consumatori un brand. Ma lo è anche per far credere qualcosa, indipendentemente dal fatto che sia vero o no. Era un principio di propaganda enunciato personalmente da Joseph Goebbels ma ha avuto autorevoli seguaci anche nella democrazia italiana dei tempi nostri. La ripetizione forma non l’opinione ma il senso comune, la cui formula è «lo sanno tutti». «Lo sanno tutti» che gli zingari rapiscono i bambini: non è vero, ma è vero che lo pensano in molti. Questo basta, alla propaganda se non all’accertamento dei fatti.

 

Quindi, quando diciamo «nuovo» non stiamo dicendo molto: in un certo senso è nuova persino la ripetizione ennesima di un jingle o di un luogo comune e le strategie di comunicazione spesso consistono proprio nel fare apparire come nuovo qualcosa che tanto nuovo non è. Il bello è che ciò che si vuol far apparire come nuovo deve essere ripetuto un numero sufficiente di volte da farlo diventare banale: si potrebbe dire che la comunicazione contemporanea consiste nello stupire i sensi e chetare i nervi.

 

Si potrebbe pensare che la sinistra sia per il nuovo di rivoluzione e di riconfigurazione e la destra sia per il nuovo di ripetizione e di variazione. Categorie come quelle di «conservatori», «moderati», «progressisti», «radicali» potrebbero infatti suggerirlo, nei loro nomi. Purtroppo queste categorie sono davvero vecchie, nel senso che si riferiscono a un mondo in cui la trasmissione del potere era appena passata dai modelli dinastici e aristocratici a quelli democratici.

 

Nella società di massa non è più così. Quello che è successo quando il nuovo ha fatto mitologia è che il nuovo, il progresso, le riforme, la riconfigurazione e addirittura la rivoluzione non sono stati più bandiere esclusive della sinistra e valori a questa intrinseci. Per dirla in termini gloriosamente vecchi, questa è stata una vera e propria perdita di egemonia.

 

Anche la creatività, altro termine orribilmente ambiguo, è passata da Bruno Munari e dal movimento del Settantasette ai consigli di amministrazione e ai ministri di economia e finanza. Anzi alla nostra epoca persino i conservatori, con il nome che si ritrovano, hanno dovuto procedere a un rebranding vero e proprio, inventando la buffa sigla «neocon», un ossimoro incarnato da due mozziconi di parola che assieme non dovrebbero poter stare. Ma i conservatori non hanno conservato sé stessi: si vede che hanno fatto qualche progresso.

 

Inutile dire che spesso il «nuovo» non si realizza neppure: è un’apparenza di nuovo e tutta la polemica da talk show è l’accusa reciproca di propugnare come nuovo qualcosa che nuovo non è, ma è anzi profondamente vecchio. Sempre senza mai mettere in dubbio l’equivalenza fra nuovo e buono, cioè la valorizzazione positiva del nuovo. Cioè la sua mitologia che è anche un’ideologia vera e propria, poiché è ideologica ogni assegnazione a priori di valori positivi e negativi.

 

Il risultato finale è che, divenuto mitologia, il nuovo non è più utile a orientare alcun discorso verso le differenze fra destra e sinistra che ora, non a caso, vengono date per cadute. Non ci sono linee: c’è una sfera unificata da quel principio di retorica da campagna elettorale per cui il nuovo è buono e bisogna sempre propugnarlo almeno a parole. Partiti e personalità che aspirano direttamente al potere devono collocarsi obbligatoriamente dentro a quella sfera.

 

Chi vuole ragionarci sopra, si accomodi fuori, dove non c’è obbligo di nuovismo (ma da dove, probabilmente, non si arriva a vincere elezioni). A meno che a cambiare non sia, innanzitutto, questa situazione.

 

Ma per cambiarla basta la critica e la smitizzazione del Nuovo? C’è di che dubitarne, per quanto il lavoro puntiglioso di analisi critica delle proposte e delle riforme sia necessario.

 

Io mi chiedo che rapporto ci sia fra potere e possibile. La categoria del possibile ha di interessante questo: che tiene conto delle alternative in gioco e mette quindi al centro della scena il dominio della scelta, che non è mai obbligata ma è sempre orientata. Non c’è una mitologia del possibile, a meno che non ci si rifiuti di scegliere, come faceva l’asino di Buridano. Inseguire il nuovo porta invece a una concatenazione di passaggi che appaiono obbligati e, paradossalmente, senza possibili cambiamenti una volta che il processo è incominciato. E allora torna buono il lessico dell’insistenza: il tenere duro, la determinazione, addirittura la coerenza, contro chi gufa e chi rema contro: come se la direzione fosse necessitata e l’unica scelta a disposizione degli individui fosse se assecondare o frenare. Lo si è visto per la riforma elettorale, ma lo si vede anche nella retorica dell’innovazione. L’innovazione è una bellissima cosa, ma se fosse una strada già segnata non sarebbe un gran che innovativa. In tecnologia, innovazione vuole dire finanziare cento progetti con la speranza che almeno uno o due portino a risultati: non è uno spirito, non basta volerla; è un dispendio enorme, è lavoro ed è rischio. È facile preferire il mito dell’innovazione al suo processo reale.

 

Personalmente sono molto contento che in Italia ci sia qualcuno che dia valore, prima che al nuovo in sé, al possibile, cioè al potenziale, e che pensi di riconfigurare innanzitutto le relazioni fra la politica attiva e l’attivismo di base. Non sono sicuro che basti a battere la mitologia del Nuovo, non quello che avanza ma quello che sopravanza. Viviamo in un mondo in cui il Nuovo è visto come una cosa sola, invece che le almeno quattro possibili, e in cui anche il partito è visto come contenuto in una sola persona, anziché disseminato nelle molte possibili. Costruire un senso comune sulle scelte, anziché sulle mitologie, sulle emergenze e sulle necessità: ora appare un’utopia, in passato si chiamava politica. Ma averne nostalgia sarebbe addirittura farsi una mitologia del Vecchio e questo sarebbe peggio che andar di notte. Costruire un senso comune sulle scelte sarebbe invece perseguire un nuovo non mitologico, non univoco, non buono perché nuovo, ma buono perché desiderabile e, finalmente, possibile.

 

 

[Testo dell’intervento tenuto da Stefano Bartezzaghi all’incontro di Possibile, Verona, 13 dicembre 2015]

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