Lars von Trier. Melancholia

9 Novembre 2011

Nell’ultima intervista a James Hillman (pubblicata su Tuttolibri sabato scorso) il filosofo parla di coagulatio e dissolutio come di due momenti strettamente interconnessi. “Coagulatio in alchimia significa rapprendersi in un punto, diventare più solidi, più definiti, formati, dotati di morphe”, ma il punto estremo di questa concentrazione di materia coincide con la dissoluzione totale di questa. La vita si deflagra diventando altro, dissoluzione, morte. Ed è proprio questo il tema centrale di Melancholia l’ultimo film di Lars von Trier.

 

 

La struttura è come un dittico, i due capitoli sono intimamente connessi, si guardano, si riflettono. Il primo è dedicato a Justine, interpretata da Kirsten Dunst. Si è da poche ore sposata, sembra felice: una candida limousine, lo sposo sorridente, il ricevimento in una elegante villa, tutto sembra coincidere con l’espressione spensierata e felice di Justine, bella e radiosa reginetta sposina. Ma questa non è che la coagulatio il cui punto estremo coincide con la disgregazione totale. L’inizio della fine viene inaugurato dai genitori di Justine nel momento del discorso ufficiale rivolto alla nuova vita della figlia. Il padre, un personaggio piuttosto imbarazzante, si rivolge alla sposa con una sfilza di banalità poco convincenti che innescano la brusca reazione da parte della madre che dichiara ufficialmente il suo disprezzo per il matrimonio e le sue false illusioni. Silenzio nella sala, gli ospiti raggelati e il tentativo di alcuni componenti della famiglia di mantenere la situazione sotto controllo, tutto ciò non può che ricordare lo splendido Festen del danese Thomas Vinterberg. Da questo momento tutto precipita, la sposa s’assenta in continuazione, quando vaga tra gli ospiti il suo viso pur nascosto da forzati sorrisi è spento, la sua mente assente. Lo sposo si fa goffo, stucchevole nelle sue prospettive di felicità. Dissolutio. Il matrimonio fallisce il giorno stesso del suo suggello.

 

 

La seconda parte del dittico è dedicato alla sorella della sposa, Claire, interpretata da Charlotte Gainsbourg. Nel capitolo precedente era l’organizzatrice del ricevimento, colei che cercava di mantenere ordine, di far sì che la sposa fosse sposa e non vittima della sua propria scelta. Claire era l’espressione della disciplina e della forza. Anche qui inizialmente sembra esserlo, accudisce la sorella caduta in una profondissima depressione. Ma il comparire di una presenza esterna minacciosa, un pianeta errante destinato a distruggere la Terra, le farà perdere qualsiasi stabilità psichica, come se questa mania di ipercontrollo sulla propria vita e quella altrui non fosse altro che un modo di nascondere profonde insicurezze e malesseri (Michela Marzano nel suo ultimo libro Volevo essere una farfalla porta alla luce proprio queste dinamiche di eccessivo autocontrollo che finiscono con l’innescare meccanismi autodistruttivi). Justine, invece, nella sua malinconica accettazione della morte imminente, saprà andare incontro all’annientamento con dolorosa serenità e accettazione. Le due sorelle non sono altro che la rappresentazione in estrema sintesi dei caratteri umani, e le due figure sembrano coincidere con la dicotomia a cui giunge Jung nel suo studio sui tipi psicologici, da una parte il tipo estroverso tutto proiettato sulla realtà esterna (Claire) e dall’altra il tipo introverso rivolto invece al proprio mondo interiore (Justine).

 

 

Il pianeta, emblema della fine della vita e della speranza, è la costante angosciosa che percorre tutto il film, un tema ricorrente che come in una sinfonia riappare da un movimento all’altro. E qualcosa d’orchestrale c’è davvero, le immagini del pianeta in avvicinamento sono sempre precedute e accompagnate dalle note del preludio del Tristano e Isotta di Wagner, e non si tratta di una musica catastrofica, apocalittica, da fine dei tempi bensì sembra esprimere una malinconica accettazione del susseguirsi degli eventi. E questa è la stessa sensazione che si ha nel leggere l’ultima intervista a James Hillman, in quella pacata ma assai vitale constatazione, attesa e accettazione della fine.

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