L'arte di domandare e di ascoltare

21 Marzo 2024

Cominciamo da un paradosso. A una prima impressione sembrerebbe che noi umani dobbiamo impegnarci per farci delle domande. In realtà se ci ascoltiamo con un po’ di attenzione non è difficile scoprire che è vero il contrario. Passiamo tutta la nostra vita a farci domande e se proviamo, anche con un grande sforzo, a interrompere la nostra disposizione a interrogarci su noi stessi e sul mondo, scopriamo che è impossibile. Il nostro linguaggio interiore, per noi che siamo l’animale che si parla, è un flusso continuo. Wittgenstein, nelle Osservazioni sulla filosofia della psicologia [Adelphi, Milano 2016], scrive: “All’uomo è dato di discorrere con sé stesso in completa solitudine; in una rassegna che è di gran lunga più perfetta di quella di un eremita”. Del resto, come è noto, fare e farsi domande è una costante e insistente attività delle bambine e dei bambini, che per questo sono spontaneamente e naturalmente filosofi. Non lo devono diventare. Semmai dovremmo chiederci cosa fanno la socializzazione e l’educazione, così come sono prevalentemente impostate, per limitare e spesso mortificare quella disposizione. Sia le bambine e i bambini che noi adulti siamo mossi dalle nostre aree emozionali della ricerca e della curiosità, che fanno di noi gli esseri che si fanno domande e che domandano. Quelle aree emozionali sono immediate, pre-linguistiche e pre-volontarie.

Ciò vuol dire che non possiamo fare a meno di esprimerle nella nostra esperienza. Possiamo perfezionarle grazie all’educazione e ampliarle in modo da estendere il nostro stesso mondo, sia quello interno che quello esterno. Sempre più abbiamo della nostra attività inconscia la consapevolezza che abbia a che fare col nostro parlarci interrogandoci su noi stessi; col nostro pensarci, mentre agiamo e pensiamo interagendo con gli altri. La stessa interazione per risultare produttiva ha bisogno della funzione solitaria e individuale che il cervello linguistico umano e il nostro linguaggio interiore ci mettono a disposizione e che usiamo per almeno la metà del nostro tempo di vita cognitiva [Cfr. A Pennisi, L’ottava solitudine. Il cervello e il lato oscuro del linguaggio, Il Mulino, Bologna 2024]. Quel lato opaco è l’altra faccia della nostra continua esplorazione manifesta del mondo. Così come, per dirla con i Pink Floyd, The dark side of the Moon è la condizione stessa di esistenza della Luna. Sia al cospetto di noi stessi che nelle relazioni con gli altri, noi siamo gli esseri che si fanno domande e, contingentemente, siamo gli esseri che ascoltano. Stanno probabilmente in queste nostre distinzioni specie specifiche le basi naturali e neurofenomenologiche della filosofia.

Se esiste una disposizione naturale a cercare, alla curiosità e a farsi e fare domande, deve esserci una corrispondente disposizione ad ascoltare. La filosofa Maria Zambrano ricorda che l’ascolto di Apollo nel tempio di Delfi pareva situare l’orecchio divino al centro del mondo, e quindi l’udito, che dei sensi, dice Zambrano, è quello che si usa e si esercita con maggiore intermittenza: “nel dare ascolto si presta l’attenzione più penetrante e profonda, l’attenzione decisa che l’esercizio della vista non richiede” [L’uomo e il divino, Morcelliana, Brescia 2022; p. 307]. Sarebbe troppo ardito concepire l’udito come l’asse portante dell’essere umano? In un trattato attribuito al leggendario Ermete Trismegisto si afferma che colui che ascolta deve avere un udito più acuto della voce di chi sta parlando. 

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La musica, probabilmente, è una delle principali esperienze per favorire l’incontro di ognuno con sé stesso. Dai misteri di Eleusi in onore di Demetra, la dea materna della terra, generatrice dei raccolti e cantatrice del grano, o da altre forme di riti officiati segretamente, deriva l’aggettivo mystikós, che designa l’ambito del silenzio e della segretezza, votato ad accogliere il frutto di una domanda, di una ricerca che noi rivolgiamo a noi stessi e al mondo. Fare domande è un’arte sottile. Praticandola accediamo a dimensioni del mondo e di noi stessi per le quali non abbiamo già le risposte. Possiamo scoprire convinzioni, punti di vista, aspettative, opportunità. 

Se l’educazione è una conversazione infinita, è perché è fatta di domande e di disposizione all’ascolto e non certo di risposte già pronte: è la risposta che uccide la domanda, ha sostenuto il grande psicoanalista Wilfred R. Bion. Al centro della filosofia c’è l'essere stesso che si interroga senza ulteriori determinazioni e nella propria storia evolutiva, fino al nostro presente. È soprattutto, oggi, con l'avvento dell'Antropocene e il riconoscimento dell'essere umano come "forza naturale" che la filosofia può riscoprire appieno la propria funzione, realizzando la propria capacità di prendere la giusta distanza da ogni forma stabile di sapere. Mai come oggi il potenziale rivoluzionario e ri-creativo della filosofia può essere volto alla determinazione di un nuovo possibile orientamento [E. C. Corriero, La filosofia come orientamento. Un nuovo senso da assegnare alla terra, Einaudi, Torino 2024]. Nel momento in cui protagonista della rivoluzione in corso è la natura stessa che irrompe nelle nostre vite, dove del resto era sempre stata, essendo noi natura, cambiano radicalmente le domande necessarie. La natura agisce mediante la sua parte umana e noi scopriamo di essere parte del tutto e determinati da quello che ci precede e contiene. Prendere coscienza della naturalità della nostra azione e delle nostre relazioni vuol dire interrogarsi sulla nostra essenza e sul nostro divenire, elaborando la ferita narcisistica della caduta dalla supposta centralità che era il fondamento del nostro pensarci e del nostro pensare. Per queste ragioni, opportunamente, alcuni dei più profondi filosofi del nostro tempo, come Massimo Cacciari, Giorgio Agamben, Rocco Ronchi, si pongono la questione della “filosofia prima”: dell’essere filosofia prima ancora che fare filosofia. 

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Essere e fare filosofia è vivere. Certo, ci sono tanti ambiti della nostra esperienza in cui procediamo automaticamente, utilizzando solo la nostra conoscenza tacita. Ma questo non vuol dire che negli ambiti verso i quali nutriamo e coltiviamo degli interessi noi non siamo continuamente impegnati non solo a cercare di capire come agire ma anche a domandarci perché farlo. Scopriamo allora che esiste un rapporto diretto tra le domande che ci facciamo e il livello e la profondità delle conoscenze di cui disponiamo. Non è difficile scoprire che quel patrimonio di conoscenza è figlio proprio delle domande che nel tempo ci siamo fatti e ci facciamo. Ogni volta che conosciamo qualcosa di nuovo in realtà la stiamo riconoscendo mediante la riflessione e innestando il nuovo sull’esistente. Quella disposizione a interrogarci, a dubitare dell’esistente, a riflettere e a perseguire verità e conoscenze è propriamente la filosofia. Non solo, ma l’interrogazione non riguarda solo il mondo e gli altri intorno a noi, ma continuamente la rivolgiamo a noi stessi. Prima di parlare agli altri ci parliamo e prima di pensare gli altri e il mondo ci pensiamo senza soluzione di continuità. Pare, appunto, che la nostra particolare disposizione a pensarci sia l’attività inconscia con tutte le sue articolazioni e le sue dinamiche complesse, come abbiamo accennato prima. 

Se ci chiediamo da dove proviene questa nostra disposizione, oggi abbiamo risposte parziali ma importanti che provengono dalla ricerca scientifica e in particolare dalle neuroscienze, dalla psicologia e dalle scienze cognitive. Disponiamo di un comportamento simbolico che ci mette in grado di conoscere e comprendere qualcosa anche in sua assenza, e di concepire quello che ancora non c’è. Questo fa di noi quegli esseri che non coincidono mai con sé stessi, coinvolti in una tensione costante che rinvia sempre oltre quello che già sappiamo, quello che già abbiamo e, soprattutto, quello che già siamo. Siamo certamente capaci di comportamenti strumentali immediati e pratici, ma non ci limitiamo mai al semplice fare. Siamo sempre impegnati più o meno intensamente a pensare il fare. Utilizziamo costantemente quello che abbiamo già fatto, ad esempio gli artefatti tecnici, per concepire e realizzare altri artefatti succedanei ai precedenti e possibilmente migliori. Certo, quegli artefatti possono essere finalizzati ad obiettivi di emancipazione, di cooperazione e di crescita reciproca, ma anche ad obiettivi di natura distruttiva. In entrambi i casi stiamo mostrando a noi stessi una nostra distinzione specie specifica che rende impossibile per noi esseri umani smettere di pensare e cercare.

Il cervello umano non trova mai riposo e, pur esprimendosi in saperi e artefatti determinati, in ogni prassi, compresa quella del pensare, noi non possiamo non modificare noi stessi mentre trasformiamo gli oggetti del nostro stesso pensiero e delle nostre stesse azioni.

Alla base di queste nostre caratteristiche distintive c’è una particolarità che forse più di altre rende conto di una possibile risposta alla domanda: a cosa serve la filosofia. Quella particolarità riguarda l’esercizio del dubbio. 

Ho avuto un importante e fondamentale insegnante col quale ho potuto imparare la metodologia della ricerca scientifica, Giovanni Pellicciari. In ognuno degli uffici in cui abbiamo lavorato insieme si portava con sé un piccolo quadretto contenente un foglio sul quale aveva scritto a mano: “esercita il dubbio e stai a vedere cosa ti offre il caso”.

La filosofia serve a interrogarsi sull’esistente e sul senso e il significato delle nostre scelte e delle nostre azioni.

In primo luogo, serve a interrogarci su noi stessi e sulla meraviglia del nostro corpo. Perché è dal corpo che scaturisce la nostra capacità di conoscere e di pensare. Continuiamo infatti a interrogarci su quella che forse è la domanda delle domande: come fa un pugno di materia grigia, il nostro cervello, a produrre pensieri?

Allo stesso tempo, in quanto esseri relazionali, siamo costantemente impegnati a interrogarci sull’altro, sulle sue differenze, sulle sue affinità con noi e sul complesso gioco dell’approssimazione, che può dar vita a forme cooperative o a forme distruttive. E ancora una volta ci interrogheremo su come accada che prevalga la cooperazione o la distruzione. Per avere scienza di qualsiasi cosa occorre stabilire la sua differenza. Per quanto possiamo essere presi dall’indifferenza e quindi da una sospensione eccessiva della risonanza relazionale ed affettiva con gli altri, una domanda prima o poi verrà e porterà con sé il dubbio, magari tardivo, non solo su quello che pensiamo degli altri e del mondo, ma anche sulla percezione di noi stessi e sulla nostra autostima. E ancora una volta sarà stata la filosofia a permetterci di riflettere su noi stessi, sul senso della nostra vita e sulle nostre azioni [mi permetto su questi temi di rinviare a U. Morelli, Indifferenza. Crisi del legame sociale, nuove solitudini e possibilità creative, Castelvecchi, Roma 2023].

Nell’epoca in cui la pervasività della tecnica sembrerebbe risolvere e neutralizzare ogni bisogno di interrogarsi, di dubitare e di pensare, scopriamo che siamo capaci di andare oltre ogni determinismo. Mentre la tecnica è deterministica ed è il risultato delle nostre stesse azioni e invenzioni come essere tecnologici, la nostra capacità di pensare e creare, componendo e ricomponendo in modi almeno in parte originale i repertori esistenti del mondo, è irriducibile e non deterministica. In questo senso la filosofia diventa un modo di essere più che una sola pratica intellettuale e riguarda l’esercizio della responsabilità che ognuno di noi ha prima di tutto rispetto a sé stesso e all’uso che fa della propria vita, e poi rispetto agli altri.

Può accadere, e purtroppo accade, che l’angoscia della certezza e il nostro atavico bisogno di sicurezza ci consegnino al conformismo e rischino di ridurre le nostre relazioni e la nostra socialità, il nostro bisogno di ricercare i significati e di esercitare il dubbio, ad una logica di branco o di massa, in cui la nostra capacità di pensare sembra ottusa, mentre seguiamo un capo branco che ulula e con cui ci disponiamo tacitamente ad ululare, adulandolo. L’intervento del dubbio e di domande inedite ci soccorrerà, ancora una volta facendoci accedere a possibili estensioni di noi e alla bellezza di scoprirci e riscoprirci. La filosofia è come la bellezza: una domanda [U. Morelli, La bellezza è una domanda]. Fino a quando la filosofia e la bellezza rimarranno identificate con un canone esteriore, non riusciremo a sentirle agire in noi per quello che effettivamente possono fare: estendere e aumentare le nostre possibilità, le nostre azioni e la concezione di noi stessi. La bellezza e la filosofia, quindi, sono una domanda infinita che può generare l’oltre. Sarà, auspicabilmente, ancora una volta la filosofia, a consentirci una domanda che apra uno spiraglio, una inedita finestra di comprensibilità, su quello che stiamo facendo e su quello che sta accadendo. Quella domanda potrà costare molto a noi che ce la facciamo, ma scopriremo che farsela è vivere, tutto il resto è vegetare.

 

Questa sera, giovedì 21 marzo alle ore 17.30, presso la Casa del Teatro Ragazzi e Giovani (Corso Galileo Ferraris 266, Torino) CONVIVIO. Esperienze di crescita e conoscenza. Un ciclo di incontri su filosofia, musica e mito. Il primo appuntamento con il saggista e psicologo italiano Ugo Morelli, sul tema della Filosofia.

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