Riconoscersi finalmente terrestri

4 Novembre 2023

Nell’introdurre il libro di Pier Paolo Pasolini uscito nel 1971, Trasumanar e organizar [Garzanti, Milano], Franco Cordelli rivolge un invito al lettore: «Per leggere le poesie di Trasumanar e organizzar occorre prima di tutto molta pazienza…». Il proposito epistemologico e operativo che anima il lavoro di Mauro Ceruti con Francesco Bellusci nel loro ultimo libro, Umanizzare la modernità (Raffaello Cortina Editore, 2023, p. 144) ,  si fonda su un invito alla riflessione e alla capacità umana di trascendersi che, per la sua portata, non esige meno pazienza e senso di responsabilità. Pare di essere di fronte a uno di quegli “effetti ragguardevoli” che la ricerca scientifica ha sulla cultura e sui nostri sistemi di pensiero, ma ancor più sui nostri modi di vivere e sentire il mondo, di cui ha scritto di recente Emilia Margoni su doppiozero [Fisica superstar]. Scrive, infatti, Margoni, a proposito di alcuni percorsi di approfondimento e ricerca nella fisica contemporanea: “E mi viene da credere che questo détour nelle pendenze scoscese di un campo che pretende di dire l’ultima parola sulla realtà materiale possa avere effetti ragguardevoli sulla sua controparte culturale – proprio come accadeva negli scritti di quei mirabili esponenti della filosofia classica, insensibili alle presunte distinzioni tra cultura e natura, convinti che la trasformazione del nostro mondo interiore non potesse passare che per una conoscenza esatta di quanto ci lega intimamente a ogni altro atomo di materia sparso nel cosmo”. Ecco, è forse proprio quel legame intimo che connette l’atomo al cosmo in modo circolare e inestricabile che, tra le altre ispirazioni, sembra fecondare le riflessioni di Ceruti con Bellusci in questo libro. Chi ha potuto dialogare con Ceruti nel corso del tempo sa che prima di tutto agisce, nel pensare insieme, un’atmosfera, un fondo accomunante che precede e informa la tessitura della conoscenza. 

Anche questo libro contiene pensieri potenti e cruciali per tutti noi, ma sono quasi sussurrati, all’insegna del silenzio sulla cui superficie, come in bassorilievo, emergono analisi e indicazioni per uno scopo vissuto con un sentimento di obbligo. La domanda, forse difensiva rispetto all’ineluttabilità dell’analisi, è se quella “obbligatorietà” è il problema o la soluzione. I miti, da Orfeo e Euridice, a Pandora, non deporrebbero a favore dell’efficacia di ciò che si presenta come ingiunzione obbligatoria. Eppure, l’umanità oggi “è obbligata”, per la prima volta nella sua storia, a uscire dall’età della guerra e dello sfruttamento incondizionato dell’ambiente. Richiamando Ernesto Balducci, gli autori sostengono che l’uomo del futuro sarà uomo di pace o non sarà. Guardandosi intorno non è facile resistere alla tentazione di considerare utopica una tale affermazione. È proprio l’utopia, quel luogo che più che non esserci è il luogo che non c’è ancora, ad essere forse l’alimento delle prospettive di umanizzazione della modernità che il testo cerca di disegnare. “Il futuro del progresso dovrà sgorgare dalle viscere della necessità e dall’innovazione da essa dettata, senza la quale l’umanità rischia di perdere sé stessa: la costruzione di una comunità mondiale”. Foggiare istituzioni planetarie è certamente un obbligo e la strada per perseguire quell’ineluttabile scopo è molto impervia. Già prendere congedo dal mito moderno del progresso è un indubbio passo avanti, che in buona misura però è ancora da compiere. Il peso del secolo ventesimo e le sue terribili ombre si proiettano in forme in buona misura imprevedibili nel presente. Leggendo dell’obbligatorietà proposta dagli autori non può non venire in mente, seppur trattandosi di cose molto diverse, la logica della deterrenza nucleare che ha bloccato il mondo e tuttora lo fa con la strategia della paura. Sulla nascita e l’affermazione di quella strategia del terrore reciproco si può molto utilmente leggere l’ultimo libro di Benjamin Labatut, Maniac, [Adelphi, Milano 2023].

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Poche riflessioni possono aiutare a comprendere su quali complesse implicazioni si regga il rapporto tra discrezionalità e arbitrio comportamentale da un lato, e obbligatorietà dall’altro, quando in gioco sono la tensione a conoscere e l’aggressività umane, meglio di quella che Labatut mette sulla bocca del premio Nobel per la fisica Eugene Wigner, amico di John von Neumann e come lui componente del gruppo di scienziati che lavorarono al progetto della prima bomba atomica a Los Alamos. Domandandosi “come abbiamo potuto gingillarci con forze così terribili”, Wigner sostiene: “Un piccolo sporco segreto di cui quasi tutti noi siamo al corrente, ma di cui raramente si parla, è che ad attrarci, a spingerci a progettare quelle armi non fu il desiderio di potere o di ricchezza, di fama o di gloria, ma il puro entusiasmo per l'aspetto scientifico. A questo non abbiamo saputo resistere. La pressione e la temperatura generate dalla reazione nucleare a catena, quei principi fisici così sublimi, il colossale rilascio di energia… tutto era diverso da qualunque altra cosa avessimo conosciuto. L'idrodinamica dell'esplosione delle onde d'urto, o quella luce sconvolgente che per poco non ci accecò… nessun occhio umano le aveva mai viste prima. Stavamo scoprendo qualcosa che nemmeno Dio aveva creato prima di noi. Perché quelle condizioni non erano mai esistite altrove nell'universo; la fusione è un fenomeno comune nel cuore delle stelle, ma noi avevamo ottenuto la fissione all'interno di una sfera di metallo di appena un metro e mezzo di diametro, dentro la quale si annidava un nocciolo ancora più piccolo di soli sei chilogrammi di plutonio. Ancora non riesco a credere che ci siamo davvero riusciti. Non si trattava quindi soltanto dell'annosa corsa per battere i nazisti (e più tardi i russi, e poi i cinesi, e così via sino alla fine del mondo), ma della gioia di pensare l'impensabile e fare l'impossibile, di spingersi oltre ogni limite umano facendo ardere il dono di prometeo al massimo dell'incandescenza”. Il bivio di fronte al quale si trova l’era planetaria impone di tenere conto della complessità dell’umano e dei vincoli e delle possibilità che da quella complessità derivano. Secondo Ceruti e Bellusci, l’obiettivo è riscrivere il racconto di noi stessi. La riscrittura dovrà essere concepita in modo da congiungere una società strutturata dalla natura e una natura strutturata dalla società. Sono soprattutto i pericoli e le minacce globali che ci riportano all'appartenenza al vivente, alle relazioni vitali con il cosmo, con il pianeta, con le biodiversità animali e vegetali, nonché con le diversità culturali e con l'unità di specie. Da qui l'esigenza di concepire un umanesimo rigenerato che abbia come obiettivo la realtà complessa e indivisibile della vita umana. A questo livello dell'analisi si pone una questione di non poco conto che riguarda l'esigenza per gli esseri umani di elaborare una ferita narcisistica che deriva dal riconoscere che non è in nessun modo possibile parlare di vita umana se non parlando della vita di tutto il sistema a cui l'umano appartiene e da cui dipende. L'umanesimo, in questa prospettiva, mostra di avere un senso solo se si considerano le distinzioni di specie degli umani come le risorse principali per far fronte alla criticità del presente. È una specie simbolica come quella umana che non solo sa ma sa di sapere, che non solo agisce ma sa riflettere sull'azione, che non solo vive ma sa di vivere, che non solo muore ma sa di morire, che può assumersi la responsabilità di convertire sé stessa, secondo gli orientamenti proposti con tanta passione da Alexander Langer; di operare cioè una conversione ecologica capace di far riconoscere a sé stessa di essere parte del tutto nel sistema vivente sul pianeta Terra.

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Si avverte nell’ispirazione che muove i pensieri di Ceruti e Bellusci la stessa tensione propositiva, ancorché critica, che comunicano i pensieri di Isabelle Stengers quando analizza le possibilità di resistere alla barbarie a venire, nel suo libro Nel tempo delle catastrofi [Rosenberg & Sellier, Torino 2021]. "La natura presenta il suo conto e fa intrusione. Era sempre stata qui e siamo sempre stati natura, anche quando prometeicamente abbiamo voluto sostenere una posizione di “padroni del pianeta” per dirla con Ian Tattersall. E mentre il clima muta e gli ecosistemi si degradano, crescono le diseguaglianze sociali e dilaga l'autoritarismo. È negli eventi catastrofici, che Isabelle Stengers invita a scorgere i segni della barbarie a venire. Denunciare non è più sufficiente. Si tratta di cercare le risorse per cominciare a nutrire – qui e ora – i germi di un futuro diverso da quello a cui lo stato di cose presente pare inesorabilmente destinarci. Il bagaglio d'esperienze che molti movimenti, dalle espressioni popolari di base alla scienza, custodiscono, può rappresentare un contributo prezioso per la costruzione di un futuro che non sia barbaro. Il senso della proposta di un umanesimo planetario, concepito come evoluzione dell’umanesimo classico sta nell’uscita da una “concezione insulare” dell’uomo, isolato dalla natura e dalla propria natura, e da una concezione dell’identità basata sulla contrapposizione amico-nemico, sostengono Ceruti e Bellusci. “L'umanesimo planetario esige di pensare che la relazione precede l'esistenza, di pensare cioè che esiste (i sistemi fisici, chimici, viventi, umani, sociali, ecologici…) in verità coesiste, di pensare che il pensiero stesso presuppone un'ecologia del pensiero”. Non si dà individuazione se non nella codipendenza. Come sostiene, con un neologismo appropriato, Francesco Remotti, invece che “individui” no siamo “condividui”. Un vero e proprio salto di prospettiva, l'analisi di Ceruti e Bellusci la fa ponendo al centro il tema della vulnerabilità come categoria costitutiva dell’esperienza della vita. “La prospettiva della vulnerabilità non solo porta ad accomunare ciascun essere umano a ogni altro essere vivente appunto porta a generare un ethos, a produrre un atteggiamento più premuroso della differenza dell'altro, sviluppare una sensibilità nuova e riqualificare il proprio essere-nel-mondo e il proprio essere-con-gli altri”. Allora la questione che si propone e che gli autori precisamente propongono, è cercare le condizioni per elaborare in modo più efficace il nostro rapporto con la natura di cui siamo parte, cercando di diventare da dominatori della natura, dominatori del proprio dominio. La necessità di superare il paradigma del dominio può essere affrontata riconoscendo la nostra comune matrice terrestre, se non altro sfruttando la nostra propensione a coalizzarci di fronte a un pericolo esterno. La crescita della consapevolezza e della coscienza delle ambivalenze, delle contraddizioni, dei paradossi, delle debolezze che accompagnano l'esercizio di una supposta sovranità rinforzata, potrebbe aprire lo spazio per riconoscere la necessità di sviluppare una coscienza della complessità di cui si può nutrire l’umanesimo planetario. “Il congedo dal paradigma del dominio comporta un salto antropologico che richiede un salto epistemologico”. Ciò vuol dire educarci a riconoscere che da signori e possessori della natura noi siamo fragili abitanti di un fragile pianeta, sperduti entrambi, noi e il nostro pianeta, in un cosmo immenso che più conosciamo più diventa ignoto. Secondo questa prospettiva si può stabilire una connessione importante fra un nuovo modo di concepire la modernità, intesa finalmente come il riconoscimento delle distinzioni di specie, sulla base di un principio di responsabilità attiva, e l'assunzione, finalmente, della nostra condizione planetaria nella quale assumerci l'impegno che deriva dalle nostre distinzioni di specie per costruire una vivibilità sufficientemente buona per noi e per il resto del sistema vivente. Se uno dei tratti principali della crisi della modernità è la perdita del senso di futuro, secondo gli autori, ritrovare la modernità vuol dire individuare un nuovo modo di pensare il futuro. Questo modo deve assumere come propri criteri l'indeterminazione, la provvisorietà e l'aleatorietà, sia nella logica delle imprese scientifiche sia nella cultura diffusa, riconoscendo che nella nostra condizione esistenziale attuale ogni possibilità è nel limite. Solo riconoscendo il valore del limite possiamo immaginare di creare le condizioni per pensare e vivere il futuro oltre a sostenere una accettabile vivibilità del presente. C’è da domandarsi, allora, se un altro tipo di obbligatorietà non possa affermarsi, portando al riconoscimento del limite e al valore della rinuncia reciproca e concordata, dove i vantaggi della cooperazione possano emergere sui costi della competizione. Ciò significherebbe diventare umanisti planetari per riconoscersi finalmente terrestri.

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