Lessico Foucault. Interstizio

7 Maggio 2024

Sono passati 40 anni dalla morte di Michel Foucault, eppure da almeno 30 vengono pubblicati suoi materiali inediti con un ritmo tale da non farci quasi accorgere del tempo passato. Si è cominciato nel 1991 con la raccolta in 4 volumi dei saggi sparsi e delle interviste che, in realtà, erano già stati resi pubblici in vita: Dits et écrits (Gallimard), solo in parte tradotti in italiano come Archivio Foucault (Feltrinelli). Quindi sono usciti per vari editori i testi di seminari e conferenze tenuti nelle università del Nord e del Sud America. Dal 1997 al 2017 si è completata l’edizione dei 13 corsi da lui tenuti al Collège de France tra il 1971 e il 1984, ma poi sono stati dati alle stampe anche un libro, Le confessioni della carne, quarta tappa della Storia della sessualità (2018, la traduzione italiana, sempre Feltrinelli, è del 2022), e altri testi preparati per lezioni in aula che coprono praticamente tutta la carriera accademica di Foucault tra gli anni Cinquanta e Sessanta. Un patrimonio di carte che non ha ancora visto la fine. Strano destino, si direbbe, per un autore che nel suo laconico testamento aveva raccomandato «niente pubblicazioni postume». Inevitabile destino, però, per ogni autore la cui opera venga storicizzata e canonizzata. Foucault stesso l’aveva osservato chiedendosi, a proposito dei criteri con i quali si compila un Opus Postumum, dove ci si debba fermare: «tra i milioni di tracce lasciate da qualcuno alla sua morte, come si può definire un’opera? La teoria dell’opera non esiste», tanto che persino di fronte a un appunto casuale di Nietzsche, per esempio una lista per la lavanderia annotata in quaderno di aforismi, la domanda se pubblicarlo o meno avrà più o meno sempre la stessa risposta: perché no?

Materiali inediti a parte, fra le questioni che Foucault ci ha lasciato in eredità c’è sicuramente il modo di relazionarci alle sue ricerche. Bisogna usarle come attrezzi di una cassetta da lavoro, come ha spesso ripetuto, dunque violarle all’occorrenza, persino tradirle, se serve a orientarci su una pista, oppure bisogna rassegnarsi al dominio del commento, della ricostruzione storica e filologica? Più gli anni passano, più l’attenzione sembra spostarsi su questo secondo impegno: quando un pensiero si fa classico non smette mai di essere messo a punto. E tuttavia l’insofferenza che già gli allievi diretti di Foucault hanno manifestato fin dal principio per questa — inevitabile, meglio ripeterlo – deriva, è oggi la stessa di quanti sono stati toccati dalle sue intuizioni, dalle sue analisi, e che prendono sul serio la direzione che ha cercato di imprimere al suo lavoro filosofico: elaborare una «diagnosi del presente» o, come ha scritto una volta, «profetizzare l’istante».

Questa espressione deriva da uno dei pochi inediti realmente significativi fra quelli apparsi più di recente: Le discours philosophique (Gallimard-Seuil 2023). Un vero e proprio libro che Foucault scrisse nell’estate del 1966, subito dopo la pubblicazione di Le parole e le cose, ma che decise di tenere nel cassetto dedicandosi piuttosto al suo unico libro teorico e di metodo, L’archeologia del sapere (1969). Riconoscere quel che accade oggi, darne conto, descrivere gli eventi che emergono nell’attualità, riconoscibili specie se rappresentano un momento di discontinuità con il pregresso, è per lui il compito di una filosofia che non rimuova più né il soggetto che parla, nella sua concretezza e nelle sue differenze, né il “qui” e “ora” da cui parla. 

È lo stesso programma che avrebbe rilanciato, nell’ultima fase della sua vita, facendo leva su quanto scriveva Kant nel saggio Che cos’è l’Illuminismo? Cosa vuol dire, però, diagnosticare il presente se vi siamo dentro, se parliamo e agiamo obbedendo alle sue condizioni,  senza la minima distanza storica, e come possiamo riuscirci se abbiamo un’altra difficoltà sempre più stringente, anche se già Foucault la vedeva vecchia di decenni: l’incapacità di immaginare il futuro? La situazione paradossale di una filosofia dell’attualità è quella di doversi ricavare uno spazio dove apparentemente non ce n’è, di ricavarsi una zona di scarto rispetto all’epoca nella quale si vive, ai saperi, ai poteri e ai discorsi che la dominano. Proprio Foucault, tuttavia, ne ha indicato la possibilità, individuando il crinale dove l’ordine del presente può disarticolarsi per far emergere i mutamenti che lo stanno attraversando. 

La parola chiave per indicare questo spazio è “interstizio”, termine che compare già con rilievo in Le parole e le cose e su cui Foucault riflette diffusamente in Le discours philosophique. «In ogni epoca e in ogni cultura», scrive, «c’è una rete di rapporti determinanti» che non viene tematizzata, esplicitata, e che si colloca precisamente nell’interstizio fra i sistemi di sapere, le pratiche del potere e l’ordine dei discorsi. L’interstizio è la zona d’ombra fra gli elementi che definiscono una cultura, ma che non è meno decisiva per la sua costruzione. È il «non-luogo» dal quale emergono gli eventi storici ed è inevitabilmente anche la discarica di tutto quel che una cultura lascia dietro di sé, i suoi rifiuti e le sue marginalità. L’interstizio, perciò, c’è sempre, a cercarlo con attenzione si trova sempre. Non è una teoria del potere o della società, che può imporsi per un certo tempo o può fallire, non è un ideale da inseguire, una proposta da formulare e neppure un campo omogeneo nel quale le forze opposte di un’epoca si confrontano o si scontrano. È la risorsa inesauribile del cambiamento, la condizione materiale che rende possibile ogni formazione di senso, ma è anche lo spazio dato alle loro mutazioni. L’evento storico, la sua emergenza, avrebbe scritto nei primi anni Settanta leggendo Nietzsche, «si produce sempre nell’interstizio» e non è decisa da una volontà, bensì dall’articolazione di quei «rapporti determinanti» che, essendo rintracciabili in ogni cultura, costituiscono un vero e proprio «universale interstiziale».

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Praticare l’interstizio, nominarlo, descriverlo, farlo apparire con tutta la sua forza condizionante, è appunto il compito di una filosofia dell’attualità, è ciò che permette di guardare fra i margini del presente per riconoscere la trama dei suoi eventi. Dato che non condivide lo stesso spazio e lo stesso ordine dei discorsi vigenti, l’interstizio costruisce una sua propria distanza dal contesto in cui siamo immersi senza spingerci in un altrove ma trattenendoci, appunto, nel “fra”. Il buon lettore di Foucault vede facilmente nell’interstizio la prima bozza di quello che, nell’Archeologia del sapere, sarebbe stato chiamato a priori storico. Nella parola “interstizio”, tuttavia, c’è un sovrappiù di materialità. Non indica solo una condizione di possibilità che, per quanto concreta, resta inaccessibile alla pratica, ma uno spazio percorribile che non è diviso da noi con un confine e che si lascia descrivere. Quando Foucault ha cercato di farlo metodologicamente, sempre in L’archeologia del sapere, ha di fatto sviluppato la nozione di interstizio in un’altra, l’archivio. Quel che entrambe hanno in comune è di essere il margine attivo e condizionante non saturato dai discorsi, dai saperi e dai poteri istituzionalizzati. L’archivio presenta, però, una pulsione totalizzante che l’interstizio non ha. Pur avendo una vocazione universale, è di quelle che dipendono dal fatto di essere dappertutto e non, invece, di ricomprendere tutto. 

Non è difficile constatare come le ricerche di Foucault si siano concentrate di continuo su realtà interstiziali: folli, malati, criminali, detenuti, vite infami, gli anormali, le relazioni tra governanti e governati, il corpo e il sé come limiti di resistenza all’ordine che li assoggetta. Dall’osservazione dell’interstizio vengono anche alcune delle emergenze storiche che Foucault ha visto sorgere intorno a lui e che spesso sono state oggetto di polemiche: il tema della spiritualità politica che gli si impone nei giorni della rivolta iraniana, per esempio, l’annuncio di un’epoca segnata dalle migrazioni di massa guardando l’odissea dei boat people vietnamiti, la percezione dell’anacronismo dei regimi comunisti constatando la differenza dei rapporti delle persone con la polizia a Berlino Ovest e a Berlino Est, l’individuazione del mostruoso e del ridicolo,  di un principio “ubuesco”, nella creazione del consenso tanto nei totalitarismi del Novecento quanto nelle democrazie avanzate, per tacere del tema su cui si è maggiormente discusso dopo la sua morte, il biopotere, che è stato finora il più fecondo dei suoi lasciti. 

L’interstizio non è necessariamente uno spazio aperto alla speranza, ma d’altra parte è la riserva di potenzialità inespresse o in via di espressione a cui può avere accesso un pensiero eretico e critico, una filosofia che voglia essere davvero diagnosi del presente senza tradursi né in ideologia né in una «direzione di coscienza». Quel che possiamo vedere, secondo Foucault, sono fondamentalmente le discontinuità e le mutazioni, anche quelle in corso, o se non altro i loro annunci, che si manifestano laddove appaiono cortocircuiti negli ordini vigenti oppure qualcosa diventa per noi intollerabile. Oggi abbiamo di fronte a noi conflitti che illuminano interstizi latenti sui quali occorrerebbe dirigere le ricerche: guerre che diventano endemiche e che rovesciano l’idea della pace come condizione normale; crisi dello stato sovrano e resurrezione popolare dei sovranismi; fede e mercato; globalizzazione e localismo; pressione demografica e denatalità; informatizzazione del lavoro e nuovo feudalesimo; sviluppo ed emergenza ambientale. L’elenco potrebbe essere tanto lungo quante sono le relazioni concrete che abitano l’interstizio e che rappresentano le condizioni di possibilità materiali del nostro presente. L’unica vera speranza lasciataci da Foucault è che l’interstizio c’è, sempre e dovunque, e che non smette di muoversi. La diagnosi del presente, però, non è né un discorso sul mondo né una proposta etica. È essa stessa una pratica, un’azione del pensiero o meglio, come si legge in Le discours philosophique, è la presa in carico di ciò che la filosofia è diventata dal momento in cui ha dismesso la maschera del discorso universale per aprirsi alle differenze che oggi reclamano diritto di parola. L’interstizio chiama perciò la filosofia a riconoscersi per l’unica cosa che può ancora essere: fondamentalmente «un atto politico».

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TAGGED: Michel Foucault