Londra. Il paradigma del Clapton Hart

13 Febbraio 2013

In un locale pubblico di una qualche consistenza c’è sempre un inventario più o meno esaustivo del luogo in cui esso sorge. L’umanità vi si riunisce sotto specie di architettura, arredamento, culinaria e, in fine, di modalità di connessione sociale. Per questo complesso di elementi quel certo locale si presta alla funzione di paradigma, ci fornisce cioè le componenti essenziali con le quali noi possiamo leggere il sistema storico-sociale in cui sta. Chiaro, bisogna saperle tirare fuori queste componenti essenziali e a seconda di quanta armonia si realizzi tra di esse si può pensare di poterlo fare. Insomma più il locale è riuscito più racconta la città in cui “vive”. Tantissimi locali del mondo sono solo approssimazioni della società in cui si riflettono, perché ne propongono solo taluni frammenti tralasciandone di imprescindibili e risultano, così facendo, proprio brutti: perché non si armonizzano con la società a cui dovrebbero appartenere.

 

La controprova è semplice, basta entrare in quei posti che propongono lo scenario fittizio di un mondo a tema: il Far West, la Fantascienza, la Savana, Topolinia, i Pirati, il Mediterraneo, il Vintage, il Rock, il Cinema, Peter Pan, il Design. Questo genere di locali sono compressioni dell’immaginario collettivo entro cui si pensa di poter far abitare confortevolmente la gente per qualche momento. Nel loro forzare la libera e spontanea sensibilità di chi vi entra non producono energia narrativa, non raccontano alcunché del mondo che sta “là fuori”, rimangono allo stadio di sfondo inerte, il loro tema risulta né più né meno che un materiale di rivestimento antiaderente (come quello di certe padelle da cucina). Il gioco è quello del Mondo di Disney in cui il patto percettivo è stabilito all’ingresso, all’atto stesso dell’acquisto del biglietto d’entrata: “Pago per entrare nel mondo avulso che qui si realizza e per mettere in pausa il flusso esistenziale del mio quotidiano”. E il gioco va bene nel baraccone cosmico di Disneyworld. Diversa è la prospettiva quando l’irruzione, nella normale vita di tutti i giorni, del “tema” proposto da un bar, nato per gli umili scopi del ristoro, è un’interferenza che, attraverso una vera e propria manipolazione della realtà, costringe a una reazione “adattiva”: quando metti piede nei locali a tema devi adeguarti, accogliere le “riflessioni” che essi propongono; ti costringono a reagire emotivamente a un loro sistema di pensiero. Questi locali più estranei e lontani sono, meno “agganciano” il reale in cui vengono collocati.

 

 

Altra cosa è quando si sceglie un luogo con l’obiettivo di fare una pausa davanti a una birra, quando si vuole andare in un posto che ti accolga caldamente offrendoti un angolo “mentalmente pacifico” nel mondo in cui sei. E questo si verifica quando un luogo pubblico, cioè per tutti, ti sussume in una narrazione più complessiva, quando esso parla insieme a te, incastrandosi con la tua consistenza di persona piena e vivente in quel dato spicchio di mondo.

 

Io credo che il giusto amalgama si verifichi abbastanza di rado. Se escludiamo i locali “tradizionali” le cui filologie per così dire etniche devono sottostare a dei protocolli stilistici dettati da una supposta tradizione storicamente depositata (motivo per cui i locali “tipici” convogliano sovente un passato artificioso), noi abbiamo a che fare più spesso con locali creati ex-novo, con il preciso intento di “voler dire” qualcosa in un dato contesto; qualcosa che non sia precostituito, ma inedito, un significato che si produce nel mentre noi utilizziamo quel certo luogo, una specie di gioco di squadra tra locale e avventore, una sinergia tra vissuti che diventi temporaneo ma autentico “star bene”.

 

Non è dato sapere a priori, naturalmente, quale sia l’idea buona, che funziona: la formula è efficace quando sulla scena tutti gli attori, il locale e chi lo vive, producono insieme una vera “scrittura di scena”.

 

 

Al Clapton Hart (Londra, quartiere di Clapton), sabato scorso, verso le 23.00, tutto produceva calore: i gusti convocati, con il loro frisson, emanavano come una compostezza umana, una pace raggiunta. Tutto dentro era artificiale, tra le alte pareti rosso bordeaux o nere o muschio, alcune occupate da grandi tele vagamente alla maniera di Bacon, o da una grande lavagna con su incisa una scritta infantile/disturbata, o da teorie di porte cadenti tra cui solo una autenticamente utile per andare alla toilette. Tra angoli di scaffalature sconnesse cariche di piccole ma numerose biblioteche non meno sconnesse, sotto gabbie da uccelli appese ai soffitti con dentro piccoli lampadari in vetro simil-Murano, tra vecchie sedie e tavoli assemblati pervicacemente secondo il criterio dell’eterogeneità: come dire, un tema svolto a più mani. L’arsenale di pompe da birra spianato sul bancone grigio scuro tutto smozzicato e dietro un enorme specchio maculato dagli anni. Dentro all’edificio vittoriano esteriormente quasi fatiscente qualche centinaio di persone trascorreva il tempo. Il brillìo degli smartphone si alternava a quello delle labbra lucide delle ragazze, un’occhiata a WhatsApp e una ai compagni di tavolo o ai tavoli vicini, voci soffuse, sorrisi soffusi, musica trattenuta entro i confini del “ben essere”. Nessuna tipizzazione, le persone dagli aspetti più variegati e dalle più diverse provenienze tenute sobriamente insieme da quel discreto dialogo, all’insegna dell’eterogeneità, tra il locale e i suoi avventori.

 

Il locale è un sistema di accenni e allusioni che in sé non sono nulla, ma parlano con noi, come fossero funzioni che si attivano solo a certe condizioni. Questo sistema è probabilmente la personalità del locale, essa si sviluppa via via tramite ciascuno dei suoi avventori. I locali a tema sono indifferenti, quelli autentici non sono indifferenti e si muovono plasticamente con chi li frequenta: ecco il loro senso. Essi non accolgono tradizioni e posticci segni folklorici – quelli sono per gli estranei, detti “turisti” –, i locali autentici, organismi vivi, diventano vivi e significativi lì, al momento in cui sono vissuti.

 

 

Il fatto che si sia a Londra è secondario, in questa grande città la gente si incontra per affidarsi alle suggestioni prodotte dalle persone insieme al locale. Ciascuno entrando non si pensa come inglese più o meno rappresentativo, ma come individuo tout-court, che viene certo da una società/cultura definita, ma che in quel momento non ha alcun interesse a ribadirne l’appartenenza. Lì cerca, ripeto, un generale umano ben essere che sta oltre lo specifico locale, e proprio per questo, abbandonate le vesti sovrastrutturali, le persone si manifestano nella loro più sentita genuinità. D’altro canto, gli aiuti dello chef sono polacchi e rumeni, il responsabile della pulizia della cucina un italiano, i camerieri di ogni dove: che tipicità potrebbero mai offrire? Questo è uno dei locali di Clapton, della gente di Clapton che è come dire della Bovisa, di Monte Mario, di Marassi, della Giudecca, della Bolognina.  

 

È facile che i meccanismi di attrazione di un locale pubblico verso le persone siano del tutto simili a quelli che si attivano tra i ragazzi quando scelgono di incontrarsi vicino a un muretto scomodissimo e perennemente coperto di muschio, cioè freddo dal lato nord. Perché non nei pressi della panchina che sta più in là, perché non nell’angolo di un giardino riparato dietro agli alberi? Perché quel muretto e quel muschio messi insieme ai ragazzi parlano, dicono, producono equilibri, che vicino alla panchina non scaturiscono. Ma il perché di questo rimane oscuro.

 

 

Pomeriggio di domenica, verifica dell’armonia del Clapton Hart, giusto per evitare l’eventuale abbaglio di una impressione momentanea di un sabato sera. Il locale cambia luce, naturalmente, e la fauna che lo popola, ma l’amalgama resiste e mostra nella sua completa sincerità la ragione per cui il Clapton Hart, locale non-tematico e non-approssimativo, sia un paradigma: lo è poiché è in sintonia con la popolazione del quartiere. La domenica pomeriggio, la frequentazione varia, sono adulti, molti, che vogliono concludere la fine della settimana con calma e discrezione, parlano sottovoce, sorridono, non ho visto sui volti un minimo ghigno di disappunto, nessuno sembrava volesse attribuire agli altri le responsabilità delle sue proprie sfortune, era lì, semmai, per sollevarsi dal quotidiano affanno in quella piazza sgombra e ariosa, una piccola libera agorà, dove andare per essere ancora un po’ umani, forse. È questo che intendo per “scrittura di scena” di un pubblico locale: un prodotto che dura il tempo in cui avviene, ma che per avvenire ha bisogno di una perfezione che lo “sporco” umano può realizzare, quell’intersecarsi fin nei minimi recessi dell’equilibrio emozionale degli individui con il loro ambiente. I densi colori tenebrosi per la sera della gioventù diventano pastelli acquerellati per il giorno di tutti, del sollievo generale che torna e si rinnova.

 

 

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