Emile Durkheim / Il ruolo dei grandi uomini nella storia

23 Marzo 2018

A cento anni dalla morte di Emile Durkheim, pubblichiamo un inedito in Italia del grande sociologo francese. La breve prolusione di congedo che, agli inizi della sua carriera di insegnamento, nella veste di professore di filosofia, egli tenne nel 1883 ai ragazzi dell’ultimo anno di liceo, nel comune di Sens. Durkheim parla del ruolo dei grandi uomini nella storia e del significato che deve assumere la celebrazione e la valorizzazione delle eccellenze nel contesto di una società egualitaria e democratica. Tutto il discorso culmina nell’indicare ai futuri cittadini la cifra dell’ethos repubblicano in un “individualismo” morale e responsabile, che sappia conciliare la difesa a oltranza dell’autonomia personale con il riconoscimento e l’emulazione del valore altrui. Un discorso vigoroso, pur senza cedere mai alla retorica, e ancora attuale. 

Francesco Bellusci

 

Giovani studenti,

 

per quanto possa costare al nostro amor proprio, bisogna riconoscere che Dio ha fatto due specie di uomini ben distinti: i grandi e i piccoli. Non si è mai discusso molto per determinare quale sia quaggiù il ruolo dei piccoli e degli umili. Ebbene! Lo sappiamo anche troppo: in genere la nostra sola funzione è di vivere, di perpetuare la razza, di fornire la materia per nuove creazioni, di tenere la scena mentre altri avvenimenti e nuovi attori si preparano. Ma gli altri a che servono? A quali scopi sono destinati? Qui cominciano le dottrine e la varietà di opinioni. Mentre alcune nazioni si affidano interamente nelle mani dei loro grandi uomini, altre al contrario ne diffidano come se fossero il maggiore dei pericoli. Da una parte, ci si prende gusto a perseguitarli e a renderli miserabili; da un’altra parte, vengono esaltati e glorificati. Atene fa di Socrate un martire; Roma fa di Augusto un Dio da adorare. Dunque, chi ha ragione e dove sta la verità? Gli uomini di genio sono necessariamente e sempre una minaccia per noi mediocri individualità? Oppure, al contrario, è da loro e solo da loro che bisogna aspettarsi la salvezza? In una parola, qual è il loro ruolo nelle società moderne? Ecco, Signori, la domanda fondamentale che vorrei tentare di sollevare di fronte a voi.

 

Se dovessimo credere a uno dei più illustri scrittori del nostro secolo, Ernest Renan, i grandi uomini sarebbero il fine stesso dell’umanità. Produrre grandi uomini: ecco, ci dice, lo scopo verso il quale tende l’intera natura. Quanto alla felicità delle masse, se ne disinteressa. Possiamo ammettere, in effetti, che quest’immenso universo non abbia altra ragion d’essere se non quella di fornire alla moltitudine oscura degli individui mezzi comodi per gioire tranquillamente del loro piccolo destino? Possiamo ammettere che la terra sia unicamente fatta per nutrire e il sole per riscaldare alcuni milioni di esseri senza valore e senza nome? In verità questo sarebbe un ben misero risultato per sforzi così prodigiosi. Ma la natura è lungi dall’aver tanto maldestramente sciupato le sue forze. Tutto al contrario, essa attesta ad ogni istante e con aspetti clamorosi il suo profondo disprezzo degli individui. Li ha fatti tutti mortali, ma cosa le importa! Purché non muoia la specie. Così, dopo che ci siamo sfiniti a servire i suoi fini misteriosi, quando ci vede senza forze e ci giudica inutili, ci sopprime; e successivamente ne fa venire altri per continuare la nostra opera e per gioire del nostro lavoro. Ah! Senza dubbio può sembrarci crudele che coloro che hanno seminato non raccolgano! Ma cosa le importa! Purché il lavoro continui, purché il progresso duri sempre. 

 

Ecco, in effetti, la sola cosa di cui si preoccupa. Ecco il solo scopo che persegue e verso il quale ci spinge, qualsiasi cosa facciamo. Ciò che vuole, è che il progresso si faccia, che l’ideale si realizzi. Ora, quale può essere questo ideale, se non l’avvento della ragione e il regno della verità? Come, dunque, la ragione arriverà a regnare su questa terra? Bisognerà che conquisti una a una tutte le intelligenze individuali? Ma un tale compito sarebbe impossibile. Ci sono troppi spiriti invincibilmente refrattari alla scienza; ci sono troppe poche anime tanto alte da poter elevarsi fino alla verità. Questa potrà rivelarsi pertanto solo a un piccolo numero di intelligenze privilegiate; la ragione si incarnerà solo in alcuni uomini superiori che realizzeranno l’ideale e che saranno, a questo titolo, come lo scopo ultimo dell’evoluzione umana. 

Ma, senza dubbio, questi uomini superiori, una volta formati, ritorneranno verso quella moltitudine da cui provengono per elevarla fino a loro, per farla partecipare al tesoro che possiedono, per insegnarle la vita conforme alla ragione? A che pro? Risponde il nostro autore. A che servirebbe quest’immenso apostolato? Sarebbe una perdita di forze inutile. Infatti, l’importante è che la verità sia conosciuta e non che sia conosciuta da tutti gli uomini. Perché la cultura alta dovrebbe essere accessibile a tutti? È sufficiente che si stabilisca e che regni. La scienza è sdegnosa e non ha bisogno di avere un gran numero di seguaci. A che pro rimpicciolire l’ideale per metterlo al servizio dei piccoli spiriti? Così, l’umanità sarebbe divisa in due grandi classi tra le quali ci sarebbe un abisso.

 

Assolutamente in alto si troverebbe questa élite che il capriccio della natura avrebbe avvantaggiato. Assolutamente in basso, la moltitudine vegeterebbe nell’incoscienza. I primi penserebbero per i secondi. Sarebbero come la coscienza dell’umanità tutt’intera. Quanto agli altri si accontenterebbero di ammirare, di adorare questi esseri straordinari, di servirli, felici d’altronde di servirli e di sacrificarsi. Inoltre, ci dice il nostro autore, i più non sarebbero da compatire. Infatti, avrebbero almeno i piaceri della famiglia, le gioie riservate alle anime semplici, le dolci illusioni degli ignoranti. Compatiamo piuttosto coloro che sarebbero obbligati a vedere la verità in faccia! Giacché, forse, è proprio vero che la verità è triste. 

Lo vedete, Signori, perché il progresso sia possibile, se seguiamo il nostro filosofo, bisognerebbe che la natura, spingendo fino agli ultimi limiti la divisione del lavoro e separando ciò che ameremmo credere indissolubilmente unito, mettesse da un lato tutta la felicità e dall’altro tutta l’intelligenza. Bisognerebbe che gli uni rinunciassero a gioire e gli altri a pensare. Che quadro scuro, Signori, che sogno desolante! Ma è davvero questa la verità? È proprio questo l’avvenire che ci aspetta e al quale bisogna rassegnarsi senza speranza? Credo, Signori, che abbiamo buone ragioni per non credervi e spero di farvi vedere ora che abbiamo il diritto di aspettarci un destino meno lugubre.

E, in effetti, perché la natura tenderebbe ad avere così poco conto degli individui? Si trova che questo si addice meglio alla sua maestà? Non c’è, al contrario, una sorta di meschineria odiosa a sacrificare così brutalmente tutti per alcuni, per economia? Senza dubbio comprendo tutto ciò che c’è di bello in questi uomini eccezionali che riassumono in loro tutta la vita di un secolo o di un popolo. Ammiriamoli e siamone fieri, poiché esprimono e realizzano la nostra umanità nella perfezione. Ma perché sarebbe indegno della natura occuparsi anche dei piccoli e dei mediocri, per renderli sempre più capaci di comprenderla e di amarla? In cosa questa saggezza e la sua potenza sarebbero meno grandi, se, non appagata di concentrarsi di quando in quando sotto la forma di uno di questi esseri eminenti, s’irradiasse di continuo in tutte direzioni, illuminando, vivificando, spiritualizzando sempre più la massa degli individui?

 

Si dice che la verità non ama le folle. Ma perché attribuirle questi disprezzi aristocratici? Per quanto mi riguarda, ritengo che la verità abbia una sola ragion d’essere e una sola maniera d’essere: l’essere conosciuta. Più essa sarà conosciuta e più essa sarà. Quindi, significherebbe sminuirla, volere per essa solo il culto ristretto di pochi iniziati. Come il sole che ci apparirebbe meno magnifico se illuminasse solo una piccola porzione del globo. Se ha spesso ispirato ai poeti inni entusiastici di riconoscenza, se certi popoli ne hanno fatto un Dio, è perché invia generosamente il suo calore e la sua luce in tutte le direzioni, senza disprezzare niente e nessuno. 

 

Si obietta, è vero, che la maggior parte delle intelligenze non sono, né saranno mai capaci di ricevere la verità. Ah! Signori, non disperiamo così velocemente dello spirito umano! Quando si vede nella storia il seguito innumerevole di idee che ha già attraversato, rigettando volta per volta tutte quelle la cui falsità gli veniva dimostrata e incamminandosi così, senza dubbio laboriosamente, ma con coerenza e perseveranza, verso la verità, dico che non si ha il diritto di scoraggiarsi. Certo, ogni apostolato ha le sue delusioni e amarezze. Indubbiamente quando si finisce per scontrarsi con resistenze invincibili, quando ci si sente provvisoriamente impotenti, si deve passare per momenti duri di abbattimento e di disgusto. Ma se si ha passione per la verità, se si ha per altri meno disprezzo e più amore, non si farà tardi a riprendersi, perché allora si sa trovare in sé quel calore che riesce a rendere molli i cuori più resistenti.

Così, il mondo non è fatto unicamente in vista dei grandi uomini. Il resto dell’umanità non è semplicemente il terriccio sul quale crescono questi fiori rari e delicati. Tutti gli individui, per quanto siano umili, hanno il diritto di aspirare alla vita superiore dello spirito. È possibile che questa vita sia meno tranquilla e meno dolce dell’esistenza comune. È possibile che la verità sia triste. Cosa importa? Anche a questo prezzo, tutti hanno il diritto di volerla. Tutti hanno il diritto di pretendere a questa nobile tristezza che d’altronde non è senza fascino, giacché una volta che la si sia gustata, non si desiderano nemmeno più altri piaceri che si scoprono ormai senza sapore e senza attrattiva. 

 

Ma, Signori, se i grandi uomini non sono il tutto dell’umanità, bisogna concluderne che sono inutili? Bisogna riconoscere al genio solo una sorta di valore e di interesse estetici? Bisogna, come si fa spesso, ridurlo solo a un ornamento, a un addobbo di lusso di cui le società sagge farebbero bene a meno?

Qui non siamo più in presenza di un vero sistema illustrato da un grande nome. Ma abbiamo a che fare con tutta quella specie di idee e di sentimenti, che non sono formulate in teorie, che si confessano appena a se stessi, ma che si accarezzano sottovoce in fondo alle coscienze. Tutto per il genio e attraverso il genio, ci si diceva qualche tempo fa. Ed ecco ciò che ci viene detto ora: bisogna sacrificare tutto per la felicità degli individui. Infatti, ciò che fa una nazione, non è uno o due grandi uomini che il caso fa nascere qui e là e che possono venir meno tutto a un tratto: è la massa compatta dei cittadini. È dunque solo di loro che bisogna occuparsi: è il loro solo interesse che bisogna consultare. Ora, cosa importa che dal loro gruppo si elevi di quando in quando un uomo superiore? Non è per loro che il poeta scrive, che l’artista lavora, che il filosofo pensa, ma per una piccola aristocrazia gelosa e chiusa. Che interesse hanno dunque al fatto che, molto lontano al di sopra delle loro teste, si formi una società in cui si vive una vita a parte, si gustano piaceri e anche sofferenze che sono a loro negati? Cosa possono trarre da un progresso che non deve compiersi tramite loro o per loro? Tutto ciò che li supera è superfluo. La sola cosa che interessa loro è questa cultura media dello spirito che sono in grado di ricevere: questa solo deve regnare. Bisogna che l’ideale sia fatto su misura per loro e sia alla loro portata. 

 

Ancora, se si potessero avere allo stesso tempo uomini di genio e masse illuminate! Ma, si dice, uno dei due scopi esclude l’altro. Ogni genio in effetti è una sorta di mostro che non si può formare senza turbare profondamente l’ordine naturale delle cose. Niente nasce dal niente. L’intelligenza che gli uni hanno in più, gli altri l’hanno necessariamente in meno. Per formare un uomo di genio, bisogna “drenare, distillare, condensare” milioni di piccole intelligenze. Una nazione vuole arricchirsi di grandi uomini? Su un medesimo punto del territorio, essa riunisce e concentra tutte le sue forze vive. Allora, sul terreno così preparato, non tardano a fiorire intelligenze divine. Ma la vita che si è così accumulata su un punto unico e che alcuni individui hanno assorbito, è stata ritirata dal resto della nazione. È il motivo per il quale il corpo della società langue e presto muore d’inanizione. Ecco con quale premio si paga la gloria di avere grandi uomini! 

 

A tutte queste ragioni si aggiunge ancora che far nascere uomini di genio, significa creare nella nazione pericolose ineguaglianze; significa addestrare dei padroni. Come si potrebbe sottomettere alla legge comune questi esseri che superano infinitamente il livello comune? Davanti a loro tutto il resto dei cittadini sarebbe come se non ci fosse. È meglio dunque che tutti marcino con lo stesso passo. Che i più veloci attendano i più lenti. Senza dubbio, occorre che la verità arrivi a conquistare il mondo; ma che essa cominci le sue conquiste dal basso e non dall’alto, che essa si sveli poco a poco alle moltitudini, invece di rivelarsi tutt’intera e tutta d’un colpo solo ad alcuni privilegiati. 

Ecco, Signori, ciò che noi intendiamo spesso dire nelle conversazioni della gente. Ebbene, non esito a dichiarare che questa teoria, altrettanto falsa della precedente, mi sembra forse più pericolosa. Sicuramente, è contro natura sacrificare sistematicamente la moltitudine al genio. Ma, d’altra parte, una società in cui il genio fosse sacrificato alla moltitudine e a non so quale amore cieco per una sterile eguaglianza, si condannerebbe essa stessa a una immobilità che non differisce molto dalla morte. Perché dovrebbe cercare le avventure? Tutti gli individui che compongono la società si assomigliano: non avrebbero dunque nemmeno l’idea di cambiare. Non conoscendo altri esseri a parte loro, né di una condizione diversa dalla loro, percepirebbero di aver raggiunto il loro scopo e di non avere altro da fare che adagiarsi in seno alla loro mediocrità soddisfatta. Ma, supponete che un grande uomo faccia la sua comparsa. Subito si rompe l’equilibrio. L’umanità si accorge che non è arrivata al termine della sua carriera. Ecco una forma superiore di esistenza che non conosceva prima di allora e che adesso s’impegnerà a realizzare. Ecco un nuovo scopo offerto ai suoi sforzi.

 

Allora mille sentimenti, che sonnecchiavano, tutto di un colpo si risvegliano; una sorta di inquietudine invade i cuori; e questa massa, un istante prima immobile, inizia a sussultare e avanza. Non temiate che la moltitudine non si ricongiunga mai definitivamente ai grandi uomini che la precedono e che la guidano. Infatti, quando i primi saranno raggiunti, altri appariranno più lontano sulla rotta del progresso, e dopo quelli altri ancora, trascinando sempre al loro seguito l’umanità verso lo scopo ideale che essa non raggiungerà mai. 

È vero d’altronde che un grande uomo assorbe, senza ritorno possibile, ciò che c’è di meglio nella nazione? Ah! Senza dubbio sarebbe così, se l’uomo di genio, una volta formato, si trincerasse lui stesso in una orgogliosa solitudine rispetto alla società. Ma sfortunatamente, per quanto si sia grandi e alteri, nondimeno si è uomini e non si può fare a meno dei propri simili. Si ha bisogno della simpatia, del rispetto, dell’ammirazione degli stessi di cui si disprezza l’inferiorità. Si ha un bel dare poca importanza alla popolarità, ma non è un bene sentirsi soli. All’artista piace sentirsi applaudito, al poeta sapersi ammirato; il pensatore soprattutto tiene a riunire intorno a sé più intelligenze possibili. Per questo bisogna certamente che rinunci all’isolamento. Bisogna che torni verso la moltitudine rimasta dietro di lui; bisogna che le tenda la mano per esserne seguito, che la istruisca per farsene comprendere. Così le rende, e centuplicato, tutto ciò che essa ha potuto attribuirgli. 

 

Signori! Non è così che le cose sono andate in Francia? Per lungo tempo i nostri re hanno lavorato a far nascere intorno a loro grandi uomini per farne una specie di corteo. Non era per educare e formare lo spirito del popolo, ma per dare un prestigio in più alla monarchia. E cosa è accaduto allora? È accaduto che in tutta Europa, e lo si può dire senza vanto nazionale, non c’è forse Paese nel quale il livello di intelligenza media sia più elevato di quello della Francia. Tutta la gloria spetta ai nostri grandi uomini che hanno servito scopi che i loro re protettori non prevedevano. I bei marchesi di Versailles credevano che Racine scrivesse solamente per loro e Molière pensasse solamente per loro: ma è la Francia tutta intera che ne ha tratto beneficio. 

 

Così, i grandi uomini non sono una specie di tiranni che, vivendo al posto nostro, vivono a nostre spese. Lungi dal diventare grandi al prezzo della nostra umiliazione, la loro elevazione fa la nostra. Senza dubbio, c’è sempre tra loro e noi una grande distanza, ma abbiamo i mezzi per diminuirla ed essi sono interessati ad assecondare i nostri sforzi. Possiamo quindi uscire da queste teorie esclusive che abbiamo appena esposto e confutato. No, la natura non esige che i grandi uomini siano egoisti. Ma d’altra parte l’umanità non è fatta per gustare a vita i piaceri facili e volgari. È necessario quindi che un’élite si costituisca per farle disprezzare questa vita inferiore, per strapparla a questo riposo mortale, per sollecitarla a procedere in avanti. Ecco, Signori, a cosa servono i grandi uomini. Non sono unicamente destinati a essere il coronamento, al contempo, grandioso e sterile dell’universo. Se hanno il privilegio d’incarnare quaggiù l’ideale, è per farlo vedere agli occhi di tutti sotto una forma sensibile, è per farlo comprendere e amare. Se, quindi, tra loro ci sono coloro che disdegnano abbassare il loro sguardo sul resto dei loro simili, occupati esclusivamente a contemplare la loro grandezza, a gioire nell’isolamento della loro superiorità, condanniamoli senza appello. Ma, per gli altri, e sono in gran numero, per quelli che si danno interamente alla moltitudine, per quelli la cui unica preoccupazione è di condividere con essa la propria intelligenza e il proprio cuore, per questi, a prescindere dal secolo in cui abbiano vissuto, o che siano stati un tempo servitori del grande re, o che siano oggi cittadini della nostra libera Repubblica, o che si chiamino Bossuet o Pasteur, per questi, vi prego, abbiamo solo parole d’ammirazione e d’amore. Salutiamo in loro rispettosamente i benefattori dell’umanità. 

 

Cari studenti, forse in questo momento mi rimprovererete sottovoce di essermi dimenticato, oggi, troppo di voi. Per nulla. Mentre parlavo, è a voi che pensavo, soprattutto a voi, con cui ho appena trascorso l’intero anno e che ci state per lasciare per cimentarvi con la vita. Se guardate bene, vedrete che questo discorso, rivolto a voi, conteneva un ultimo insegnamento e come una lezione in extremis. Tutto ciò che ho detto, in effetti, potrebbe riassumersi così: “Miei cari amici, sarò certamente felice se porterete con voi da questo liceo due sentimenti, contraddittori in apparenza, ma che gli animi forti sanno conciliare. Da una parte, abbiate un sentimento molto vivo della vostra dignità. Per quanto grande sia un uomo, non abdicate mai alla vostra libertà mettendovi nelle sue mani e in una maniera irrimediabile. Non ne avete il diritto. Ma in questo modo, non crediate di diventare molto più grandi non permettendo mai a nessuno di elevarsi al di sopra di voi. Non riponete la vostra gloria nel rendervi sufficienti a voi stessi, nel non dovere nulla a nessuno; allora, infatti, in osservanza di un falso amor proprio, vi condannerete alla sterilità. Tutte le volte che sentirete che un uomo vi è superiore, non abbiate vergogna di testimoniargli una giusta deferenza. Senza falsa onta, fatene la vostra guida. C’è una certa maniera di lasciarsi guidare che nulla toglie all’indipendenza. In una parola, sappiate rispettare ogni superiorità naturale, senza mai perdere il rispetto di voi stessi. Ecco ciò che devono essere i futuri cittadini della nostra democrazia”.

 

Sens, 6 Agosto 1883

Traduzione di Francesco Bellusci.

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