Il ’68 di Sergio Benvenuto / Imperfetto passato

26 Giugno 2018

C’è una crudele ironia nella coincidenza tra il mezzo secolo dal Sessantotto e un’attualità che si colloca al nadir della tensione alla palingenesi personale e collettiva, della radicale espansione della sfera delle libertà e delle possibilità che dell’annus mirabilis fissarono la costellazione simbolica e politica. Risentimento, insicurezza, paura: sono questi all’opposto i segni della nostra attualità, con le sue forme intrattabili di diseguaglianza ed esclusione, i conflitti interminabili, il vuoto di alternative, di fronte ai quali le soluzioni bugiarde dei populismi, con la loro subdola e in apparenza irresistibile manipolazione del discorso pubblico, si presentano come paradossale risposta alla crisi dell’ordine neoliberista e al suo mantra There is no alternative.

 

Il presente insomma sembra davvero offrire davvero poche giustificazioni a una commemorazione irrimediabilmente sfasata rispetto alle urgenze che la incalzano. Proprio per questo, anziché giudicare con la fosca e disillusa misura dell’attualità le idee di un anno che si è venuto sempre più trasformando, mano a mano che i decenni si accumulavano, in un evento sbiadito o in un’eredità imbarazzante, potremmo chiedere invece al Sessantotto, liberato dalla zavorra del senno-di-poi, di auscultare il nostro presente, di sondarne le concrezioni avvelenate, di parlarci nella sua lingua. Come guarderebbero i giovani in rivolta del “maggio” un mondo che ha realizzato alcune delle loro aspirazioni più visionarie e rovesciato in una contraddittoria distopia quasi tutte le altre?

 

Potrebbero magari aiutarci a rendere meno patetico il residuo attaccamento al mito di un Sessantotto ideale eterno, ad esempio, o ad attutire il senso di colpa per il suo fallimento. Oppure a dare ragione a chi, come Tony Judt nel suo ultimo, accorato libro (Ill Fares the Land, Penguin 2010; in italiano, Guasto è il mondo, Laterza 2011), rivendicava lo spazio comune come luogo di una politica orientata alla coesione della comunità, anziché un insieme di singole giuste cause, totalizzanti e astratte, con cui la sinistra occidentale ha mimetizzato la sua sostanziale adesione  al sistema neoliberista. O finalmente smentire il sospetto che dietro gli slogan radicali, lo slancio liberatorio, la retorica della rivolta, si celassero in realtà – come sostennero Luc Ferry e Alain Renaut nel loro saggio del 1985 Il Sessantotto pensiero (Rizzoli 1987; in originale, La pensée 68: essai sur l'anti-humanisme contemporain, Gallimard 1985), e dicono oggi i loro tardi, inconfessati epigoni – i valori dell’individualismo edonista, una infantile richiesta di godimento in cui incubavano le strutture ludiche e inesorabilmente efficienti del tardocapitalismo.

 

Parigi, maggio 1968

 

Ho il sospetto tuttavia che non ci direbbero nulla di tutto questo. Immobilizzati nell’istantanea di quel momento irripetibile, ci ricorderebbero invece qualcosa di diverso, qualcosa che Sergio Benvenuto, nel suo recente libro Godere senza limiti. Un italiano nel maggio 68 a Parigi (Mimesis, pp. 192, € 18), considera l’esigenza originaria della sua generazione: la richiesta travolgente di una totale autenticità, di una verità irriducibile alla norma sociale, alle sue gerarchie, indifferente persino alla sua concreta attuabilità politica. Una forma di parrhesia, per usare il termine greco richiamato da Benvenuto, cioè una tentazione di dire sempre tutta la verità e anzi troppa verità, un atteggiamento che all’autore disincantato di oggi appare ingenuo e parziale, ma che mi sembra invece definire bene, dietro il vezzo ironico, la sua stessa posizione: Benvenuto, psicoanalista di fama, saggista e acuto osservatore della società contemporanea, non sarebbe mai diventato se stesso senza aver condiviso, vissuto, quell’esigenza. Da cui deriva anche il “tono” generale del libro, situato in un punto equidistante tra il romanzo di formazione – o l’autobiografia intellettuale – e il saggio, all’intersezione tra desiderio di raccontare e necessità di distacco, di ricomposizione tra passione e ragione. Un tono che permette all’autore di intersecare abilmente eventi intimi e collettivi, sincronia e tempo retrospettivo, sguardo “locale” e d’insieme, sino a comporre un racconto una delle cui finalità non dichiarate è comporre un bilancio obiettivo dell’eredità del Sessantotto stesso. 

 

Alla parrhesia in quanto discorso veritiero Michel Foucault avrebbe dedicato nel 1983 una serie di lezioni in inglese, raccolte nel libro Fearless Speech (Semiotext(e), 2001; in italiano, Discorso e verità nella Grecia antica, Donzelli, 2005). La parrhesia, scrive Foucault, è un’attività in cui chi parla “ha uno specifico rapporto con la verità attraverso la franchezza, una certa relazione con la propria vita attraverso il pericolo, un certo tipo di relazione con se stesso e con gli altri attraverso la critica (autocritica o critica di altre persone), e uno specifico rapporto con la legge morale attraverso la libertà e il dovere. Più precisamente, la parrhesia è un’attività verbale in cui un parlante esprime la propria relazione personale con la verità, e rischia la propria vita perché riconosce che dire la verità è un dovere per aiutare altre persone (o se stesso) a vivere meglio”. Franchezza, critica, pericolo, dovere, verità. È questa intima fusione della sfera individuale e di quella politica, in cui parola e azione si fondono e sovrappongono e accettano il rischio implicito in tutto questo, ciò cui Benvenuto attribuisce anzitutto la forza dirompente del Sessantotto, la capacità cioè di turbare l’ordine in ogni sua piega: del discorso, del desiderio, della gerarchia sociale.

 

Si possono mettere direttamente a confronto le pagine che Benvenuto dedica ai fatti del maggio parigino, vissuti in prima persona, sia pure da una posizione defilata, e le osservazione contenute in uno dei testi più lucidi e tempestivi su quegli stessi eventi, il libro di Edgar Morin, Claude Lefort e Jean-Marc Coudray (alias Cornélius Castoriadis), Mai 1968: La Brèche. Premières réflexions sur les événements, pubblicato nell’estate del ’68. Se per il diciannovenne italiano quello del Quartier Latin è anzitutto la scena di una duplice rivelazione – quella di un’utopia realizzata e di un coming-of-age personale – per i tre autori francesi, il maggio è in primo luogo una rivolta svoltasi essenzialmente sul piano simbolico, a causa del rifiuto decisivo dell’azione organizzata e quindi dell’impossibilità di trasformarsi, al di là di proclami e dimostrazioni, in una autentica rivoluzione, in una prise de pouvoir. Ma di fronte a questo apparente scacco, Castoriadis, Lefort e Morin, con accenti diversi, sottolineano nel libro da un lato la crisi del classico modello marxista della rivoluzione come prodotto inevitabile della crisi del capitalismo e dell’ascesa del proletariato industriale, inservibile nell’epoca postfordista e consumista e del “benessere” di massa, e dall’altro la novità e il potenziale di creatività sociale del movimento studentesco, la cui forza di desacralizzazione dell’autorità apriva orizzonti non più racchiusi nel ciclo fatale rivoluzione-controrivoluzione che dal 1789 aveva caratterizzato la storia europea. Il maggio ’68 appare nella loro lettura una rivendicazione di autonomia di fronte a meccanismi oppressivi e alienanti diffusi in tutti i settori sociali, una “vibrazione” che aggirando le burocrazie della sinistra ufficiale – il Partito comunista e i sindacati – e la stessa intellighenzia, fa emergere un soggetto nuovo, una classe giovanile che si ribella al paternalismo tradizionale e alle nuove forme tecnocratiche del potere. Come scrive Morin, il carattere antico e nuovo del maggio ’68 “trova la sua radice nella rivolta arcaica – cioè primordiale fondamentale – che apre una breccia profonda nella diga che reprime e smorza le energie umane per trasformarle in lavoro e obbedienza”. Il Sessantotto è stato in grado di mettere in moto una forma di rivoluzione interamente culturale, che andava al di là cioè della politica intesa nel senso tradizionale del termine, perseguendo una trasformazione radicale e dagli effetti duraturi della sessualità, dell’educazione, della cultura e della vita quotidiana.

 

Nel libro, ripubblicato in Francia con nuovi saggi nel 1988, le posizioni dei tre autori appaiono strettamente connesse al loro retroterra filosofico e politico, che nel caso di Castoriadis e Lefort è quello di una rivista famosa, “Socialisme ou Barbarie”, di cui erano stati fondatori e animatori dal 1949, che pur avendo cessato le pubblicazioni nel ’67 esercitò grande influenza sulle idee del maggio francese. Le loro posizioni antidogmatiche – centrate sulla critica alla burocrazia e all’immobilismo dei paesi del “socialismo reale”, alle forme tradizionali di organizzazione politica di stampo leninista, alla “razionalità” produttiva borghese, e rivolto invece a una umanizzazione dei rapporti di lavoro e sociali in generale, all’autonomia e all’autodeterminazione – furono infatti, ancorché sotterranee, tra le principali fonti di ispirazione del movimento studentesco. Tanto più in questo senso appare poco comprensibile la decisione di riproporre ora in italiano, pur conservando il titolo dell’edizione originale (Maggio ’68. La breccia, a cura di Francesco Bellusci, Raffaello Cortina Editore, pp. 128, €11), i contributi del solo Morin, tralasciando quelli Castoriadis e Lefort, sia quelli originali (già tradotti in italiano nello stesso 1968 col titolo La Comune di Parigi del maggio ’68 da Il Saggiatore), che quelli aggiunti nella riedizione del 1988. Una scelta che sottrae al libro il suo valore di documento storico e la sua potenza di testimonianza di un sodalizio intellettuale tra i più interessanti della scena culturale e politica di quel decennio.

 

Daniel Cohn-Bendit parla agli studenti di fronte alla Sorbonne, Parigi, maggio 1968

 

Ma per tornare alla nostra mossa iniziale, cos’altro potrebbero dire di noi i giovani del Sessantotto? Rimarrebbero stupiti probabilmente dal bisogno, dalla retorica, dal culto, nell’epoca attuale, del principio di realtà, una realtà ristretta, del tutto identificata nella forma di vita capitalista e che proprio per questo si proclama naturale, originaria, indiscutibile, nelle sue manifestazioni concrete, nei suoi simboli, nella sua temporalità: nessuno spazio fuori, nessun attrito, nessuna mancanza, e nessuna eccedenza anche. Ma realizzerebbero anche che ciò li riguarda. Per la loro generazione – ed è questo l’altro asse concettuale del libro di Benvenuto – è stato infatti determinante il riconoscimento di una preminenza del significante, un concetto che dalle sue origini nella linguistica si è poi ramificato nella teoria estetica, letteraria e psicoanalitica, in particolare nell’insegnamento di Lacan. Il significante è per Benvenuto il concetto-chiave per comprendere l’apparente contraddizione di una rivolta dei giovani nei paesi Occidentali che toccavano allora l’apice della straordinaria crescita economica seguita al 1945. Rivoluzione, avanguardia, guerriglia, ecc.: i significanti agiscono nel Sessantotto come catalizzatori di una trasformazione che è insieme soggettiva e culturale. Ne sono tutti esempi la materialità, l’evidenza primaria del corpo e della materia nelle esperienze artistiche della seconda metà dei Sessanta, il corpo e la voce degli attori nel teatro sperimentale, da Brook e Grotowsky alla scena italiana, la decostruzione dell’autorità della critica e della filosofia in Derrida. Ma ne sono spie anche il riuso dell’iconografia e della retorica rivoluzionaria del movimento comunista mondiale, da Cuba alla Cina al Vietnam, private della loro effettualità, e trasformate in token identitari.  

 

Quella della prevalenza del significante è un’idea che affonda le sue radici nell’avanguardia modernista della prima metà del XX secolo, nella quale la destrutturazione dei linguaggi artistici – tramite il montaggio, l’astrazione, l’attivazione dell’inconscio, le componenti “primitive”, informi, infantili – era un passo indispensabile per una integrale ristrutturazione della sensibilità e al tempo stesso per aprire una nuova fase della civiltà umana. Ma il “ritorno” dell’avanguardia – e questa consapevolezza emerge lungo tutto il libro di Benvenuto – non può che essere commisurato alla nuova dimensione sociale ed economica del capitalismo tardo, all’emersione di un nuovo soggetto, i “giovani” di cui parlava Morin nello stesso 1968, in definitiva alle condizioni generali di una cultura totalmente secolarizzata nel momento cruciale della transizione da un’epoca dell’autorità e del limite a una della permissività e del godimento interminabile. Quella annunciata dal movimento studentesco, nel Sessantotto e per buona parte del decennio seguente, è dunque una “avanguardia di massa”, in cui gli effetti estetici della scomposizione e ricomposizione dei linguaggi, l’accento sulla letteralità dell’esperienza, hanno un valore affatto diverso a seconda che li si consideri sul piano degli ideali o dei comportamenti condivisi, con l’affermazione di un principio dionisiaco che se ha alle spalle gli insegnamenti di Nietzsche, Artaud e Bataille, come nota a ragione Benvenuto, si manifesta in forme affermative, semplificate, di consumo immediato: significanti puri, depurati da ogni complicazione interna. L’estetizzazione della vita, la trasgressione, il libertinismo, l’anticonformismo – tutte vecchie armi dell’avanguardia nella sua guerra alla morale e all’arte borghese –, invertono il proprio valore, diventano strumenti di evasione e deresponsabilizzazione laddove erano stati mezzi per conquistare una più piena e profonda umanità.

 

Henri Cartier-Bresson, Senza titolo, Parigi, maggio 1968

 

È in questo senso davvero il Sessantotto il momento in cui inizia a profilarsi in modo pienamente visibile quel fenomeno di secolarizzazione estrema che  Guido Mazzoni chiama ne I destini generali (Laterza, 2015) “la fine del paradigma apocalittico”, ovvero la fine dell’opposizione tra cultura alta e bassa, tra autenticità e alienazione, e quel surrealismo di massa di cui Daniele Balicco, nel suo recente volume di saggi Nietzsche a Wall Street. Letteratura, teoria e capitalismo (Quodlibet 2018, pp. 176, € 18), rintraccia l’origine nell’analisi proposta da Franco Fortini nel 1977 per definire i contorni della trasformazione della cultura dell’avanguardia più radicale e ambiziosa del Novecento in un serie di tecniche dell’industria culturale. Separati dalla loro prospettiva cosmico-storica dalla forza di appropriazione della cultura di massa e dalla trasformazione del capitalismo nell’era dell’automazione, le forme, le tecniche, i significanti surrealisti, con la loro capacità di trattenere il casuale, il basso, l’informe, il “male”, sono ormai totalmente svuotati e messi a disposizione della pura riproduzione del mondo di cui si erano voluti agenti di metamorfosi.

 

Il “realismo capitalista”, come lo ha chiamato Mark Fisher in un libro del 2009 da poco tradotto in italiano (Capitalist Realism, Zero Books, 2009; Realismo capitalista, Nero Edizioni, 2018, pp. 154, € 13), pratica in effetti una distanza ironica da quelle che sono ormai considerate illusioni ideologiche del passato, trasformando ciascuno in un consumatore-spettatore, in un “ultimo uomo” nietzschiano che ha visto e provato tutto, una creatura apatica senza passioni né impegni, incapace di sognare, e che cerca solo comodità, sicurezza e tolleranza reciproca. Niente più “passione per il reale”, insomma. Quella con cui oggi abbiamo a che fare, scrive ancora Fisher, non è tanto l’appropriazione di materiali che prima sembravano godere di un potenziale sovversivo, quanto la loro preincorporazione. Ovvero la programmazione e modellazione preventiva di desideri, aspirazioni, speranze, e la destituzione anticipata di ogni gesto di ribellione o contestazione che si vorrebbe nuovo, alternativo o indipendente ma che si presenta già, costitutivamente, come mero stile del mainstream.

 

C’è molto altro nel libro di Sergio Benvenuto sul Sessantotto: il racconto della giovinezza a Napoli, l’esperienza parigina e l’incontro con i grandi intellettuali dell’epoca, la vita quotidiana, il sesso, le letture, le amicizie, le droghe, i film, la politica. Ritratti e aneddoti sono resi in forma penetrante, emblematica, sono simpatetici senza essere complici. In effetti però il tratto che mi colpisce più in Godere senza limiti non è tanto la capacità, pure notevole, di rievocare esperienze o di proporne giudizi originali e molto spesso anticonvenzionali, ma quella che potrei chiamare una assoluta indiscrezione, una capacità di esporsi e di esporre allo stesso tempo il lato pubblico e quello privato, la motivazione interna, sincronica all’evento narrato, e quella retrospettiva, più obiettiva ma non necessariamente più rassicurante o tollerabile. Mettere a nudo le motivazioni reali dei comportamenti, superando, senza compiacimento, la soglia del pudore e della vergogna – capacità cui non è estranea evidentemente la pratica psicoanalitica dell’autore –, è in effetti il modo specifico con cui la narrazione di Benvenuto riesce a trasformarsi da anamnesi personale in interpretazione, dando alla dimensione memorialistica un’essenziale risonanza contemporanea.

 

Benvenuto, e noi con lui, sa che la speranza del movimento del Sessantotto di poter arrestare l’evoluzione della società capitalista verso la distopia adorniana di un “mondo amministrato” – in cui ogni differenza, ogni alternativa politica è annullata, i media saturano il mondo e ne ridefiniscono l’esperienza come spettacolo – va definitivamente archiviata come un’illusione. Ma sa anche – lo ha ricordato Edgar Morin in una recente intervista sulla rivista “Socio” (con cui la prefazione al volume italiano ha in comune alcune parti) – che se non ha trasformato il mondo, il Sessantotto è stato un momento simbolico di crisi di civiltà, in cui sono apparse aspirazioni profonde, antropologiche (più autonomia, più comunità, più fraternità), capaci di spalancare, di colpo, la sfera del possibile. È questa, allora come oggi, di fronte alle convulsioni della forma di vita neoliberista, all’orizzonte soffocante della menzogna reazionaria, la sua parte vivente, la sua parrhesia.

 

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