“Pan” Scipione, fauno e bambino

14 Aprile 2024

«Non c’è ombra attorno al mio corpo. | Io vedo i monti, io sento il fiume». Non è possibile, leggendo questi versi di Scipione, non pensare a una delle figure centrali dell’infanzia – non mia, che l’ho scoperta da adulto, ma dell’infanzia letteraria e fisica del mondo – quale è Peter Pan, uno dei protagonisti più difficilmente inquadrabili della letteratura mondiale del Novecento. Peter Pan apre letteralmente il secolo del doppio, il secolo dei molti quando compare per la prima volta nel 1902 in un libro piuttosto inclassificabile, L’uccellino bianco di James Matthew Barrie. Pensiamo tutti di conoscerlo quel carattere – come dirlo altrimenti: bambino? ragazzo? fantasma? – per via della lettura animata e popolare che ne ha fatto Walt Disney, il quale, pur trasponendolo su un piano più accessibile non ne ha completamente ignorato i tratti intraducibili, peraltro ripresi anche in una nuova versione cinematografica. Chi è Peter Pan? Chi è Scipione? Entrambi sono noms de plume, celano il loro “vero” nome, e entrambi escono dal bianco. A osservare la predominanza di questo colore nei versi di Scipione è Alvaro Valentini nella postfazione a un volume che riporta nelle librerie Carte segrete (Bizzarro Books, 2023, a cura di Marco Bisanti), l’unico libro di cui fu autore Gino Bonichi: vi confluiscono appena dieci componimenti in versi assieme a lettere ad amici e a pagine di diario dal sapore indecifrabile (vedi il 28 marzo in cui leggiamo: «15 sedici diciassette diciotto diciannove venti ventuno ventidue […]. 16 17 18 19 20», una ineffabile serie numerica in cifre e lettere, e nulla più). Secondo Valentini in Scipione «la metafora ossessiva del bianco [è] il campo della poesia (in opposizione alla pittura con i suoi “corrotti” colori)».

Potrei aggiungere che, finalmente, la mia personale chiave per provare a parlare di questo volume di Scipione giunge solo in un giorno bianco fratello di altri giorni bianchi che cade in un lunedì “in albis”, il lunedì delle vesti bianche, secondo una tradizione cristiana. Ed è anche il bianco di quell’“uccellino” di Barrie che, a pochi giorni dalla nascita, vola fuori dalla finestra della sua cameretta per poi non riuscire mai più a farvi ritorno, anzi scoprire disperatamente di essere stato sostituito da un’altra creatura dalla sua stessa madre. Confermando questa “cristallizzazione” della purezza dell’infanzia di Scipione nel suo poetare, Valentini osserva che «Tutto vive nell’insistente, sottile, tenace dubbio che la condizione edenica non potrà non cessare, perché l’uomo è portato alla colpa da se stesso, per la sua stessa innocenza-natura che è, in fondo, il suo peccato originale».

Anche Gino Bonichi è il ragazzo che “non voleva crescere”, ma più esattamente Scipione è il ragazzo che non poteva crescere, conscio com’era di una morte inevitabile, prossima, tangibile. Dopo essere stato da adolescente un campione di atletica, si ammala di polmonite e infine di tubercolosi; nel 1929 un frate spagnolo gli profetizza «che non avrebbe superato il trentesimo anno». Così accade, perché Bonichi morirà nemmeno trentenne il 9 novembre 1933, lasciando alla vita terrena una serie straordinaria di dipinti che aprono la strada alla cosiddetta scuola romana di pittura, e questo pugno di poesie tra le più alte della letteratura italiana del Novecento. Se nei suoi dipinti aveva gridato versi bestiali nel colore allucinato, nella scrittura abbacinata Bonichi canta e suona. Il 5 marzo 1932 appunta nel suo diario: «Ognuno ha un suo ritmo come tutte le creature del mondo. Bisogna essere quel ritmo, quella creatura e non diventare un’altra cosa». E qui si svela anche la “tuttità” di Scipione, che sente cosa sentono tutte le creature del mondo, ma al contempo sente di essere quella creatura sola e non una cosa, non una pietra, non un albero, non un colore, non un’immagine che pure è stato, che pure ha vissuto.

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Mai finora i versi di Bonichi hanno trovato piena collocazione letteraria nel secolo dominato da ermetismo e sperimentalismo, etichette capaci, più che di com-prendere, di escludere, eludere tutte quelle avventure artistico-poetiche più inafferrabili che hanno battuto altre strade, tra le quali quelle di Scipione, ma anche di Libero de Libero (al quale rivolge lettere ferventi), di Juan Rodolfo Wilcock, di Vittorio Bodini, solo per citarne alcuni. Il critico Valentini una collocazione, in verità, l’ha trovata: l’area «mediterranea». A me pare una regione perfetta, perché – proprio come l’infanzia – è un luogo che esiste da sempre e per sempre ma di cui sempre siamo dimentichi, come di ogni origine. Da lì proveniamo, e lì e soltanto lì potremmo collocare gli “esclusi” di tanta letteratura, occasione per far dialogare ogni artista che avverte che: «L’aria è ferma […] | Il sole entra nel mio petto | come in una canestra». Diverrebbe uno spazio pieno di uomini e donne che hanno scritto in un luogo in cui «nell’aria c’è il fuoco».  

Scipione, si diceva, non ha un’ombra, e questa è precisamente la caratteristica di Peter Pan: ricorderete tutti il momento in cui Wendy tenta di ricucirgliela mentre il ragazzo – originariamente un neonato – confonde un bacio con un ditale. Peter Pan è discendente diretto di Pan, un altro inafferrabile, la divinità ferina che è “tutte” – ecco il molteplice, il doppio – le divinità, che è la natura “tutta”, che ha busto di uomo e corpo di animale, zampe (e corna) di capro. «Mise le mani per terra ed era simile | ad una bestia. La terra ha tutti i nascondigli», scrive Scipione indossando le vesti nude del bambino Peter Pan che fa dei nascondigli le sue tane, che si rifugia in ogni antro («Io sono la voce del fanciullo») e che sa modulare la sua voce come il fauno Pan da cui discende. Nelle Metamorfosi di Ovidio il semi-(o tutti-)dio s’innamora della Naiade Siringa, la quale aveva però fatto voto di castità e fugge in riva al fiume Ladone dove si lascia mutare in un fascio di canne.

Pan non può più vederla, ma afferra il suono che quelle canne emanano col vento e, legandole insieme, ne fa uno strumento musicale – una siringa. Scipione scrive: «Se una femmina cantasse…», un’immagine che il mito aveva sublimato nel dio che solo suonando riesce a possedere tra le dita la femmina che rincorreva e che la letteratura di Barrie aveva trasformato nel piccolissimo Peter Pan che pure suona il suo strumento a canne, la sua femminilità, il bambino che promana la sua “tuttità”. Questa lettura “panica” trova eco nelle illustrazioni (su «full white vellum») di Arthur Rackham della prima edizione di Peter Pan in Kensington gardens del 1906, dove in copertina l’infante cavalca un capro. In uno dei più straordinari studi sulla figura del dio caprino, il Saggio su Pan di James Hillman, lo psicanalista americano nota che «Malgrado tutta la sua naturalità, Pan è un mostro. È una creatura che non esiste nel mondo naturale.

La sua natura è completamente immaginale […]. Paradossalmente le pulsioni più naturali sono non-naturali, e la più istintualmente concreta delle nostre esperienze è immaginale. È come se l’esistenza umana, persino al suo livello vitale di base, fosse una metafora». In quale altro modo definire il percorso umano e artistico – in questa contiguità di pittorico e poetico proprio attraverso il crinale che Hillman chiama “immaginale” – se non, in quanto metafora, vitale, realissimo. «Le stelle cadono accese | per bruciare il mondo, | ma nessuno tende le mani per abbracciarle | e si smorzano, tuffandosi nel buio»: un’immagine in cui tutto si tocca, tutto ghiaccia e arde.

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