Gatti, Pinocchi e stivali 

22 Aprile 2023

Quando nel 1696 esce la versione di “Il gatto con gli stivali” di Charles Perrault, circolavano da tempo storie simili con protagonista un gatto o una gatta con particolari poteri. Già in Le piacevoli notti di Giovanni Francesco Straparola del 1551 e in Lo cunto de li cunti overo lo trattenemiento de peccerille di Giambattsta Basile del 1632 troviamo un racconto con protagonista un pover’uomo che riceve in eredità una gatta capace di arricchirlo. La versione di Charles Perrault, che fissa la vicenda così come la ri-conosciamo ancora oggi, fa parte di un libro che esce anonimo dal titolo Histoires ou contes du temp passé avec des moralitées (Storie o racconti del tempo passato con delle morali); l’anno successivo viene pubblicata una seconda edizione di quella raccolta di fiabe, I racconti di mamma l’Oca, stavolta attribuita a Pierre Perrault Darmancour, il figlio di Charles. Lo scrittore francese, uno dei padri della fiaba e personaggio influente nella vita di corte di Luigi XIV, mostra particolare attenzione a riversare quel carattere dell’oralità anche nella versione scritta dei suoi racconti, confrontandosi costantemente proprio con suo figlio e chiedendo anche a lui consigli sul funzionamento della trama. E chissà se gli stivali, che compaiono per la prima volta con Perrault, non siano un’invenzione del piccolo figlio Pierre.

Nel Pañcatantra, una raccolta di racconti in sanscrito del V secolo d. C., già compare un racconto su un gatto deciso a scalare il palazzo reale. Secondo uno studio recente, una delle rare e più antiche raffigurazioni di un gatto con degli stivali si può ammirare nella cattedrale di Otranto: lo straordinario mosaico al suo interno, opera del monaco Pantaleo nel 1165, raffigura l’albero della vita con riferimento al Vecchio Testamento e a miti contemporanei come la leggenda di Re Artù. Acquattato alla base dell’albero sta un gatto che calza gli stivali solo alle zampe sinistre, anteriore e posteriore: mancano 500 anni al racconto di Perrault. E due secoli dopo la versione francese quegli stivali saranno indossati anche da Pinocchio, secondo la riscrittura di Luigi Malerba che oggi esce in una nuova veste con le giocose illustrazioni di Giulia Orecchia (Pinocchio con gli stivali, Mondadori, 2023). La storia del genere fiabesco è essa stessa una fiaba: sembra impossibile collocare una data certa di una “prima volta” per una tipologia di racconto che fa della sospensione temporale e spaziale uno dei suoi principi cardine. Le fiabe sono una delle testimonianze più ricche di nuclei narrativi che attraversano le culture, nuclei che lo studioso Jack Zipes ha definito “memi”. La versione di Perrault narra di una “prima volta” non tanto del gatto che fa la fortuna del suo padrone, quanto certamente del gatto che calza degli stivali. Secondo Marc Soriano «Alla fine del XVII secolo esistono delle buone versioni scritte del tema di Mastro gatto [Maître Chat]: quella di Straparola, molto conosciuta in Francia per la traduzione francese di Pierre de Larivery (1576) e anche quella di Basile, uscita nel 1636, che Perrault probabilmente ha letto o che comunque potrebbe aver letto. Bisogna per questo concludere che Il gatto con gli stivali segue dei modelli». Ciò nonostante Perrault «con ogni probabilità, segue una versione orale» o comunque, laddove asciuga la vicenda di alcuni particolari narrativi, ne aggiunge uno, quello delle calzature, che resterà per sempre una caratteristica del felino parlante. 

Perrault è lo stesso “autore” (raccoglitore) di Cenerentola in cui, proprio come per Il gatto con gli stivali, rispetto alla versione di Basile aggiunge un dettaglio che decreterà la fortuna della fiaba: la scarpetta di vetro. Peraltro la versione di Lo cunto de li cunti s’intitolava La gatta Cenerentola, a parziale conferma della centralità degli animali nel paesaggio della favola e della fiaba, e in particolare del gatto. Ma né in Straparola, né in Basile compare questa calzatura: nella prima la storia reca il (lungo) titolo Soriana viene a morte, e lascia tre figliuoli: Dusolino, Tesifone e Costantino Fortunato; il quale per virtù d’una gatta acquista un potente regno, nella seconda, nota come Cagliuso, prosegue nella (barocca) didascalia Cagliuso, pe ’nustria de na gatta lassatole da lo patre, deventa signore; ma, mostrannosele sgrato, l’è renfacciata la sgratetudene soia. Oltre all’assenza degli stivali, nelle versioni “precedenti” rispetto a Perrault la protagonista è una gatta e il finale è assai diverso da quello che conosciamo oggi. In Straparola il gatto s’impossessa di un castello per donarlo al suo padrone Costantino Fortunato, mentre il legittimo proprietario, «il signor Valentino valoroso soldato», muore accidentalmente mentre conduce a casa la sua nuova moglie. In Basile, diversamente, la vicenda assume tinte ironiche, con la gatta che si finge morta per testare se il suo padrone avrebbe mantenuto la promessa di onorarne per sempre la memoria, mentre invece scopre che sarebbe stata gettata da una finestra e se ne va insultando Cagliuso. In Perrault gli stivali antropomorfizzano il gatto, che «divenne un gran signore», inaugurando una nuova stagione della fiaba in cui le metamorfosi saranno al centro del racconto, proprio come Pinocchio che infine diventa di carne dacché nato di legno.

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Con i fratelli Grimm il gatto con gli stivali subisce l’ennesima metamorfosi. Lo (anzi: “la”, è una femmina) incontriamo nella versione del 1812 dei Kinder und Hausmärchen sotto il titolo di Il povero garzone e la gattina. Gli stivali magicamente scompaiono ancora, ma scompare anche la fiaba stessa nell’edizione del 1857: secondo alcuni, si trattava di un racconto che poco aggiungeva alla causa tedesca per cui era stata elaborato l’impianto dell’opera. Nel 1919 sarà Sergio Tofano a dare nuova vita alla storia con il suo Gli stivali del gatto con gli stivali, ponendo anch’egli l’accento su questo dettaglio magico, quasi invisibile e sotterraneo. Più tardi Malerba, uno dei più originali scrittori italiani del Novecento, mischia ancora di più le carte quando nel 1977 pubblica il suo Pinocchio con gli stivali per la Cooperativa Scrittori. Con la nuova versione appena pubblicata da Mondadori questo racconto ritrova una favolosa veste grafica grazie alle teatrali illustrazioni di Giulia Orecchia, che segue il filo malerbiano come continuando un immaginario e prolifico dialogo con lo scrittore. Il ritmo della componente grafica fa assumere alla narrazione testuale un movimento che ricorda le atmosfere delle primissime animazioni per il cinema, in particolare quelle di Lotte Reiniger di un secolo fa. Il protagonista del racconto, Pinocchio, è evidentemente lo stesso del capolavoro di Carlo Collodi, eppure, come il giornalista toscano aveva tradotto le fiabe di Perrault a metà Ottocento, così Malerba ritraduce l’originale, aggiungendo dettagli che ci aiutano a capire meglio anche come funziona la fiaba stessa, i suoi ingranaggi. Qualcosa accomuna il burattino al gatto (o alla gatta), ed è anche il rapporto con la morte, una morte apparente o comunque temporanea. Pinocchio, infatti, originariamente terminava la sua esistenza impiccato, ma infine Collodi riprende la vicenda e trova escamotages narrativi per farlo tornare in vita. In Basile la gatta si finge morta per testare la veridicità delle affermazioni del suo padrone, invece poi rinviene e abbandona il campo lasciando un vuoto narrativo che ne fa un’opera aperta in cui l’abilità fantastica di scrittori come Malerba s’incastona perfettamente.

E cosa succede se un personaggio di una nota fiaba esce letteralmente (e letterariamente) dalla sua storia per infilarsi in un’altrui fiaba? In Pinocchio con gli stivali il protagonista confessa le sue intenzioni alla Fata “turchina turchetta”: «Io mi trovo bene come burattino e non voglio diventare un ragazzo né perbene né permale». Malerba sembra intercettare il sentimento del “primo” Pinocchio, quello della prima versione della fiaba che s’interrompeva tragicamente con l’impiccagione e con nessuna metamorfosi. Più propriamente qui Pinocchio veste, anzi calza i panni di un altro, quelli del gatto con gli stivali, ma lo fa dopo aver chiesto ad altri celebri protagonisti un nuovo ruolo in un’altra fiaba. Ci prova dapprima col lupo, spazientito ma irremovibile, allora direttamente con Cappuccetto Rosso, troppo fedele ai suoi lettori, poi con un Principe, che non cede i suoi privilegi. Non avrebbe ceduto – e “in realtà” non cede – nemmeno il gatto, quanto piuttosto il suo padrone, il figlio di un povero mugnaio, che acconsente allo scambio pur di avere ricchezze maggiori. «Io ti dico che ti faccio diventare ricco e straricco cento volte più di quello che diventi nella favola del Gatto con gli stivali. […] Dovresti mettere me al posto del Gatto e il Gatto al posto del coniglio». Naturalmente dopo aver chiesto di indossare gli stivali, che però non erano alle zampe del gatto, ma appoggiati lateralmente: un dettaglio non da poco. Malerba espunge l’elemento magico perché possa essere preso e usato da chiunque. Gli stivali sono la fiaba: un particolare attorno alla cui presenza o assenza si costruiscono narrazioni sempre nuove. 

Quando Pinocchio si reca dal Re per offrirgli in dono il vero gatto, il felino balza fuori dal sacco infuriato e inizia a graffiare tutti i presenti: «Il Re si arrabbiò moltissimo perché questo non stava scritto nella favola. Pinocchio venne preso subito per i piedi e per il naso, messo dentro al sacco e legato stretto con una corda robusta. Due guardie a cavallo lo portarono al galoppo dentro al capitolo trentasei, nel punto preciso da dove era scappato. Ci vollero degli anni per rimettere in ordine la favola del Gatto con gli stivali e ogni tanto ancora oggi vi succedono delle confusioni». La storia richiama molto da vicino un tentativo assai simile proposto dall’illustratore americano David Wiesner nella sua riscrittura della fiaba di area anglosassone “I tre porcellini”. Nel picturebook del 2001, pubblicato in Italia da Orecchio acerbo nel 2020, Wiesner esplora lo spazio della pagina e lo spazio fiabesco, facendo scivolare i tre animali protagonisti della loro storia nelle storie “altrui”, da quelle più fantasy alle più classiche e bucoliche, incontrando altri personaggi, altri animali, altri protagonisti. Pur rompendo il meccanismo con cui quella fiaba ha funzionato perfettamente per secoli, forse per millenni, Wiesner come Malerba ci mostra la macchina della fiaba, i suoi ingranaggi, e come bambini proviamo a riassemblare pezzo per pezzo il giocattolo della narrazione. Come ha ammesso lo stesso autore di Pinocchio con gli stivali, l’idea arriva «Prima di tutto perché mi diverto, come sicuramente si divertivano quelli che raccontavano favole nelle cucine e nelle stalle. […] Poi perché mi piace mettere in imbarazzo i miei piccoli lettori, sconcertarli con paradossi, fargli capire che il mondo è strano e pieno di inganni e addestrarli fin da bambini a diffidare dei conformismi istituzionali e dei modelli confezionati, a vedere il lato ridicolo delle cose» (Parole al vento, Manni, 2008). È un’idea altissima di letteratura ed educazione, fondata sull’imbarazzo e sullo sconcerto: gli stessi sentimenti che proviamo spesso di fronte al reale.

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TAGGED: Luigi Malerba