Speciale

Peregrinazioni diasporiche / Passeggiate londinesi

27 Maggio 2016

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Noi bambini a Mogadiscio giravamo sempre in gruppo. Nei giorni di festa si vagabondava da un luogo all’altro, senza nessun pretesto se non quello di stare insieme, all’avventura. Ma c’erano delle regole in quell’apparente anarchia. I più grandi ben si impegnavano affinché ci accompagnasse la giusta dose di paura, casomai ci venissero strani grilli in testa. Fu per questo che mia cugina mi parlò dei cannibali. A sentir lei, giravano tipi sospetti negli ultimi tempi, si diceva addirittura che una ragazza, prendendo un tassì da sola per tornare a casa, si fosse imbattuta in niente meno che un tagliagole. Era un ragazzo normale all’apparenza, ma una volta soli, in un vicolo deserto, i suoi occhi dolci avevano preso un colore rosso fuoco e aveva tirato fuori uno spiedo per banchettare con le sue carni. Ora non ricordo più se la giovane in questione si sia salvata o meno, ma l’idea della poveretta, isolata e in fuga, da quel momento in poi sortì l’inevitabile effetto di farci restare sempre saldamente uniti, piccoli esploratori al sicuro dai pericoli del mondo. 

 

Numbis Scarf magazine launch @ Rich Mix. 

 

Sono passate ormai tre decadi da allora, eppure quella delicata armonia, la complicità e spensieratezza con cui vivevamo le nostre piccole avventure, sono ancora oggi vividi sentimenti, capisaldi di quegli anni di formazione. 

Ogni movimento scaturiva da una suggestione, dalla nostra fitta rete di conoscenze e così ci orientavamo tra un luogo e l’altro: una zia che ci offre un’aranciata ghiacciata perché fa troppo caldo, l’amico del cugino che ci introduce segretamente nella piscina dell’hotel Uruba, la mamma di un’amica che ci offre i dolcetti al cocco. Immaginate: una comitiva di ragazzini in giro per i vicoli di una metropoli sonnolenta. Quando ci si muove nei meandri di una città in gruppo, ogni angolo, edificio, albero, cartello, panchina assorbe le esperienze di ciascuno, spazio e tempo si frammentano in un caleidoscopio di storie.

Quasi ormai un anno fa, alla vigilia dell’anniversario delle due indipendenze somale, rispettivamente il 26 giugno e il 1 luglio, sono partita alla volta di Londra per prendere parte a un festival organizzato dal collettivo Numbi Arts, di cui l’amica Kinsi Abdulleh è sia l’ideatrice che la fondatrice. 

Ero quanto mai emozionata di cominciare il mio viaggio dalla Station Central di Bruxelles e attraversare per la prima volta la Manica a bordo di un traghetto. Ormai siamo abituati a una strana e indotta ubiquità che poco si presta al nostro limite umano di interiorizzare tempi e spazi. Le sei, sette, otto ore di pullman mi avrebbero invece lasciato il tempo per uscire dai ritmi e dalle contingenze della mia vita quotidiana. Il festival iniziava quella stessa sera al Rich Mix, uno spazio culturale collettivo, nel cuore di East London.

 

Photo by Nadyah Aissa. 

 

Kinsi Abdulleh è un’artista visiva e animatrice sociale residente ormai da lungo tempo a Londra. Ha trascorso la sua infanzia e adolescenza spostandosi da una città all’altra della Somalia, fino a quando il regime sempre più oppressivo di Siyaad Barre costrinse il padre a stabilirsi in Arabia Saudita. Raccontando di quegli anni di peregrinazioni, Kinsi dice scherzando di essere nata in una valigia, una valigia rigida. La gente a quei tempi, per ragioni politiche ed economiche si muoveva infatti in continuazione. Giunta a Londra, mentre studiava alla Farnham School of Art ora University for the Creative Arts (UCA), lavorò per qualche tempo al Jazz Cafe di Newton Green, Islington. 

Mi racconta la sua storia sulla panchina di un parco, poco distante dal luogo di cui parla. Fu quell’esperienza che fece nascere in lei l’idea di uno spazio creativo dove gli artisti si incontravano in modo informale, collaboravano se lo desideravano, scambiavano due chiacchiere. Nina Simone che suonava il piano durante i Sunday Jams indossando delle semplici scarpe da ginnastica era un chiaro esempio di quanto fosse importante un dialogo semplice e reciproco, la condivisione di un ideale. La questione più urgente al centro delle discussioni in quegli anni era la lotta contro l’apartheid, tuttavia Kinsi notò con sorpresa che molte delle persone che frequentavano il Jazz Cafe, pur provenendo da diverse parti del mondo, sapevano tutto della Somalia. C’era dunque una connessione tra la gente della diaspora, tutte le diaspore, le radici di ciascuno si estendevano e intrecciavano le altre. 

Nel 1995 un gruppo importante di poeti e musicisti somali, tra cui Hadrawi, Qarshi, Dacar, Dararamle e Hudeydi arrivarono in UK, invitati a prendere parte a un World Circuit Festival insieme a molti altri artisti maliani. In quell’occasione le fu chiesto di lavorare come facilitatrice ed esibire le sue opere. Fu un’esperienza incredibile, perché comprese quanto complessa e universale fosse la poesia somala. Quello stesso anno, in occasione dell’esibizione Seven Stories About Modern Art in Africa alla Whitechapel gallery, ispirata da una poesia di Garriye, pensò di fondare un’associazione culturale chiamandola Kudu. La favola in versi del poeta somalo racconta infatti di un re sul cui capo spuntano due corna di antilope e del suo servitore che, al riparo di un boschetto, sussurra il terribile segreto in una fessura scavata nel suolo. È un inno alla libertà di parola, una condanna del potere, perché “There was a time when such things could be openly said. Yes, there was a time when even the poor could be told the truth.” 

L’esperienza con i poeti fu molto importante per Kinsi, che dopo averli incontrati trovò il coraggio di inaugurare la sua prima esibizione. Per i somali era infatti inconcepibile che si definisse un’artista “visiva”, perché non esiste niente di simile in Somalia.

 

Photo by Nadyah Aissa.

 

Le chiedevano: “Cosa fai precisamente, canti? Confezioni dei vestiti?” Voleva smetterla di giustificarsi, aveva delle idee e doveva trovare il modo per trasmetterle. In quello stesso periodo inaugurò il Sister Circle, un laboratorio che riuniva donne somale di tutte le generazioni, il cui scopo era sia quello di discutere come le opere di finzione prodotte dagli uomini mal rappresentavano le figure femminili, sia quello di creare un community museum, dove le donne partecipanti condividevano i materiali in loro possesso che riguardavano la Somalia: cartoline postali, home video, oggetti, abiti, documenti, fotografie. Il quesito alla base dei loro incontri riguardava la funzione e la conservazione degli oggetti via via raccolti.

Secondo Kinsi la vita ha sempre un andamento ciclico e nella sua, le occasioni importanti si sono presentate sempre a scadenza di dieci anni. Nel 2005 fu incaricata di organizzare un Festival dedicato al cinema, al teatro e alla musica somala per ricordare a tutti come fosse la Somalia prima della guerra. Malauguratamente l’8 luglio, la data fissata per l’inaugurazione, fu proprio all’indomani degli attentati terroristici di Londra. La Whitechapel Gallery, dove si doveva tenere il festival, era proprio sopra la metro. Questa coincidenza fu talmente spaventosa che per un po’ la paralizzò. La violenza sembrava perseguitare i somali. Infine decisero di confermare l’evento. Il teatro era pieno nonostante ciò che era successo. E pensare che solo le persone che abitavano vicine o quelle che possedevano una macchina potevano arrivare! Tutti dicevano che preferivano partecipare al festival piuttosto che ascoltare il notiziario. 

 

Photos from Numbi Heritage walk Intersectionality workshops and Numbi Rio exhibition. 

 

Facendo tesoro della precedente esperienza con l’associazione Kudu, Kinsi pensò di sviluppare ulteriormente le sue idee fondando l’organizzazione Numbi, ispirandosi al nome di una danza somala, durante la quale si dà libero sfogo alle inibizioni e si tenta di ristabilire l’equilibrio nella comunità. Pensava fosse fondamentale promuovere uno spazio creativo a partire dal quale immaginare di nuovo una nazione, senza rimanere bloccati nella tragedia. Seppure non fossimo pronti, secondo Kinsi, saremmo sempre in grado di raccontare l’un l’altro delle storie. “La storia che io sto condividendo, ha il potere di raccontare anche la tua”. Numbi è anche il nome di un albero: distribuirne i semi significava connettere il passato con il futuro. 

Una delle principali collaboratrici di Kinsi nell’organizzazione di eventi, progetti, laboratori è Charity Njoki Mwaniki. L’ha incontrata alcuni anni fa mentre stava conducendo alcune ricerche per il suo master in architettura, in cui indagava la connessione tra spazio, identità e razza in UK. Fu subito attratta da Numbi, per via della sua vocazione a coniugare il contributo di artisti assolutamente diversi in occasione di un workshop, un evento, una rivista: tutto poteva servire per far convergere le energie di ciascuno verso un obiettivo finale. Nata in Kenya e trasferitasi a Londra all’età di dodici anni, Charity era particolarmente interessata alla comunità somala, non solo perché nel suo paese di origine vivono molti somali, ma anche per contrastare l’immagine negativa che i media ne diffondevano. Charity ha memoria degli anni trascorsi a Nakuru, i luoghi, i panorami, i diversi modi di essere che ancora la condizionano. Il tempo dura di più nel suo universo ideale, vi è un differente investimento nelle persone, nelle relazioni, mentre in Europa la concezione del tempo è molto più pragmatica e funzionale. 

Nel contesto dei numerosi progetti realizzati da Numbi, Charity ha collaborato con Yenenesh Nigusse, una danzatrice australiana etiope da poco stabilitasi a Londra. Nel corso della performance a cui ho assistito al Rich Mix, Yenenesh, che ne ha anche composto la musica, emerge da un delicato e incantevole costume di carta che si schiude, evocando un sogno che prende forma dall’intreccio di culture, epoche ed energie, un’orchestra di suoni prodotti dalla carta. Yenenesh è nata in Etiopia e, all’età di otto anni, è stata adottata insieme alla sorella da una famiglia australiana con la quale si è stabilita a Brisbane. La madre adottiva riteneva importante che mantenessero un legame con il loro passato e così le fece seguire da un insegnante etiope perché non dimenticassero la lingua madre. È sempre grazie ai suoi stimoli che ha sviluppato la passione per diversi tipi di danza africana. Dopo molti anni, insieme alla sorella è ritornata a visitare la città natale, Macallé, un viaggio che avevano fantasticato a lungo, ma che poi si è rivelato molto impegnativo emotivamente. Erano persino riuscite a riconoscere la casa in cui erano nate! In Australia, Yenenesh ha lavorato a lungo presso il Bemac, un’organizzazione che promuove la fusione di varie forme artistiche, come la danza e la poesia, e unisce persone di diversi background culturali. Facendo tesoro della sua esperienza personale, si è cimentata a sua volta nel ruolo di formatrice, rivolgendosi ai bambini adottivi, nel delicato tentativo di saldare, nella loro storia, il legame tra passato e presente.

 

Photos from Numbi Heritage walk Intersectionality workshops and Numbi Rio exhibition. 

 

Il Rich Mix non è la sola sede delle attività del collettivo Numbi Arts, ma lo sono anche altri luoghi che ben rispondono al suo spirito. Nelle nostre peregrinazioni londinesi, uno dei nostri spazi prediletti era l’iklectik Art- Lab, dove si realizzano laboratori, conferenze, proiezioni, concerti, letture e, che nelle parole del suo direttore, Eduard Solaz, è una performance costante, un’installazione sociale, un luogo dove persone diversissime si incontrano e interagiscono. 

Ed è sui suoi tavolini all’aperto, tra le aiuole di fiori e di verdure che ho ascoltato la storia di uno dei più giovani membri di Numbi, il poeta Elmi Ali. Elmi è nato a Nairobi da genitori somali nel 1989. Suo padre era un grandissimo lettore e nonostante abitassero in sole due stanze, queste erano stipate di libri, audiocassette, poesie. La sua casa era un luogo di incontro. Allo scoppio della guerra civile, la madre amava ripetere giocosamente che avrebbero dovuto essere finanziati dalle Nazioni Unite per via del numero di persone che ospitavano. I membri della sua famiglia dormivano in una camera, mentre per gli ospiti, più o meno provvisori, avevano allestito l’altro locale, procurandosi quanti più materassi possibili. Ognuno poi ha raggiunto destinazioni diverse, ragion per cui Elmi dice ironicamente che ovunque decida di andare nel mondo è sicuro di trovare una poltrona che lo ospiterebbe! Di quegli anni precari, in cui quasi tutti erano privi di documenti, ha interiorizzato la paura, poiché il loro timore maggiore era quello di essere scoperti ed espulsi. I somali che ospitavano venivano da tutte le parti del paese, avevano i più diversi accenti e molte storie da raccontare. La sua fascinazione per le lingue risale ai prima anni dell’infanzia. A scuola infatti studiava in swahili e in inglese. Ha sempre scritto poesia, dall’età di diciassette anni. A Manchester, dove ora vive, fa parte del collettivo di giovani scrittori Young Identity. Il suo debutto è avvenuto nel 2009, durante il Manchester Literature Festival. Elmi è anche un talentuoso performer: nel declamare le sue poesie ricorre spesso alla tradizione orale somala, citando versi popolari, adattandone le melodie. 

Nel corso delle nostre peregrinazioni ci fermavamo spesso nei cantucci o sulle panchine, per annotare parole, fotografare dettagli, ritagliare immagini, raccogliere locandine. Il nostro gruppo si allargava o restringeva, mano a mano che percorrevamo la città, da un quartiere all’altro, a piedi, in metro o sull’autobus. C’era Catherine, marionettista inglese di lontane origini trentine ricercatrice in Sierra Leone; Dunya l’insegnante di yoga francese e congolese che per mestiere controlla anche i biglietti dei passeggeri sui treni ad alta velocità; Judy, eritrea danese che cura i pazienti con il suono della propria voce; Nadia, percussionista di origini libiche che ha trascorso nove anni in Italia. E SA, Yusra, Rashid. Qui non ho nominato tutti, anche se la vivida presenza di ciascuno, il loro sguardo, è indelebilmente impresso in quelle passeggiate londinesi. Il nostro era infatti un camminare congiunto in cui le storie di ciascuno si intersecavano con il paesaggio, determinavano il ritmo dei passi e delle soste, rendendoci compatti e immuni dalla solitudine e dallo spaesamento. 

 

In questi mesi, dopo gli attentati di Parigi e di Bruxelles, mi sono a lungo interrogata sul terrore diffuso nelle città blindate in cui ormai viviamo. A differenza dei cannibali, che avevano la funzione di farci rimanere sempre uniti, i nuovi spauracchi sortiscono l’effetto opposto, seminando divisione e sospetto tra la gente. Il mio auspicio è dunque quello di avere in queste pagine suggerito come l’unico antidoto alla paura sia in verità quello di camminare insieme, per scarti e tentativi, perché solo così possiamo empaticamente comprendere chi ci sta accanto e riconoscere che, in quanto esseri umani, il nostro destino è ineluttabilmente collegato con quello del prossimo.

 

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