Pietro Barbetta. Follia e creazione

13 Marzo 2013

“Bisogna delirare un po’ per trovare il nome giusto”, scrive Barbetta nel suo ultimo libro Follia e creazione, pubblicato da Mimesis.

La nominazione – scrive – s’interpone, gesto, tra il corpo e il linguaggio. La nominazione è vista nel suo potere performativo, battesimo: dare un nome, nella scrittura di un caso clinico, non è mero espediente; è scrivere un racconto, suggerire qualcosa di ulteriore, rifiutandosi di credere che il rigore senza immaginazione che pertiene al discorso scientifico non veicoli, con la sua pretesa neutralità, una distorsione, tanto più insidiosa perché celata. La vita non è un’essenza descrittiva piegata sui fatti.

Riecheggia l’invito di Blanchot a rinunciare al discorso coerente cercando una parola che senza pontificare sappia dare voce all’intermittenza.

Alla clinica come costruzione di diagnosi, classificazioni e categorie, mortificante e insieme mistificante, anzi, si potrebbe forse dire, mistificante proprio perché mortificante, Barbetta mostra la necessità di affiancare la letteratura come educazione alle variazioni.

Sfuggire alla logica del concetto che non può dire la singolarità, l’evento della vita individuale.

 

Nell’Introduzione l’autore confessa che il libro è dispersivo, e che gli è costato fatica: pensato come ‘progetto compatto’, con un nucleo. E, sembra sottintendere, poi le deviazioni.

Alla stessa fatica è chiamato il lettore, perché i rimandi sono molti, come i campi che bisognerebbe padroneggiare per comprendere tutte le sfumature e tutte le possibilità, o i possibili, che questo libro, volutamente non esaustivo, contiene.

Così le analisi di Joyce, con la sua scrittura e il rapporto con la figlia, si intrecciano ai racconti delle esperienze cliniche dell’autore, messe a loro volta in dialogo con il rapporto tra immagine e linguaggio.

E poi la conversazione attorno alla schizofrenia tra Don Chisciotte, Pietro Barbetta, e Ipazia d’Alessandria, Nadine Tabacchi, ove la schizofrenia è guardata come altro dalla patologia da trattare con gli psicofarmaci cui la riduce un certo discorso scientifico. E ancora lo stile libero indiretto difeso da Pasolini, con uno sguardo al rapporto di debito e distanza dello scrittore con la psicoanalisi, rapporto che in qualche misura Barbetta sembra condividere.

 

Il libro dello psicoterapeuta non si costruisce attorno alle sue competenze scientifiche, anzi sembra metterle in tensione, agendone nel libro l’insufficienza e sottolineando la necessità critica.

Il richiamo alla letteratura è allora richiamo alla scrittura come inseparabile dal divenire, sempre in fieri.

Affidarsi alla letteratura, all’arte e alla filosofia, attraversando con naturalezza campi diversi e mostrando ibridazioni feconde, è mostrare all’opera il messaggio politico che il libro contiene.

Viene da pensare, sarà per la natura profondamente deleuziana del testo, che la dispersione prima ricordata che è l’autore stesso a denunciare, sia un procedere fuori dialettica e fuori dicotomia. Rizoma.

Un procedere che il nucleo, al più, lo lascia essere, circoscrivendone l’assenza.

Quello che si vuole sottolineare, prendendosi la libertà di completare un pensiero non detto, è che in qualche misura l’autore agisca, sia nella scrittura che nella struttura del testo, il punto nodale che attraversa questi saggi. L’evasione si costruisce, prima ancora che con il pensiero, attraverso lo stile. Allo stesso modo di Nietzsche, la cui uscita dalla tradizione avviene nel come del suo dire prima ancora che attraverso il cosa.

E allora, per restare fedeli alla coppia Deleuze e Guattari richiamata più volte lungo i capitoli, in campo sembra essere quell’idea di concetto così com’è elaborato in Che cos’è la filosofia?.

Ricordarsi, insomma, che le parole hanno sempre un’eccedenza che le attraversa, e pensare con loro che il concetto è qui considerato come qualcosa di incorporeo, che lungi dal confondersi con gli stati di cose in cui si realizza, è piuttosto in stato di sorvolo, le attraversa.

Ecco perché paradossalmente il concetto se così inteso, può dire l’evento: anzi la filosofia ha come scopo proprio quello di creare concetti, di “diventare degna dell’evento”.

Non dunque elevarsi verso la perfezione, ma pensare il disordine, la follia. Perché la vita si dà come taglio, precipitazione della verità singolare, differenza.

E allora, ed è anche attraverso Joyce che in Lacan si compie questo passaggio, il sintomo, automaton, ripetizione che inchioda il soggetto, può divenire sinthome, clinamen, ribellione alla necessità, possibilità di divergenza e dunque emergenza creativa della particolarità soggettiva. E, non a caso, è Lucia Joyce, per Barbetta, l’occasione per mettere a tema la condanna che si consuma là dove questo non accade; e per parlarne l’autore si immerge nell’universo magico del padre scrittore riprendendone il rapporto con le coincidenze e i numeri. La diagnosi di schizofrenia che certifica una ripetizione inchiodandola alla malattia, è ciò che impedisce all’eccedenza celata nella supposta chiaroveggenza della figlia dello scrittore, di fare della danza, dell’arte, la sua apertura creativa, la sua possibilità singolare.

 

Credo sia questo l’intento politico del libro, il suo cuore e dunque la sua potenza.

E la scrittura procede per assonanze e rimandi: attraverso spostamenti e condensazioni, quelle proprie del sogno, e con la dose di sovradeterminazione sempre implicata.

Barbetta utilizza parole complesse, termini poco conosciuti della nostra tradizione culturale, parole del linguaggio dell’altro, parole-valigia; scegliere di non tradurle e di non costruire nemmeno un glossario non è un modo per compiacersi di una complessità, rendendo inaccessibile ai non addetti ai lavori il proprio percorso. Tutt’altro. Obiettivo è piuttosto non cadere nel rischio di pretendere l’esaustività, definire ed esaurire. Smarcarsi dalla logica del capire tutto: evitare di costruire categorie e di lasciare così fuori la letteratura. Le parole sono intraducibili perché c’è sempre un’eccedenza, e loro sono là, nel testo, per mostrarla.

 

I diversi saggi che compongono il libro mostrano come la particolarità soggettiva sia inclassificabile. Narrazioni di vita che non possono essere scritte con il linguaggio e forse nemmeno iscritte nel linguaggio. Casi clinici; caso che con Darwin non è più l’elemento perturbante da tacitare ma piuttosto degenerazione che promette evoluzione. Storie differenti e singolari che si compongono nello spazio tra il testo del paziente e il momento dell’esposizione, in cui l’analista, scrive Barbetta, non può “mettere in sicurezza questo sapere” cercando un confronto con la scienza destinato allo scacco. L’osservatore è infatti coinvolto in un lavoro letterario; l’inconscio è intertestualità, fondato nella conversazione e nell’incontro.

Il linguaggio non può e non deve essere quello mortificante delle pratiche discorsive degli operatori sanitari, poiché è linguaggio che stigmatizza.  

Lo psicoterapeuta guarda all’ineludibile dimensione letteraria del lavoro di Freud, e restituisce lo scarto tra il racconto sul sogno e il sogno: non bastano condensazione e spostamento, nel sogno vi è sempre qualcosa di ulteriore.

Perec si accorgeva che sognava solo per scrivere i suoi sogni, “sogni troppo sognati, troppo riletti, troppo scritti”. Sogni che non erano altro che testi.

Vi è la necessità di trasgredire, sembra voler dire Barbetta, perché la diagnosi sia anche dalla parte della letteratura. Letteratura come più assoluta forma che la verità possa assumere, con Sciascia.

Trasgredire perché la diagnosi non si riduca a etichetta, ma sia piuttosto traccia, che apra la possibilità di un lavoro che sia, per il soggetto, occasione di emergere nella sua singolarità irriducibile.

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