Antifascismo, Shoah e la zona grigia

7 Dicembre 2015

Tra i primi giornali a riportare le notizie sulle deportazioni e lo sterminio operato dai nazisti nel febbraio del 1945 quando ancora il Nord è occupato e Mussolini vivo, è il periodico Israel. Il 4 febbraio un articolo apparso sul foglio ebraico ricorda tre ebrei uccisi definendoli “combattenti per la libertà”. Il tema della deportazione degli ebrei italiani è in quel momento compreso dentro l’identità scaturita dalla Resistenza. La narrazione antifascista ha assorbito il tema dello sterminio del popolo ebraico. Settant’anni dopo, di antifascismo e Resistenza non se ne parla quasi più, o almeno non in quei termini, mentre il paradigma “vittimologico” della Shoah è dominante, come scrive Anna Foa nella introduzione al volume di Manuela Consonni, L’eclisse dell’antifascismo (Laterza). L’antifascismo non è più il cemento dell’identità delle forze cattoliche, socialiste, azioniste e comuniste, per altro oggi dissolte, le stesse che alimentarono la lotta alla Repubblica di Salò e agli occupanti tedeschi; la lotta di resistenza appare come un valore lontano, remoto, messo in discussione in libri e dibattiti, affidato alla celebrazione sempre più stanca del 25 aprile. Al contrario, nel corso degli anni Settanta la Shoah è andata costruendo un suo modello memoriale, separandosi dalla Resistenza e definendo il tema della sua unicità, culminato nella Giornata della Memoria. Secondo la studiosa, che insegna nella Università di Gerusalemme, la caduta del paradigma resistenziale sarebbe anche il risultato di questa nuova visione. Manuela Consonni ricostruisce questa storia attraverso l’asse fondamentale delle memorie scritte dagli ex deportati, sia nel periodo immediatamente seguente la fine della guerra, dal 1945 al 1948, che negli anni Settanta e Ottanta, quando tre diverse ondate di testimonianze furono rese pubbliche. Si tratta di un lavoro importante che mette in campo problemi complessi di ordine sia storiografico che politico, e che ha nella divaricazione tra memoria della Resistenza e memoria della deportazione ebraica il suo punto focale. Fino alla metà degli anni Settanta il modello del deportato era quello eroico del politico rinchiuso a Mauthausen e Buchenwald, oppositore del fascismo, combattente della Resistenza contro il mostro nazista. Un posto minore, in una visione dominata dalla figura maschile, avevano le stesse figure femminili, nonostante che tra le prime testimonianze scritte ve ne fossero diverse di donne. Dello sterminio ebraico se ne parlava in modo ridotto, come una specie di sottoprodotto del nazismo; il paradigma antifascista era fondamentale dopo la rottura della unità di governo tra democristiani e comunisti negli anni Quaranta del XX secolo; la lotta ideologica che ne seguì nei due decenni successivi fece sostenere ai comunisti che la Resistenza era stato il Secondo Risorgimento d’Italia; i campi di concentramento nazisti occultavano agli occhi dei militanti di quel partito l’esistenza dei Gulag sovietici. Manuela Consonni s’inoltra in questo terreno storiografico e arriva sino alla data del 1989, alla fine dei regimi comunisti all’Est, per quanto la successiva dissoluzione del Movimento Sociale, la sua mutazione e cooptazione nei governi Berlusconi, abbia modificato ulteriormente il quadro d’insieme. Della crisi del paradigma resistenziale, tema che lo stesso Pasolini sulla scorta di Franco Fortini proporrà negli anni Sessanta negli Scritti corsari in modo provocatorio (l’equivalenza fisica dei giovani fascisti e antifascisti) verrà affrontato in modo originale da Primo Levi, autore centrale nel libro di Manuela Consonni. Lo scrittore e testimone torinese è davvero una figura emblematica. La sua posizione diverge da quelle dominanti in ogni decennio, sia riguardo il tema generale della deportazione sia rispetto alla questione dello sterminio ebraico. Nel 1947 Levi titola il suo libro Se questo è un uomo, e non Se questo è un ebreo, eppure descrive la deportazione degli ebrei ad Auschwitz; il libro inizia parlando del campo di Fossoli e degli ebrei internati senza fare menzione della sua cattura come partigiano, cosa che invece accade nella edizione uscita nel 1958, quella che oggi leggiamo. In un successivo articolo del 1955, Anniversario. Deportazione, Levi mette in discussione la retorica della deportazione politica antifascista e parla delle vittime del nazismo (uomini, donne, bambini) rifiutando il facile paradigma “vittimario”. In un’epoca in cui tutto appariva bianco o nero, scrive dei carnefici definendoli uomini alla pari delle loro vittime. Sono temi che non troveranno spazio nella lettura successiva della Shoah e dell’Olocausto diventate canoniche nel corso degli anni Ottanta. E nel 1986, pubblicando I sommersi e i salvati, metterà in dubbio la stessa memoria quale fondamento della testimonianza aprendo la discussione sulla corresponsabilità delle vittime con il tema della “zona grigia”. Levi appare controcorrente sia rispetto alla vulgata antifascista dell’eroe resistente sia al successivo martirologio delle vittime della Shoah. Il libro di Manuela Consonni ci aiuta a definire meglio le forme e i limiti delle diverse letture della deportazione, un contributo essenziale per comprendere quello che resta di una delle più grandi tragedie del XX secolo, che continua a gettare la sua lunga ombra anche sul XXI.

 

 

Post Scriptum

 

Levi, Rumkowski e la zona grigia

 

Al termine del suo volume Manuela Consonni cita due lettere di Primo Levi che fanno luce sulla formulazione della “zona grigia”. Si tratta della pagine in cui narra la storia di Chaim Rumkoswki, presidente del Ghetto di Lodz, che s’era incoronato Re e aveva battuto moneta con il suo nome dentro il perimetro della città polacca. Levi dedica a questo personaggio un racconto nel 1977, “Il re dei Giudei”, uscito su “La Stampa”, dove compare la riproduzione della moneta trovata dal giovane chimico per terra ad Auschwitz; quindi il racconto è raccolto nel volume Lilít, quindi diventa un capitolo della Zona grigia, per cui lo riscrive in parte mantenendo sostanzialmente identico il discorso. In questo capitolo de I sommersi e i salvati Levi sviluppa un complesso discorso sul rapporto tra gli individui e il potere. Rumkowski compilava le liste dei deportati ebrei che i tedeschi trasportavano con i treni alle camere a gas; poi finirà lui stesso in questo modo. La fonte principale del racconto di Levi è un articolo di S. F. Bloom, Toward the Ghetto Dictator apparso negli Stati Uniti in una rivista ebraica, “Jewish Social Studies” nel gennaio del 1950. Si riteneva che Levi lo avesse letto all’epoca della sua prima pubblicazione, anche se già c’erano elementi che facevano pensare a una sua lettura più tarda del saggio; due lettere documentano che lo richiede alla cugina Anna Foa, sposata Jona, che risiede in America, nel febbraio del 1975. Lo riceve a breve giro di posta nel marzo del medesimo anno, in fotocopia. In una missiva del 9 marzo 1975 Levi ringrazia la cugina, che gliel’ha spedito, e insieme le annuncia l’uscita imminente di suo nuovo libro, Il sistema periodico. Due anni dopo esce il racconto sul giornale torinese. Si può ipotizzate che il tema covasse in lui da lungo tempo. Cosa lo abbia indirizzato verso Rumkowski, oltre alla moneta custodita in un cassetto, non è ancora dato di sapere con certezza, forse la lettura di un romanzo di Saul Bellow del 1971, in cui compare, o forse altro; con ogni probabilità la questione la stava ruminando da molti anni.

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