Al Mudec di Milano / Dentro il colore: Kandinskij

23 Maggio 2017

«Per anni e anni ho cercato di ottenere che gli spettatori passeggiassero nei miei quadri; volevo costringerli a dimenticarsi, a sparire addirittura lì dentro». Queste le parole di Vasilij Kandinskij che hanno ispirato la mostra ora al Mudec di Milano: entrare dentro il quadro e ripercorrere il viaggio del pittore russo nella regione di Vologda alla ricerca delle tracce pagane dei Zyriane di Komi, una popolazione finnica orientale. Nel 1889 Kandinskij vi si era recato come studente di diritto per svolgere una ricerca antropologica, aveva visitato in solitudine le isbe di quei villaggi sperduti ed era rimasto affascinato dagli oggetti d'uso quotidiano, dai mobili colorati, dalle stoffe, dai giocattoli dipinti a tinte vivaci e, in particolare, dai lubki, immagini popolari che narravano le storie dei santi e degli eroi russi, nei quali i colori della stampa strabordavano dai limiti delle figure.

 

V. Vasilev, Lubok (ultimo terzo del XIX secolo).


All'ingresso della mostra, in alto, sopra gli oggetti esposti – mestoli, conocchie, battitappeti, stampini, tessuti, costumi, tutti coloratissimi, provenienti in gran parte dal Museo Panrusso delle Arti Applicate e dell'Arte Popolare di Mosca – un'installazione multimediale fa scorrere le immagini di vita contadina, di città, di chiese dalle cupole dorate e di cavalieri erranti in misteriosi paesaggi. Il viaggio diventa viaggio interiore – come spiegano le curatrici della mostra, Silvia Burini e Ada Masoero –, ricerca delle radici dell'immaginario del pittore. Così nelle sale interne possiamo ammirare i primi quadri di Kandinskij, che ripropongono i motivi delle fiabe russe e dei racconti religiosi, il bellissimo drago di Notte di luna, il serpente del giudizio universale, il cavallo e il cavaliere, gli angeli-uccelli del Paradiso, la città-madre Mosca. Accanto ai quadri del pittore sono esposte antiche icone che si rivelano come sue fonti visive.

 

Vasilij Kandinskij, Notte di luna (1907).


Ad entrare nel mondo colorato di Kandinskij ci aiuta un'altra installazione spettacolare che, al tocco della mano, fa esplodere colori e suoni: macchie colorate che riproducono le figure biomorfe dei quadri astratti del pittore, cavalieri dai colori innaturali, pezzi di muri, di case, di città, cupole di campanili e immagini di antiche icone. Siamo dentro il quadro, dentro il colore. 

 

L'installazione centrale a cura di CamerAnebbia: nel sito cameranebbia.com si può ammirare l'immagine in movimento.


Il colore nella pittura e nella riflessione teorica di Kandinskij tende in effetti a un primato assoluto: il filosofo Alexandre Kojève – maestro di un'intera generazione di intellettuali francesi che seguivano negli anni Trenta le sue lezioni sulla Fenomenologia di Hegel – era nipote del pittore. Egli scrive che i quadri dello zio Vasilij, in quanto non rappresentativi di oggetti esterni, sono, piuttosto che arte astratta, proprio pittura concreta, nella quale cerchi, triangoli e – aggiungiamo noi – colori sono essi stessi gli oggetti, sono, in linguaggio kantiano, la «cosa in sé» (Kandinskij, trad. it. a cura di Marco Filoni e Antonio Gnoli, Quodlibet, Macerata 2005). Ma, si sa, le cose in sé non sono colorate, esse sono davvero il punto d'arrivo di un processo di astrazione e possono contenere soltanto l'astratta possibilità di aver colore (un po' come gli oggetti del Tractatus di Wittgenstein). Anche Kandinskij nei suoi scritti teorici cerca di definire il colore tra astratto e concreto: indica da un lato la possibilità di immaginare, di «vedere con la mente» un rosso infinito, un rosso il cui «suono interiore rimane puro», capace di evocare il suono di uno strumento musicale, dall'altra un rosso che entra nel quadro e nell'involucro oggettivo si rapporta alle forme e agli altri colori (Lo spirituale nell'arte, trad. it. a cura di Elena Pontiggia, SE, Milano 1996, pp. 47-48). La teorizzazione dell'arte astratta procede tra questi due piani, tra colori invisibili e visibili, tra i continui richiami alla «necessità interiore» e l'analisi di concrete esperienze artistiche. Il procedimento di astrazione diventa chiaro nelle parole del critico Michel Henry che, nel suo saggio Vedere l'invisibile. Saggio su Kandinskij, riduce esplicitamente il colore a sensazione, lo colloca nell'interiorità per poi parlare di colori invisibili (trad. it. Roberto Cossu, Guerini 1988, pp. 98-99).

 

Eppure in questi quadri i colori sono proprio lì, sono esattamente l'oggetto della visione. Si potrebbe obiettare che i colori del quadro, rappresentando solo se stessi e non un oggetto esterno, presentano una realtà altra, propriamente una realtà invisibile che sta dietro e al di là di ciò che vediamo. Certo lo sguardo del pittore è uno sguardo modificato, non è lo sguardo assonnato con cui al mattino ci guardiamo allo specchio, né assomiglia a come guardiamo una cipolla che stiamo affettando, e non è nemmeno il modo di guardare la strada e le automobili quando siamo al volante. Questo lo sanno bene Kandinskij e il filosofo Henry. Lo sguardo del pittore è una maniera di guardare che, come dire, accarezza le cose per poterne riprodurre o modificare le qualità visive, forme e colori appunto. All'opposto il richiamo a una necessità interiore si sottrae al conoscere, diventa emotiva ed evocativa, e rivela nel contempo la condivisione teorica e l'influsso di Rudolf Steiner, di Marianne von Werefkin e di Wilhelm Ostwald, di quella corrente di gnosticismo messianico che agli inizi del Novecento prevaleva nell'ambiente culturale dell'avanguardia monacense (cfr. Stefano Poggi, L'anima e il cristallo. Alle radici dell'arte astratta, Il Mulino 2014), dentro la quale Kandinskij rielabora le sue fonti visive mescolando osservazioni fenomenologiche e derive mistiche.

 

La stanza sonora chiude il percorso della mostra.


Più difficile entrare nel merito dell'associazione tra colori e suoni che il pittore ha più volte proposto, proprio a partire dalla descrizione del mondo dei colori attraverso il linguaggio musicale, e basata sulla convinzione della comune radice spirituale di musica e pittura. Le musiche che accompagnano il percorso museale, scelte da Giada Viviani, ripropongono questi richiami a partire dal repertorio dei canti popolari della regione di Vologda fino alle musiche dell'avanguardia degli inizi del Novecento. In particolare la mostra si chiude con un'installazione che propone alcuni passaggi musicali di Schönberg – amico di Kandinskij – correlati a luci di diversi colori che si modificano al movimento dello spettatore.

 

Accompagna la mostra un catalogo: Kandinskij. Il cavaliere errante, curato da Silvia Burini e Ada Masoero e pubblicato da 24 Ore cultura. I saggi che lo compongono si concentrano sulle fonti visive e culturali del pittore russo e indagano i motivi ricorrenti della sua iconografia, mettendo in secondo piano i temi che lo legano alla teosofia di Helena Blavatsky e di Rudolf Steiner, all’elemento sciamanico o a quello messianico. Forse anche per questo la mostra si ferma al 1921, la data in cui il pittore lascia definitivamente la Russia per trasferirsi a Berlino e iniziare una nuova fase della sua attività artistica.

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