Russia e psiche

15 Novembre 2023

Che sviluppo avrebbe potuto avere la psicoanalisi in Russia e poi in Unione Sovietica se questa disciplina non fosse stata messa fuori legge a partire dall’epoca stalinista fino alla caduta dell’URSS? e soprattutto: come avrebbe concorso a mutare i costumi socio-culturali di quella parte del mondo al di qua della “cortina di ferro”? Queste domande assumono particolare interesse se si tiene conto che all’inizio del XX secolo Freud stesso considerava Mosca il terzo polo della psicoanalisi dopo Vienna e Berlino. Nel suo Per la storia del movimento psicoanalitico, che racchiude scritti del 1912-1914, il padre della psicoanalisi afferma che “in Russia la psicoanalisi è generalmente nota e diffusa; quasi tutti i miei scritti, al pari di quelli di altri aderenti dell’analisi, sono stati tradotti in russo” (S. Freud, Opere VII, p. 406). Non si tratta di un’impressione ma di un dato suffragato dai riscontri documentali tanto che anche i curatori della traduzione russa di Al di là del principio di piacere, nel 1925, possono scrivere nella loro introduzione al testo che “in Russia, il freudismo gode di una eccezionale attenzione non solo nei circoli scientifici, ma anche presso il lettore comune”. Ma non è solo un interesse culturale: “dal 1908, presso l’ospedale psichiatrico dell’Università di Mosca (…) viene organizzato un laboratorio di psicoterapia in cui viene pratica la psicoanalisi”, nel 1909, sempre a Mosca, “la psicoanalisi fa il suo ingresso anche nel campo della formazione medica” e si sviluppa un nutrito gruppo di seguaci che nel 1910 darà vita alla rivista di orientamento psicoanalitico “Psichoterapija” che oltre agli psicoanalisti russi, annovera anche collaborazioni di Roberto Assagioli, Sigmund Freud, Carl Gustav Jung, Alfred Adler, e molti altri psicoanalisti cecoslovacchi, ungheresi, svizzeri. Sul calco della freudiana Società dei mercoledì sera nascono a Mosca anche i circoli dei Piccoli venerdì, con l’analogo intento di discutere, mettere in pratica e divulgare le teorie psicoanalitiche. Così negli anni in cui “nell’Europa occidentale si cerca di collocare la teoria freudiana ai margini della società, tacciandola di ebraismo, di mancanza di scientificità e di settarismo”, in Russia la psicoanalisi riscuote un ampio consenso che, almeno inizialmente, prosegue anche dopo la rivoluzione bolscevica e l’instaurazione del socialismo reale che vede addirittura la Russia comunista riconoscere la psicoanalisi come scienza di stato e finanziarne le principali istituzioni: l’asilo psicoanalitico di Mosca, con il quale collaborerà seppur per poco Sabina Spielrein, l’istituto statale di psicoanalisi e la società psicoanalitica russa, considerati preziosi strumenti per contribuire a forgiare “l’uomo nuovo” della società comunista. Ben presto, tale protezione statale, si rivelerà il tentativo occulto di utilizzare le conoscenze psicoanalitiche per esercitare un profondo controllo sulla psiche dei cittadini; solo successivamente, data anche l’opposizione degli psicoanalisti russi a questa strumentalizzazione, la psicoanalisi verrà considerata immorale e pericolosa per il suo individualismo borghese, oltretutto carico di irrazionalità e pansessualismo, ritenuta inconciliabile con l’ideologia marxista e, come tale, condannata e messa fuori legge, a partire dagli anni Trenta. Particolarmente interessante l’osservazione che dato che le nevrosi si sviluppano in una società ingiusta che non valorizza le naturali aspirazioni degli individui, nella società comunista le nevrosi non hanno motivo di svilupparsi e pertanto la psicoanalisi non ha motivo di esistere… È un vero peccato perché “se la teoria freudiana non fosse stata ripudiata, ostracizzata e censurata dagli anni Trenta fino alla fine dell’epoca sovietica, il rapporto alquanto originale che si era istaurato tra psicoanalisi e letteratura Russa all’inizio del XX secolo avrebbe potuto portare a risultati innovativi”. È questa la principale tesi dell’interessante lavoro di Maria Zalambani su Letteratura e psicoanalisi in Russia all’alba del XX secolo, Firenze University Press, 2022, pp. 269, euro 27.90. 

In questo testo, particolarmente accurato dal punto di vista dell’utilizzo storiografico delle fonti, si evidenzia come il clima culturale russo potesse favorire la comprensione e la diffusione della psicoanalisi in virtù di una cultura “da sempre profondamente profusa di senso dell’inconscio”, grazie alla letteratura di scrittori come Tolstoj, Dostoevskij, Gogol e Puškin particolarmente capaci di sondare le profondità della psiche umana e le sue contraddizioni, descrivendo, non di rado, con straordinaria abilità anche clinica, un vasto materiale esemplificativo delle teorie psicoanalitiche, al quale lo stesso Freud farà riferimento nel celebre lavoro su Dostoevskij e il parricidio (S. Freud, Opere, X). È questo un aspetto cruciale: anche se Freud si batté sempre nel tentativo di accreditare la sua creatura come una disciplina medica, persino di matrice positivistica, dovette ammettere che “in tutti i paesi dov’è penetrata la psicoanalisi essa è stata meglio intesa e applicata più da scrittori che da medici”, cosa che non lo stupiva perché egli stesso si definiva “un letterato che fa in apparenza il medico” (la citazione di Freud è tratta da J. Hillman, Storie che curano, Cortina, pp.1-2). 

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Ebbene; gran parte dei personaggi storici sui quali si concentra il libro di Zalambani hanno la peculiarità di essere al contempo medici e artisti, talvolta pittori, altre scrittori, che in ogni caso appartengono a quella cerchia di intellettuali interessati alla complessità della condizione umana che sanno studiare e coniugare le scienze umane con la medicina e che, come Freud, sono cresciuti con la letteratura dei grandi scrittori, con la filosofia tedesca – Schopenahuer, Schelling, Nietzsche – e, in particolare, con i grandi classici russi. Nella Russia dei primi due decenni del secolo scorso, del resto, “la medicina è una delle aree più progressiste del paese” tanto che “i medici dello zemstvo – la nuova classe medica sorta da strati sociali più vasti della borghesia – si preparavano consciamente a diventare mentori piuttosto che specialisti, dal momento che assumevano il compito di insegnante, confidente e consigliere del popolo” che intendevano servire.

E non è forse un caso che “l’entourage di Freud fosse popolato da intellettuali russi: fra essi Max Eitingon, suo stretto collaboratore, Lou Andreas Salomé, che appartiene alla sua stretta più ristretta, Sabine Spielrein, fautrice del concetto di pulsione di morte a cui si rifarà (non citandola) lo stesso Freud, Moshe Wulff, che conosce personalmente il maestro nel 1908 e di cui traduce le opere in russo e in ebraico” e molti altri ancora.   

Il connubio tra psicoanalisi e società russa inizia a incrinarsi con la rivoluzione d’Ottobre e con la successiva guerra civile. Ai sentimenti antigermanici e antisemiti che incominciano ad alienare la psicoanalisi in alcuni settori della Russia, si aggiunge un sentimento antiborghese che investe molti dei suoi principali interpreti e naturalmente il suo fondatore. Un aspetto controverso perché, come osservano diversi studiosi, Freud non fu solo il figlio di questa cultura ma ne fu anche il sovvertitore, di modo che non mancarono in Russia sostenitori di una sua conciliazione con la lotta contro il mondo borghese che vide non pochi psicoanalisti abbracciare convintamente la rivoluzione comunista, mentre altri, osteggiarla e scegliere la via dell’esilio.

D'altronde se Lenin si dichiarava diffidente di questa “disciplina fiorita sul letame della società borghese”, sua moglie Nadežda Krupskaja, da sempre dedita alla pedagogia e ai problemi dell’infanzia, considerava “prezioso il materiale che riguarda la traduzione degli impulsi subconsci in consci, in quanto è di straordinaria importanza per i nostri compiti pedagogici” e Trockij, nel suo Letteratura e rivoluzione del 1923, sonda la possibilità di conciliare psicoanalisi e materialismo marxista e successivamente, in un capitolo di La cultura del periodo di transizione, scritto tra il 23 e il 26,  afferma che “il tentativo di dichiarare la psicoanalisi inconciliabile col marxismo girando le spalle al freudismo è troppo semplice o, più precisamente, semplicistico” – affermazione che, dati i noti e tristi sviluppi del destino politico e privato del principale oppositore di Stalin, finì per non giovare alla diffusione della psicoanalisi.

Sorvoliamo per motivi di spazio su altre figure politiche meno note che dibatterono su questi temi per ritornare al rapporto tra letteratura russa e psicoanalisi. Leggendo il libro si scopre come diversi psicoanalisti russi, rimasti in patria o fuggiti in esilio, scelgano di illustrare la loro pratica a partire dall’analisi dell’opera dei classici della letteratura russa. Non di rado ad essa si accompagna un’interpretazione psicoanalitica degli autori che possiamo definire “selvaggia” ma che dobbiamo riconoscere come particolarmente pertinente se applicata al materiale psicoanalitico – sogni, atti mancati, attacchi di panico, allucinazioni, comportamenti disfunzionali di carattere masochistico, sadismo, complessi edipici e nevrosi in generale – dei protagonisti delle loro opere, come del resto fece in diversi casi lo stesso Freud con la Gradiva di Jensen o con lo stesso Dostoevskij. Nikolaj Osipov, Tat’jana Rosenthal, Ivan Ermakov e Fedor Dosužkov, tutti psichiatri e psicologi pionieri della psicoanalisi in Russia, faranno ampio riferimento a questo materiale per cercare di rendere maggiormente accoglibile questa disciplina dal popolo russo e per cercare di renderla maggiormente compatibile con il regime comunista sostenendo, in diversi punti, che la letteratura russa abbia in qualche modo anticipato le teorie di Freud non solo sull’esistenza dell’inconscio – che com’è noto non è certo il padre della psicoanalisi a scoprire – ma anche su alcune dinamiche terapeutiche che lavorano sul suo materiale, come la sublimazione, l’interpretazione dei sogni e la dimensione terapeutica dell’arte in generale, con citazioni di pagine di letteratura davvero suggestive. Del resto, come mostra l’epigrafe di Freud posta dall’autrice a inizio libro, con la quale scegliamo invece di concludere questo nostra riflessione: “originariamente le parole erano magia e, ancora oggi, la parola ha conservato molto del suo antico potere magico. Con le parole un uomo può rendere felice l’altro o spingerlo alla disperazione, con le parole l’insegnante trasmette il suo sapere agli allievi, con le parole l’oratore trascina con sé l’auditorio e ne determina i giudizi e le decisioni. Le parole suscitano affetti e sono il mezzo comune con il quale gli uomini si influenzano tra loro”. Esse costituiscono dunque il terreno comune a tutte le culture, lo strumento per confrontarci e provare a capire anche mondi apparentemente lontani e diversi.

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