Sergio Zavoli, maestro di giornalismo

13 Gennaio 2024

Sergio Zavoli è stato il miglior giornalista nella storia della RAI. Nato a Ravenna nel 1923, ma riminese d’adozione, in ogni caso sangue romagnolo, apparteneva alla stessa generazione dei consanguinei Federico Fellini, l’amico di una vita a cui dedicò vari programmi, e Tonino Guerra. Tributò il giusto onore ai due Alfredi romagnoli, Oriani e Panzini, ma soprattutto a Giovanni Pascoli, il cui impasto di socialismo e cristianesimo si specchia nel titolo della precoce autobiografia, Socialista di Dio (1981), che Zavoli diede alle stampe nel periodo in cui fu presidente della RAI (1980-86), forse anche alla ricerca di un’impossibile equidistanza tra DC e PSI, il partito che lo aveva candidato ma che restò insoddisfatto dalla sua indipendenza politica. Lo ricorda la biografia di Massimo Emanuelli, Sergio Zavoli. Maestro di televisione, stile e linguaggio (Gammarò, 2023). Come tanti ragazzi della sua generazione fu affascinato dal giornalismo, conosciuto attraverso la lettura del Corriere della Sera che il padre portava a casa tutte le sere.

A quell’epoca e per tutto il Novecento diventare giornalisti significava essere testimoni del proprio tempo, vivere nel presente nella speranza di una vita piena di avventure. Fu il destino di Zavoli. Nel primo dopoguerra fu notato da un funzionario della RAI che passava per Rimini mentre faceva una sorta di radiocronaca di una partita di calcio e venne invitato a presentarsi negli studi di Roma. Fu Vittorio Veltroni, il padre di Walter, a riconoscerne il talento e a dargli i primi rudimenti del mestiere in un periodo in cui la radio era il medium dominante. La voce morbida ed educata, l’eloquio forbito, un’autorevolezza conquistata sul campo, lo segnalarono come un nome su cui puntare nella RAI che aveva come modello la BBC e il suo slogan: inform, educate and entertain.

Tre regole a cui Zavoli si attenne per tutta la vita a partire, negli anni Cinquanta, dai documentari radiofonici, un genere che, se non inventò, certamente mise a punto. Gli esempi più noti sono Notturno a Cnosso (1953), firmato insieme a Giovanni Battista Angioletti, un viaggio nei misteri della civiltà micenea che precorre la divulgazione “alla Piero Angela”, e  Clausura (1957), che fu la prima occasione in cui un microfono entrò in un monastero di suore di clausura. I documentari sono debitori al neorealismo nel modo in cui sono raccolte le voci della gente di strada che si mescolano al commento. Nuovo è l’uso del silenzio, utilizzato come una forma di sintassi. Per la RAI una risorsa come Zavoli, che oltretutto era di bell’aspetto, non poteva fatalmente che passare alla televisione che, a partire dagli anni Sessanta, soppiantò non solo la radio ma anche il cinema come luogo centrale di creazione del nostro immaginario. Fu accanto a Enzo Biagi, di cui condivise il socialismo riformista, nel periodo in cui diresse il telegiornale con il programma “meno politica, più cronache del Paese”.  Biagi durò alla direzione del telegiornale un paio d’anni (1961-63), poi si dimise stufo delle ingerenze della politica.

L’avvento del centro-sinistra, nello stesso 1963, complicò in realtà la vita ai direttori dei telegiornali. Nel frattempo era nato il Secondo canale, ma un’invenzione di Biagi, RT, Rotocalco Televisivo (1962), un settimanale d’inchiesta e di approfondimento, aprì la strada a un giornalismo più critico e al successivo Tv7. Quest’ultimo, nato nel 1963, ebbe la sua stagione d’oro nella RAI in bianco e nero del presidente Ettore Bernabei, democristiano di ferro di osservanza fanfaniana, ma che seppe mantenere una sua indipendenza operativa. Oggi gli anni della sua presidenza (1961-1974) sono ricordati come l’età dell’oro nelle varie storie della televisione, forse condizionate dal fatto che i repertori che passano e ripassano in Tv mostrano il meglio del meglio dell’epoca aurorale del nostro declinante presente. Il contributo di Zavoli fu notevolissimo in almeno due filoni. Inventò il Processo alla tappa (1962) che condusse per tutto il decennio, creando di fatto il talk show televisivo. Infatti, al termine di ogni tappa del Giro d’Italia, corridori, giornalisti, addetti ai lavori, inscenavano un polemico salotto che divenne, a partire dall’utilizzo della lingua italiana (una conquista recente per molti), una rappresentazione dell’eterno Strapaese alle prese con le trasformazioni del boom economico. Diverse le tecnologie qui utilizzate per la prima volta come la moviola, gli ampex, la telecamera mobile al seguito della corsa.

Zavoli regnava sovrano au-dessus de la mêlée, attento però alle ragioni di tutti e pronto a rendere epos ogni spunto di cronaca. Il successo fu clamoroso, imitato e parodiato nei decenni a venire. L’altro programma dove rifulse la sua bravura professionale fu TV7. Lo stesso Zavoli si è antologizzato a bocce ferme in Diario di un cronista (2001), interamente disponibile su Raiplay. Fanno davvero impressione le circostanze in cui fu presente: a Lavarone dopo la tragedia del Vajont, nel Belice scosso dal terremoto, mentre incalza, allora non si usava, Emilio Colombo dopo l’alluvione di Firenze. Notevolissima anche la serie di incontri, da Albert Scheiwtzer ai gerarchi nazisti, a Saul Steinberg, per lui un mito giovanile incontrato sulle pagine del «Bertoldo». All’epoca si girava ancora in pellicola e Zavoli è davvero un autore quando ricostruisce la retata degli ebrei romani del 16 ottobre 1943 in Piazza Giudia (1963),  oppure un maestro di costume quando ritrae il custode della tomba di Dante. Come i migliori giallisti aveva un forte senso dei luoghi e sapeva scegliere bene le facce dei testimoni, così come nel montaggio serrato riusciva a dare un senso di immediatezza ai suoi servizi. Uno degli esempi più celebri, che oggi ha acquisito il valore di documento storico (ma non è l’unico), è l’incontro con Franco Basaglia (1968). Si potrebbe continuare a citare a lungo, tanto più che sono anni in cui l’Italia cambia vorticosamente.

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Finiscono tradizioni millenarie, al contempo una buona parte della popolazione si riscatta dalla miseria e accede ai diritti di cittadinanza anche attraverso la pedagogia della televisione, prima di diventare un popolo di consumatori guardando Carosello. È difficile tracciare un bilancio tra i molti meriti e le innegabili colpe di quella RAI, allora e sempre legata agli interessi dei partiti. Lo stile di Zavoli è inconfondibile, tanto che un collega come Carlo Mazzarella gli affibbiò il soprannome di “commosso viaggatore”, mentre Furio Colombo è il “premio snobel”, Emilio Fede “Sciupone l’Africano”, a causa di una leggendaria nota spesa consegnata in viale Mazzini dopo una trasferta nel continente nero (non sappiamo se alle falde del Kilimangiaro), per usare una terminologia dell’epoca.

Nel 1972, il cinquantenario della marcia su Roma offre a Zavoli l’occasione di tracciare un bilancio su cosa sia stato il fascismo nella storia patria. L’austera scenografia in bianco nero, dove è mostrata la ‘macchina’ della televisione, diventa il confessionale dove autorevoli esponenti del fascismo e dell’antifascismo raccontano la loro versione dei fatti. Le domande di Zavoli sono fuori campo e, attraverso il montaggio, riesce a costruire un ritmo interno efficacissimo. Tra le molte testimonianze spiccano quella di Rachele Mussolini e di Amedeo Bordiga che accettò di parlare per la prima e ultima volta in tv in quanto ammiratore del Processo alla tappa. La trasmissione ebbe anche dei detrattori, come Sergio Saviane, l’affilato critico televisivo di «L’Espresso», che criticò l’eccesso di consulenti storici che coprivano l’intero arco costituzionale. Una cautela da parte di Zavoli che aveva imparato a muoversi con passi felpati nei corridoi di viale Mazzini. Nel 1976 divenne direttore del Gr1 e poi dal 1980, come ricordato, presidente della RAI.

Dalla sua aveva l’autorevolezza conquistata in oltre trent’anni di carriera e un modello giornalistico in cui fatti e opinioni erano metodologicamente disgiunti. Ritornò alla professione giornalistica, la voglia di capire e far capire era nella sua natura. Fu a Chernobyl nel 1987 dove incorse in un brutto incidente automobilistico, ma soprattutto firmò il suo capolavoro, La notte della Repubblica (1990), accuratissima inchiesta sugli anni di piombo, ancora oggi il miglior strumento storiografico per comprendere la natura del terrorismo e una delle poche occasioni in cui gli italiani furono messi davanti a uno specchio a fare i conti con se stessi. Nell’ultima fase della sua carriera sono da segnalare almeno Viaggio nel Sud (1992) e Nostra signora televisione (1994), ma i suoi programmi erano ormai confinati in seconda serata, pur non avendo perso nulla della loro urgenza. Divenuto un uomo di istituzioni, fu più volte eletto senatore dove esercitò con un naturale senso delle istituzioni il compito di presidente della commissione di vigilanza RAI.

L’ho incontrato una sola volta a Civitavecchia per un premio di ambito televisivo. Parlò per ultimo, aveva già passato i 90 anni (morì nel 2020 a quasi 97 anni). Fui colpito dalla calda eloquenza, dall’ars retorica, nel rievocare la sua lunga carriera. Era vestito di bianco, aveva una naturale eleganza e il vigore di un uomo molto più giovane. Le sue parole mi fecero pensare a La grande proletaria si è mossa (1911), il discorso del romagnolo Giovanni Pascoli, data di nascita di un nazionalismo che ci portò a immani sciagure, ma che allora entusiasmò tutti, come Zavoli in quella sera di luglio. 

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