Teatri nella Grande Mela

30 Gennaio 2014

Si fa presto a dire New York. 
I turisti zomboidali, i taxi gialli, i saldi tutto l'anno. Il saccheggio selvaggio ai grandi magazzini Macy's nel Black Friday; l'isolamento da cuffie e cellulare nella metropolitana; la scacchiera di Street e Avenue del Midtown che profuma di cinnamon alla cannella e caldarroste; Chipotle e Mc Donald's, Sturbucks e Eataly, lo Street food, il finger food, il bagel con creme cheese, i pancake, la pizza by slice; il jazz e il blues nei locali notturni del Village, il sabato pomeriggio a Central Park, il brunch della domenica mattina; il Moma di venerdì che è gratis, il Met se rimane tempo; i portieri eleganti di Madison Avenue, la maratona, Halloween, il Columbus Day, il Veterans Day, il Thanksgiving Day.

 

"New York" è una tautologia spuria, un significante che è già referente senza passare per l'arbitrarietà di un significato: dice se stesso direttamente, per osmosi sommaria con l'immaginario che si porta dietro. Un immaginario svelto, che macina spot pubblicitari, serial televisivi, scene hollywoodiane e residui di Sogno Americano studiato sui libri, in una centrifuga metropolitana sull'orlo permanente di una deflagrazione pop.

 

Il lessico famigliare del palcoscenico

 

Poi si va a teatro. E per chi il teatro lo frequenta d'abitudine, è come fare un passo indietro rispetto al precipizio, tornare a casa e ritrovare tutto al proprio posto: la vertigine diviene compita, lo sgomento straniante degli esterni si seda nella quiete dell'interno familiare. L'occhio ritrova un punto di fuga, riabilitando gli schemi dei meccanismi usuali di percezione e decodifica. In breve: si sa, finalmente, dove e come guardare. E non è perché a abitare la scena, capitano, qui è là, un po' di formazioni italiane: in autunno, tra gli altri, il Teatro Patologico di Roma al La MaMa con Hamlet Hallucinations e la Compagnia Sineglossa ospite del Queer Festival.

 

Ph. Rossella Menna

 

È perché il teatro contemporaneo tutto poggia su identiche concrezioni emotive e filosofiche, declinandosi in innumerevoli diversi tentativi di corrosione di una realtà che l'artista occidentale, quasi per contratto, individua come putrefatta e corrotta, irrimediabilmente scollata da una profondità molto più ripida e stratificata; un al di là, un oltre, che sensibilmente intravede e praticamente persegue applicando alla ricerca il proprio filtro creativo. Nella maggior parte dei casi limitandosi al rimpasto di elementi estratti da quella stessa realtà con sovrascrittura o innesto di inedito dispositivo estetico, più raramente attraverso l'abbeveraggio a un immaginario meno sostanziale, più intimo - e talvolta, proprio in quanto tale, universale - che genera facilmente prodotti confusionari, slabbrati ed ermetici oppure, e in tal caso parliamo di capolavori, meravigliosi deliri.

 

Ci si sente quindi a casa, tanto di fronte alle abusatissime scene di gruppo che partoriscono lirismi scadenti e alle lezioncine semplificate di filosofia storia ed economia di A (micro) history of world economics, danced (firmato Pascal Rambert) in cui un gruppo nutrito di persone "comuni", arruolate in loco, si alternano, in quadri coreografati alla buona, alle 6 lectures di teoria economica di Éric Méchoulan, professore all'università di Montréal prestato al teatro, quanto davanti alla straordinaria danza solitaria di Maureen Fleming, allieva del maestro di Butoh Kazu Ohno, in scena con B.Madonna. In programma a ottobre, entrambi, allo storico teatro off-off La MaMa E.T.C.

 

Ph. Sandra Zea

 

Ci si sente rassicurati dalla cornice teatrale perfino quando durante il Queer New York International Arts Festival, un trans croato, Ivo Dimchev, offre polvere da inalare e denaro vero al pubblico per scrivere poesie improvvisate, ballare il tip tap, baciarsi e fare sesso vero in scena, giocando, sotto bandiera della modaiola "audience participation", con l'ingenuità dello spettatore; costringendolo, attraverso una macchina scenica ben congegnata che fa sembrare (grazie a un calibrato crescendo di richieste azzardate) tutto plausibile e accettabile, a rinunciare a tutti i tabù, a rovesciarli, inconsapevolmente, nel loro esatto contrario. Teatro luna-park, in fondo, di quel genere che non ci siamo fatti mancare neppure in Italia.

 

Alcuni esempi, a caso, per dire che lo spettatore che intraprenda un viaggio teatrale a New York immaginando di scoprire urgenze diverse dalle proprie e forme originalissime resterà certamente deluso.
Non avrà altra scelta, se proprio non può farne a meno, che placare la propria fame di esotismo culturale catalogando le tendenze, quelle sì, riconoscibili e peculiari, in quanto fisiologicamente determinate da contesti spazio-temporali precisi, registrando un gusto meno spiccato per il decadente o annotando sul proprio taccuino, come se non ci avessero già pensato a sufficienza schiere di studiosi, una certa vivacità della drammaturgia contemporanea.

 

Ricalcolo dell’itinerario: dal palcoscenico al foyer

 

Ma si ruoti per un momento e di pochissimo la prospettiva, dal palcoscenico al foyer, dal prodotto al processo, e l'improvvisato antropologo teatrale scoprirà una ben più interessante geografia da mappare.
Le vere differenze rispetto all'orizzonte nostrano, infatti, le si individua osservando la struttura organizzativa, le forme di gestione delle attività culturali, i numeri, le modalità promozionali, i contratti.

 

Programmi alla mano, allora, ci si lancia in un fitto tour autunnale attraverso le decine e decine di teatri off e off-off, per disegnare una cartina degli spazi più vitali che si estende da Manhattan a Brooklyn, dal Public Theater al Bam, facendo tappa al La MaMa, all'Abrons Art Center, e al Ps122; ma anche al The Kitchen, al Dixon Place, al New York Theatre Workshop, al Playwrighthorizons, e al The Bushwick Starr. Senza dimenticare, per chi ama il teatro in forma di libri, la preziosissima New York Public Library for the Performing Arts alla Lincoln Center Plaza.

 

Ph. Rossella Menna

Si scopre subito che andare a teatro costa quasi meno che andare al cinema (tra i dieci e i venti dollari), ma anche che al Segal Center sulla Quinta Strada tutti gli spettacoli sono gratuiti, o che al St. Ann's Warehouse vedere Nemico del Popolo di Ostermeier costa quanto una poltrona in platea all'Opera in Italia. Perché, senza tener neppure conto del circuito indipendente di Broadway, è all'interno dello stesso teatro di prosa che si consumano le fratture più evidenti.

 

Si impara ad approfittare delle innumerevoli possibilità di sconto sui biglietti, partecipando ai tantissimi sorteggi, o inserendosi nelle liste di stand by line che consentono di accedere a spettacoli che costano anche 80 dollari, in forma gratuita, se qualche minuto prima dell'inizio vi sono posti inoccupati. La politica dei biglietti a New York è all'insegna del "Tutto, purché non si lascino poltrone vuote".

 

Ci si abitua a vedere spettacoli alle sette di sera nei giorni feriali e a ora di pranzo la domenica. E a trattenersi in teatro dopo lo show, per il rito della reception, a bere vino scadente e chiacchierare in maniera informale con gli altri spettatori e tutti gli attori della compagnia.

 

Festival d’autunno

 

Si rimbalza da un festival a un altro. Cinque solo in autunno, quasi tutti negli stessi luoghi, per tessere fili tematici diversi all'interno della medesima rete di teatri, di musei e di pubblico. Il prestigioso Crossing the Line a settembre è seguito a ottobre dal Prelude Festival a cura del Martin E. Segal Center, contenitore di anteprime ridotte degli spettacoli in preparazione di alcune tra le più importanti compagnie newyorchesi. Novembre è dedicato, invece, per tre settimane, a Performa, festival delle arti performative internazionali e al neonato e trasgressivo Queer New York International Arts Festival.

 

Tutto rivolto alla danza contemporanea, invece, il Next Wave Festival ospitato dal BAM di Brooklin. Nell'attesa che sia gennaio quando va in scena la rassegna di maggiore richiamo: Under the Radar, festival che importa il meglio da tutto il mondo e riporta in città le compagnie newyorchesi più affermate, da The Foundry Theatre al Nature Theatre of Oklahoma, tanto per citare qualche nome noto delle edizioni passate.

 

Ph. Rossella Menna

 

A guardare un calendario tanto ingombrato si tira pure - paradossalmente - un sospiro di sollievo perché, a volerlo davvero, è possibile vedere tutto; se in Italia, infatti, il blocco lungo di repliche è inesistente o appannaggio dei Teatri Stabili, a New York gli spettacoli restano in cartellone a lungo in quasi tutti gli spazi off-off. Dalle tre settimane al La MaMa a mesi interi al Public Theater, dove, se in scena ci sono compagnie New York-based, chiudere nelle date previste è più l'eccezione che la regola. Un vantaggio anche dal punto di vista dell'attenzione della stampa: i giornalisti, infatti, Ben Brantley del “New York Times” incluso, riescono a vedere e dunque a recensire molti più lavori (quasi tutti!) perché dati i tempi lunghi di replica le date difficilmente si sovrappongono.

 

Fare rete: per un ecosistema delle arti a New York

 

Scavando ancora più a fondo, poi, si scopre che se fino a qualche tempo fa il sistema americano non prevedeva compagnie stabili, oggi è in atto un proliferare di gruppi, che sfruttando i vantaggi dell'arretratezza - per usare una metafora economica - azzardano il doppio passo, costituendosi non solo in compagnie ma facendo anche rete tra di loro. Durante una spedizione a Brooklin, sulla facciata di un building al 138 di South Oxford Street si intravede la scritta "South Oxford Space - Alliance of Resident Theatres/New York". E si scopre così che nello stesso palazzo, con un cartellino da timbrare la mattina, e un tabellone delle attività che consente ai visitatori (per lo più addetti ai lavori, in verità) di muoversi tra sale prove e uffici, coabitano 20 compagnie tra cui i New York City Players di Richard Maxwell, i Civilians, e l'America Opera Projects. Lo spazio fa parte di una rete che fa capo all'organizzazione A.R.T. New York, alliance of resident theatres la cui mission è sviluppare idee per costruire un "ecosistema" delle arti a NYC.
E si fa un po' meno presto a dire "New York" quando l'immagine da cartolina della metropoli esplosiva e alienante si riassorbe tutta nell'istantanea di una sala prove condivisa.

 

Conversazione con Mia Yoo del La MaMa / Le Albe a NYC

 

Fondato negli anni ‘60 da Ellen Stewart e assurto a simbolo dell'intero mondo off-off dell'East Village newyorchese, La MaMa E.T.C. è un teatro ormai in corso di storicizzazione ma ancora oggi nel pieno della propria attività, con una programmazione tra le più fitte della città.

 

Due anni fa, alla morte della Stewart, la carismatica Mia Yoo, artista di origini coreane allevata appunto nelle schiere del La MaMa, ha ricevuto in eredità, per preciso volere della stessa fondatrice, la direzione artistica del teatro situato nel mezzo della leggendaria East 4th Street. Le sue parole, in quanto direttore di un teatro che è stato protagonista assoluto della storia del Teatro off-off Broadway e allo stesso tempo alle prese con problematiche attuali di ordine artistico economico e gestionale, tracciano il profilo di un'intera area teatrale newyorchese, entrando nello specifico del sistema di sovvenzioni americano.

 

Ph. Rossella Menna

 

Ellen Stewart ha intessuto negli anni rapporti molti stretti con l'Italia, al punto da fondare, notoriamente, anche una "succursale" in Umbria. La MaMa è dunque lo spazio newyorchese che apre con maggiore frequenza le porte agli artisti italiani. Dal 30 gennaio al 16 febbraio ospiterà infatti Rumore di acque del Teatro delle Albe, in italiano con sovratitoli.

 

Per l'occasione è nata anche una pubblicazione del testo in traduzione inglese a cura di Thomas Simpson. La première americana dello spettacolo si inserisce all'interno di un ampio e articolato progetto della compagnia ravennate che ha già avviato in questi giorni un workshop americano della non-scuola e che farà poi tappa in New Jersey e a Chicago.

 

Signora Yoo, che cosa significa ricevere in eredità la direzione di una struttura come La MaMa, che è già a pieno titolo parte di un processo di storicizzazione e museificazione eppure ancora nel pieno delle proprie attività e per di più nel segno, dichiarato, della sperimentazione?

 

Innanzitutto non posso dire di esser partita da zero e di essere ancora all'inizio, perché credo che il mio lungo percorso accanto a Ellen abbia avuto un peso importante. La sua straordinaria visione delle cose consisteva, per quanto riguarda il nostro rapporto, proprio nel coinvolgermi nei progetti in un modo tale che io non provassi mai la sensazione di stare facendo qualcosa che non fossi in grado di fare. Ho ricevuto una eredità, certo, e provo a onorarla e rispettarla il più possibile, cercando di restare in contatto con la missione e la visione originari di questo luogo, a un livello profondo. Penso a questa eredità nei termini del lavoro quotidiano che devo portare avanti. Sono qui proprio per questo: per lavorare. E cerco di farlo, giorno dopo giorno, passo dopo passo, senza sentirmi ossessionata dalla questione del testamento morale. Il lascito di Ellen è più simile a una idea interiore che mi porto dentro in sottofondo.

 

Altrimenti credo sarebbe un peso insostenibile per me perché sono una perfezionista e odio fallire i miei obiettivi. In un certo senso era così anche Ellen: "Bold and fierce and fearless". Lei mi ha insegnato a superare le mie inibizioni personali: ci sono delle cose che devi fare, praticamente. Devi provare, vedere come vanno e poi andare ancora avanti, verso il tentativo successivo. Ed è quello che sto cercando di fare adesso qui. Ma se mi rifà la stessa domanda tra venticinque anni, forse, avrò un'idea più precisa di cosa abbia significato ricevere questa eredità.

 

Quale equilibrio, in termini di scelte artistiche, sta provando a stabilire tra passato e presente?

 

Certamente mi interessa mantenere il legame col passato perché chi siamo adesso dipende da dove veniamo e quello che siamo ora plasmerà quello che saremo. Da dove veniamo, chi siamo e dove andiamo sono tre domande necessarie per me e per i miei collaboratori. La MaMa adesso ha 52 anni, e quindi è la casa di un vero e proprio tesoro di artisti che hanno lavorato qui per moltissimi anni. Allo stesso tempo è una culla per le nuove generazioni. A rendere speciale questo luogo è la convivenza, nello stesso teatro, di persone che hanno lavorato qui per decenni e artisti che presentano il primo spettacolo della loro vita. Non si tratta mai semplicemente di ospitare delle produzioni, ma di stabilire delle relazioni con gli artisti e tra gli artisti, di alimentare una comunità. È questo dialogo intergenerazionale che ci consente di restare legati al passato ma proiettati nel futuro.

 

Come nasce la stagione teatrale del La MaMa? A quale tipo di esigenza rispondono le sue scelte?

 

Ellen, in proposito parlava di "Beep!" (la mimica indica il lampo di genio). Io parlo di chimica. È necessario provare qualcosa di fronte a un artista e alla sua opera. Passione, necessità, urgenza, feeling con lo spirito del La MaMa. Il nostro è un lavoro eclettico, che si proietta in molteplici direzioni, che sperimenta molti stili. Nella scelta di uno spettacolo piuttosto che di un altro, molto dipende dal dialogo che si instaura tra uno dei nostri curatori e uno specifico artista. La "questione dei curatori" mi sta molto a cuore. I nostri collaboratori girano moltissimo anche grazie ai rapporti con numerose realtà internazionali, vedono tanti spettacoli e quando tornano sono sempre pieni di idee e di proposte. E credo sia meraviglioso questo network di incontri e conoscenze che Ellen ha avviato cinquant'anni fa e che è nostro impegno primario portare avanti. È difficile spiegare in termini precisi questo processo perché è molto articolato, e perché poggia su concetti astratti quali "feeling" e "chimica", complicati da descrivere. Quello che mi auguro, per il futuro, è di ridurre sempre di più il peso del direttore artistico nelle scelte e dedicare sempre maggiore attenzione alla questione della condivisione del potere decisionale, ampliando il team delle persone coinvolte nel processo di curatela rendendolo sempre più diversificato, così da diversificare sempre di più anche le tipologie di lavori presentati al La MaMa.

 

La MaMa è il primo teatro off-off Broadway, il primo spazio indipendente nato in contrapposizione a Broadway ma anche alla controfigura ammorbidita di quest'ultimo, definita off. Dopo la sua fondazione molti altri teatri dello stesso tipo sono nati velocemente, disegnando una geografia che dal Village si è poi allargata per includere nuovi spazi, ma anche nuovi significati, nel segno di una terminologia che ha dovuto ampliare, come spesso accade ai fenomeni in evoluzione, la propria raggiera di significati. Che cosa è cambiato nel tempo? Che tipo di relazione c'è, se c'è tra le varie realtà attive?

 

L'intera City adesso è piena di Teatri off e off-off, e basta dare un'occhiata ai programmi per vedere che molti dei miei colleghi collaborano, co-presentano, co-producono o comunque lavorano in partnership ai progetti. La situazione economica è complicata e ognuno cerca strategie proprie di sopravvivenza e di supporto al proprio lavoro, ma oggi, molto più di quanto accadesse quando io sono arrivata qui, si avverte la necessità e il senso del lavorare insieme. E credo che questo sia grandioso perché sono convinta di questa formula: "Se loro lavorano bene, noi lavoriamo bene". E' come una sorta di energia positiva che si propaga nel mondo Off-Off e che investe tutto il pubblico, sebbene sia diverso per ogni struttura.

 

Crede che il Village sia ancora il centro della sperimentazione di New York?

 

Non credo. I tempi sono cambiati, adesso ci sono tante realtà interessanti a Brooklyn o a Staten Island, per esempio, che stanno facendo un lavoro importante. Ma questo ha a che fare con un cambiamento generale, che riguarda tutto il mondo e tutti gli ambiti, non solo il teatro. Internet: la possibilità di essere perennemente connessi. Il nostro modo di esistere, la nostra relazione con lo spazio è cambiata. Adesso la gente non ha alcuna difficoltà a sapere che cosa succede in un teatro di Brooklyn, che tipo di lavoro si sta svolgendo etc… Prima non era così. Il radar dell'informazione e del passaparola copriva uno spazio molto più ridotto, e costringeva il pubblico più curioso a concentrarsi su certi spazi individuati come centri propulsori di novità. Adesso con i social media e internet è tutto diverso, e non è detto sia peggio. Io credo sia eccitante!

 

Il sistema teatrale newyorchese, e nordamericano in generale, differisce da quello europeo per molti aspetti. Consideriamo, per esempio, l'idea di "compagnia stabile". A New York ci sono pochissimi gruppi, e gli artisti lavorano per singole scritture. Come mai secondo lei?

 

Il sistema europeo, da questo punto di vista, è completamente diverso dal nostro. So che anche voi state attraversando un momento difficile a causa della crisi economica. Ma negli Stati Uniti la situazione, sotto l'aspetto artistico, è molto più complicata. Non ci sono praticamente mai fondi per creare delle compagnie autosufficienti. Capita che una serie di artisti decidano di lavorare insieme a un progetto, ma per lo più si tratta di episodi sporadici che durano il tempo di una singola produzione. In ogni caso, alcune compagnie esistono, e non è detto che non si sviluppino forme di organizzazione che si avvicinino al modello dell'ensemble europeo. Il panorama newyorchese, nello specifico, ha visto la nascita di un alto numero di gruppi, negli ultimi anni.

 

In termini molto generali, con quali forme di fund raising si sostiene il mondo off-off? Come funziona il sistema delle sovvenzioni? Quanto incidono sul bilancio gli interventi privati e quanto quelli pubblici?

 

Riceviamo dei fondi pubblici, che ovviamente non sono assolutamente sufficienti a coprire le spese di gestione. Gli interventi pubblici a favore del teatro sono di entità minima, per cui tutto il mondo off-off è alla continua ricerca di espedienti, anche molto creativi, per trovare denaro. Come i numerosi Galà che si organizzano per raccogliere fondi dai privati. Il sistema capitalistico, in qualche modo, rimborsa la società che lo alimenta, attraverso la creazione di numerosissime fondazioni no-profit che sono impegnate, a vari livelli, nella promozione di attività ritenute di pubblica utilità. Tra queste, le Arti tutte occupano una posizione di speciale rilievo, perché vengono riconosciute come settore in grado di produrre anche sviluppo economico in una città come New York, e dunque doppiamente incentivate dai privati.

 

Ph. Claire Pasquier

 

Possiamo avere delle anticipazioni sulla programmazione del 2014? Tra le compagnie ospiti al La MaMa ci sarà anche il Teatro delle Albe di Ravenna...

 

La compagnia arriverà a febbraio con un progetto importante e articolato, che prevede una serie di appuntamenti e un workshop della non-scuola guidato da Marco Martinelli con giovani partecipanti di tre scuole di New York: la Scuola d'Italia Guglielmo Marconi, La Guardia High School and Corpus Christi School of Harlem. Alla fine del laboratorio, impostato sui temi dell'emigrazione e della globalizzazione, sarà presentato al pubblico l'esito spettacolare del lavoro. Accanto a questo progetto, La MaMa ospiterà anche lo spettacolo Noise in the waters (Rumore di acque) con Alessandro Renda. Siamo davvero entusiasti di questa collaborazione. Già solo ospitare la pièce di questa prestigiosa compagnia italiana nei nostri spazi sarebbe stato speciale, ma quello che ci rende veramente orgogliosi è la possibilità di dare vita a un progetto tutto nuovo e più ampio, che si svilupperà qui, nella nostra città, attraverso la partnership con organizzazioni radicate nel nostro territorio. 


 

Rossella Menna

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