Teorie politiche del denaro

18 Dicembre 2023

Ora ne sono sicuro: dopo aver combattuto con questo libro per quattro settimane, riempiendolo di note a margine e di sottolineature, posso dire che c’è stata un po’ di cattiveria nell’affidarne la recensione proprio a me, che sono stato storico dell’economia in Banca d’Italia per 35 anni. La mia inclinazione naturale dovrebbe portarmi a guardare le banche centrali con un certo affetto, o almeno benevolenza, mentre il libro di cui devo discutere è aspramente critico nei loro confronti. Ora che devo scrivere, seguirò la mia inclinazione oppure, quasi per reazione e per mostrare la mia ferrea indipendenza, darò toppo spago all’iconoclasta Stefan Eich, che nel suo Teoria politica del denaro. Da Aristotele a Keynes (Treccani editore, 2023),

bastona con eguale energia politici, filosofi e banchieri centrali? Giudicherete voi, cari lettori, ma io vi ho messi in guardia.

In poche parole, la tesi di Eich (sviluppata in 440 dense pagine, che ci accompagnano dall’antica Grecia fino ai nostri giorni) è la seguente. Il denaro è politico, la sua gestione ha e ha sempre avuto conseguenze politiche: prezzi, salari reali, tassi di interesse, credito, investimenti, occupazione, rapporti internazionali ecc. Ma più volte, nella storia, qualcuno ha tentato di depoliticizzarlo, cioè di farlo apparire neutrale, non politico, gestibile in modo puramente tecnico. S’intende che si è trattato di manovre di oscuramento: il denaro resta politico, ma la sua politicità è occultata, in un modo o nell’altro. Occultando la sua politicità, lo si è sottratto alla critica, e anche alla democrazia. Primo modo di oscuramento: la teoria metallista del denaro, che prese piede nel XVIII secolo. Affermando che il denaro non è altro che una merce, questa teoria sottrae il denaro dall’ambito dei rapporti sociali e politici per consegnarlo al puro e semplice campo delle merci, della “natura”. Secondo modo di oscuramento: l’autonomia delle banche centrali, che si è affermata negli anni Ottanta del secolo scorso e vige tutt’ora (ci torniamo più avanti). Il bello è che i filosofi politici, anche quelli più acclamati a sinistra (per esempio Jurgen Habermas) si sono bevuti questa favoletta della non politicità e hanno rimosso il denaro dal loro campo di indagine. Conclusione di Eich: riprendiamoci il denaro, restituiamo il denaro alla filosofia politica, alla politica, e quindi alla democrazia.

Prima di addentrarmi nelle argomentazioni di Eich, vi dico subito che cosa gli opporrebbe un banchiere centrale dei nostri giorni, o anche un economista mainstream: le banche centrali, ormai da un trentennio, sono circondate – e meno male – da una barriera, una cortina di ferro che le isola dal mondo politico: questa barriera si chiama autonomia. Troverete in biblioteca qualche migliaio di articoli accademici che trattano di questo tema: in che cosa consiste l’autonomia delle banche centrali, fin dove arriva, con quali criteri si determina, la sua storia ecc. Il succo è che in mille occasioni e per molti secoli i governi di tutto il mondo hanno abusato della moneta, causando gravissimi disastri, cioè inflazione e iperinflazione, a volte deflazione, fino a quando ci si è risolti a chiudere la moneta in un cassetto e a consegnarne la chiave ai banchieri centrali, nominati dai governi ma non subordinati ad essi. Dove esiste l’autonomia, i governi e i parlamenti non danno ordini o istruzioni alle banche centrali, le quali manovrano i propri strumenti come meglio ritengono opportuno, nell’ambito delle leggi che le regolano. In tal modo la stabilità monetaria è garantita, perché i governi non possono usare la moneta a loro piacimento.

Ecco qua le due tesi brevemente esposte. Già qui un primo appunto si potrebbe fare ai banchieri centrali: dite che le leggi e gli statuti definiscono gli obiettivi da perseguire (che sono politici), e l’autonomia delle banche centrali consiste nello scegliere i mezzi per raggiungere quegli obiettivi. La cosa però si complica se gli obiettivi sono più di uno – per esempio stabilità dei prezzi e crescita economica – nel qual caso le banche centrali finiscono per dover fare delle scelte non solo tecniche, ma politiche in senso proprio. Nel corso degli ultimi due anni, per esempio, la BCE ha risposto ai rincari dell’energia importata “mollando” sul terreno della stabilità dei prezzi (e infatti abbiamo avuto un tasso di inflazione intorno all’8 per cento che non si vedeva da decenni) per non gettare l’economia europea nella recessione. Beh, risponde il banchiere centrale, questo dimostra che non siamo pazzi, pronti a sacrificare la vita delle persone al moloch della stabilità monetaria. Stabilità va bene, ma cum grano salis. Già, ritorcono gli altri, ma così ammettete di esercitare una funzione politica, eppure non siete eletti. Chi garantisce che il mix di politiche che voi seguite sia quello che il popolo vuole? Siete irresponsabili. E così via. 

Ma è giunto il momento di aprire il libro e di seguirne il filo. Tutti noi, dice Eich, siamo abituati a vedere il denaro come cosa puramente economica. La filosofia politica ha abbandonato il terreno del denaro agli economisti e agli storici del pensiero economico. Si è ritirata. Questo è il punto di partenza. Eich, che è un filosofo della politica (insegna “Government” alle Georgetown University), non accetta questa ritirata. E non accetta che questa ritirata sia stata dimenticata, anzi coperta, con l’effetto di far sembrare la non politicità del denaro una cosa ovvia e naturale. Egli rivendica il terreno del denaro alla teoria politica, e alla politica stessa. Il principio del suo contrattacco (perdonatemi la terminologia militare) consiste nello spiegare perché la filosofia politica abbia abbandonato il campo. La ritirata, anzi le ritirate, perché sono state due, come vedremo, sono l’effetto, spiega Eich, di una deliberata “politica della depoliticizzazione del denaro”. Il libro mostra questi processi di depoliticizzazione prendendola alla lontana: centra l’analisi sul pensiero di cinque grandi maestri – Aristotele, Locke, Fichte, Marx, Keynes – e sul lavorio che ha accompagnato sia la formazione, sia l’applicazione della loro opera. Non si tratta di “estrarre” dall’esperienza passata qualche ricetta. Si tratta invece di capire come si è plasmato, nel corso dei secoli, il nostro “sentire” sul denaro. Eich si paragona a un geologo che sonda il terreno (terreno intellettuale, naturalmente) per capire dove mettiamo i piedi. Chiama il suo libro (a p. 418) “un viaggio attraverso gli strati geologici sedimentati dalla storia della riflessione politica sul denaro”. Il nostro linguaggio, le nostre credenze in materia di denaro si fondano su molti strati di pensiero, che devono essere riscoperti per poter creare un linguaggio nuovo, e con esso un pensiero nuovo.

Dicevo dei cinque autori protagonisti: Aristotele, Locke, Fichte, Marx, Keynes. Subito uno di questi grandi ha attratto la mia attenzione: Fichte. Perché, francamente, mi dice ben poco, salvo vaghi ricordi liceali. Vi giuro che mai nessun economista di mia conoscenza lo ha nominato. Allora, attratto dal nuovo, ho approcciato quel capitolo per primo. 

Ed ecco la sorpresa: Johann Gottlieb Fichte (1762-1814), ignoto agli economisti, è il più radicale sostenitore della teoria statale della moneta che sia mai esistito. In breve: secondo la teoria statale, la moneta è un puro segno, che deve la sua accettazione universale a una convenzione, sancita dall’autorità dello Stato (anche quando ha valore intrinseco, oro o argento); invece secondo la teoria metallista, alla quale ho accennato sopra, la moneta è una merce come le altre (anche quando non ha valore intrinseco). L’opera di Fichte, del 1800, si intitola Lo stato commerciale chiuso. La maggioranza di noi economisti pensa che il padre degli statalisti sia un altro tedesco, Georg Friedrich Knapp, che dette alle stampe nel 1900 il suo Teoria statale della moneta. (Alcuni – e mi ci metto anch’io – danno invece il primato a un italiano, Ferdinando Galiani, che scrisse il suo Della moneta nel 1751). Ora, è evidente che ci troviamo nel bel mezzo di una questione cruciale: se la moneta è statale, siamo nel campo della politica; se è una merce, siamo nel campo della natura (parlo come parlerebbe un economista della fine del Settecento). Fichte, che teneva gli occhi bene aperti sui fatti del suo tempo, scrisse il suo saggio mentre la Gran Bretagna, per far fronte ai bisogni delle guerre napoleoniche, aveva sospeso la convertibilità della sterlina in oro. Molti prevedevano il disastro, perché un secolo prima Locke aveva instaurato il metallismo, aveva cioè attuato la prima delle manovre di occultamento della politicità del denaro. Si era così inchiodata nella mente degli Inglesi l’idea che il rapporto fra oro e sterlina stabilito un secolo prima fosse sacro e inviolabile come un giuramento. Invece ci fu una sorpresa: pur svincolata dall’oro, la sterlina di carta mantenne grosso modo il suo valore: il tasso di inflazione annuo durante il ventennio di guerra si aggirò intorno al 4 per cento. 

Fichte – che come sapete fu l’alfiere del nazionalismo tedesco – ebbe allora l’idea di radicalizzare il pensiero di Aristotele, secondo il quale moneta – nomisma – è nomos, è convenzione. Se il valore della moneta è frutto di una convenzione fra i membri della polis, allora lo Stato, avvalendosi del suo potere normativo, può decretare che qualsiasi cosa, opportunamente normata, è moneta, anche una cosa completamente priva di valore intrinseco. E può regolare la quantità di moneta in circolazione a seconda dei bisogni dell’economia, al fine di promuovere il benessere dei cittadini. Questo però vale fino ai confini dello Stato. Il problema sorge con il commercio internazionale: all’esterno dello Stato non sarà possibile estendere la convenzione che vale all’interno, perché le leggi dello Stato si arrestano ai suoi confini. Ed ecco allora la soluzione: lo Stato commerciale chiuso, che è anche il titolo dell’opera di Fichte. Abolire il commercio internazionale, in teoria. In pratica, ridurlo al minimo, e trasformarlo in un monopolio statale. Chiaramente, una proposta nazionalista-protezionista estrema; ma non è questo che ci interessa ora. Ciò che interessa è l’idea di una moneta completamente sottratta alle leggi delle merci, una moneta assolutamente statale. Si potrebbe anche dire moneta del popolo, se il popolo fosse correttamente rappresentato dallo Stato. Il che mostra con ancora maggiore evidenza che, con Fichte, siamo in pieno nel campo politico. 

Il capitolo su Marx non volevo leggerlo, avendo fatto un’abbuffata di Marx in anni passati. Invece l’ho trovato specialmente succoso. I conoscitori, diciamo, ordinari di Marx (fra cui me) non pensano che l’autore del Capitale si sia particolarmente interessato alla moneta in senso politico; e fra gli economisti ha pesato molto il giudizio di Schumpeter, il quale lo ha classificato, un po’ frettolosamente, fra i sostenitori del metallismo. In realtà si apprende, leggendo Eich, che Marx dedicò anni, e molte energie, allo studio del denaro, considerando seriamente le proposte dei socialisti utopisti, specialmente Proudhon, di “democratizzare” il denaro, di rendere in sostanza il credito disponibile a tutti. Ma poi giunse alla conclusione che tutte le proposte politiche riguardanti il denaro non erano che una distrazione rispetto al punto cruciale rappresentato dall’attacco diretto ai rapporti di produzione: il lavoro salariato. Ciò non significa però che Marx ritenesse inutile una critica del denaro, o che non apprezzasse la differenza fra una politica del denaro e l’altra. Fu per un motivo strategico, politico, e non filosofico, che i suoi ampi e laboriosi studi sul denaro non trovarono posto nel testo del Capitale e furono relegati in nota. Tutta la sua accurata analisi sul denaro la si trova ora in parte nei Grundrisse, in parte in quaderni che giusto ora si stanno pubblicando, in lingua originale, nell’ambito del progetto MEGA (Marx-Engels-Gesamtausgabe). Tutto questo per concludere che il pensiero marxista, forgiatosi sul Capitale, ha ritenuto la moneta poco rilevante politicamente, e ha in sostanza accettato, avallato la sua estromissione dalla sfera della filosofia politica. Così facendo ha frainteso Marx, che non era un metallista e comprendeva benissimo il senso e la portata di una politica del denaro. L’errore di Habermas è stato in parte favorito dalle letture marxiane.

È John Maynard Keynes, naturalmente, l’eroe di quest’opera. Economista ma anche storico, filosofo, distruttore di luoghi comuni e miti sulla moneta. Keynes toglie all’oro ogni sacralità, ricostruisce la moneta come fenomeno sociale e politico, e infine inaugura l’era della moneta gestita a vantaggio dell’economia, l’era della politica monetaria. Molte belle pagine sono dedicate a sfatare il presunto contrasto fra un Keynes nazionalista (una versione più moderata di Fichte) e il Keynes internazionalista, quello che si batté a Bretton Woods, nel 1944, per creare un ordine monetario internazionale ragionato, cooperativo, regolato al centro da una banca centrale delle banche centrali. Keynes percepisce acutamente il dilemma democrazia/tecnica, e cerca ansiosamente – tornando e ritornando suoi passi – una soluzione istituzionale che consenta di tenere la moneta nel campo della politica, delle decisioni politiche, e al tempo stesso di mettere al riparo questo strumento così delicato dai colpi di mano.

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“Per Keynes – dice Eich a p. 290 – la gestione della moneta traeva la propria legittimità dal patto politico implicito su cui si fondava anche lo Stato. Ciò nonostante, era separata dalla politica popolare”. Nonostante l’ottusità dei dirigenti della Bank of England, che sulle prime si rifiutano di riconoscere il potere che hanno fra le mani, Keynes ritiene che il compito di attuare la politica monetaria non possa che essere svolto da un organo fortemente tecnico, una banca centrale. Quando egli arriva nella sua opera maggiore, la Teoria Generale (1936), a definire la politica fiscale, nasce un nuovo animale, la politica macroeconomica, che combina insieme politica monetaria e politica fiscale: un paradigma che domina l’economia fino agli anni Settanta. Assai meno influente è invece il suo pensiero in campo internazionale: a Bretton Woods gli interessi degli Stati Uniti escono vittoriosi. Il dollaro, agganciato all’oro, è messo al centro del sistema, non si fa la moneta internazionale vagheggiata da Keynes, non si fa la banca centrale delle banche centrali. Il sistema così creato regge per trent’anni, ma le tensioni si accumulano fino alla rottura del 1971, quando Nixon dichiara che la convertibilità del dollaro in oro è finita. 

A questo primo sconvolgimento se ne aggiunge un secondo, la quadruplicazione del prezzo del petrolio. L’inflazione che ne segue diventa il fulcro attorno al quale si muovono economisti conservatori come Hayek, Friedman e i loro allievi per attuare una nuova depoliticizzazione del denaro. La politica monetaria viene castrata e le chiavi della moneta vengono consegnate alle banche centrali, alle quali si assegna il compito, ormai avulso da ogni controllo democratico, di garantire la stabilità monetaria.

Sento ora il dovere, prima di concludere, di spiegare a voi lettori perché ho accettato volentieri il compito di scrivere questa recensione (prima di rendermi conto che era una trappola, come ho detto all’inizio). Qualche anno fa, nel 2017, curai per l’editore Donzelli una nuova edizione di un vecchio libro di Marcello de Cecco, Moneta e impero (prima edizione inglese, 1974). È un peccato che Eich non citi de Cecco (salvo una piccola nota in cui si parla del sistema monetario indiano). Perché de Cecco, ormai mezzo secolo fa, ha esaminato e combattuto (decostruito si direbbe oggi) un mito del tutto analogo a quello preso di mira oggi da Eich: il mito del Gold standard internazionale, già preso di mira da Keynes in molti suoi scritti degli anni Venti e Trenta. Parliamo del sistema, ufficialmente fondato sull’oro, che funzionò tra la fine dell’Ottocento e la prima guerra mondiale. Un sistema che, dopo la sua morte, è stato innalzato dagli economisti liberisti a modello ideale, a modello automatico e “naturale” di riequilibrio degli scambi internazionali; onde matti e disperatissimi tentativi di restaurare quel sistema negli anni Venti e Trenta, e anche dopo. De Cecco analizzò il contesto internazionale del trentennio compreso tra la fine dell’Ottocento e la Belle époque, la decadenza industriale della Gran Bretagna, i suoi rapporti coloniali con l’India, per concludere che il Gold standard, ben lungi dall’essere un sistema “naturale” e imparziale di riequilibrio, fu null’altro che una politica, una politica attuata al fine di perpetuare il dominio della potenza imperiale allora egemone, la Gran Bretagna. Il lavoro di de Cecco, accolto con notevole scetticismo negli ambienti mainstream, ha lasciato una traccia profonda solo in alcune nicchie intellettuali, tanto è vero che si è dovuto attendere il 1992 – anno in cui vide la luce Golden Fetters, il libro di Barry Eichengreen (bello ma meno radicale di Moneta e impero) – per dichiarare morto, o almeno in coma, il mito del Gold standard. Insomma, posso dire di essere preparato ad accogliere con interesse l’opera di un autore che, come fece de Cecco negli anni Settanta, dichiara guerra a un falso mito monetario. Anzi, più precisamente, alla astuta depoliticizzazione di una politica.

Fortunatamente, il gold standard è solo un ricordo. La non politicità della moneta, invece, è attuale, ed è il bersaglio di Eich. Veniamo dunque alle sue proposte (le quali fanno parte di un vasto movimento: se siete curiosi, provate a digitare in rete “money public good”). La grande questione è la seguente: ammesso che riusciamo a democratizzare la moneta, a portarla esplicitamente nel campo della politica, e quindi della democrazia, come vogliamo utilizzare questo nuovo spazio politico? Per ottenere che cosa? Mi pare che i punti sollevati siano, in essenza, due. Primo, un credito più ampio, più accessibile. Secondo, una politica monetaria più attenta all’occupazione e allo sviluppo.

Cominciamo dal credito. Un credito “popolare”. Se questo è il punto, dobbiamo avere un minimo di consapevolezza storica. Ricordare il punto da cui è partito Marx. Non per arrivare alla sua stessa conclusione, e cioè che la battaglia sul denaro è periferica e svia dalla questione centrale, ma per renderci conto che questa battaglia è stata combattuta, e per molti aspetti già vinta (anche se spesso si fanno passi indietro), nella seconda metà dell’Ottocento dai continuatori del socialismo utopistico di Proudhon e di Saint-Simon. Le banche popolari, fondate prima in Germania da Hermann Schultze-Delitzsch, e poi in Italia da Luigi Luzzatti (negli Stati Uniti ci sono le credit union), sono appunto lo strumento per permettere al popolo di accedere al credito. Il continuatore di questa battaglia in Bangladesh, e in molti paesi in via di sviluppo, è Muhammad Yunus, premio Nobel per la pace nel 2006, che ha lanciato il concetto e la prassi del microcredito. La sua creatura, la Grameen Bank (banca del villaggio), pone una particolare enfasi sulla concessione di credito alle donne povere. Una delle ricette caldeggiate da Eich, permettere alle Poste di fornire servizi bancari, si applica in Italia dal 1875, quando nacquero le Casse postali di risparmio, mentre nel 2000 è nato il BancoPosta, che fornisce servizi di credito alla clientela. Un po’ mi ha sorpreso che Eich non citi questi “artigiani” della moneta, ma poi, pensandoci, ho concluso che la cosa aveva una sua logica: non si tratta di filosofi, e perciò la loro opera, per quanto sia il frutto ultimo di una filosofia, non è entrata nel radar del nostro autore. 

Nelle pagine conclusive del libro, Eich prende una posizione molto radicale: il denaro è un bene pubblico, ma abbiamo appaltato la sua erogazione a soggetti privati, le banche. La sovranità su un elemento chiave della nostra economia, il denaro, è uscita dalle mani del popolo ed è passata alla finanza privata. A questo punto, il mio amico economista mainstream salterebbe sulla sedia e griderebbe sdegnato: no, no, il denaro non ha nessuna delle caratteristiche che definiscono un bene pubblico. E qui farebbe una breve lezione sul fatto che i beni pubblici, nei libri di testo degli economisti, sono solo quelli che possiedono entrambe le caratteristiche della non rivalità e della non escludibilità. (Chi è curioso di capire che significa cerchi “beni pubblici” in rete). Ma qui bisogna intendersi. Gli economisti hanno tante qualità, ma non è detto che le loro definizioni debbano valere per tutti. Il senso di “bene pubblico” per Eich, è un altro. Per lui vuol dire “infrastruttura pubblica essenziale, che si regge sulla fiducia della generalità dei cittadini”. Quindi il discorso ha una sua logica. Il punto è vedere se il controllo politico può funzionare meglio rispetto all’assetto attuale. 

Allora mi sono ricordato dei miei studi di storia bancaria e monetaria. In Italia, per esempio, dopo i costosissimi salvataggi fatti dallo Stato a vantaggio delle grandi banche italiane nel 1933-36, il governo fascista decise che l’economia non doveva essere più ostaggio della grande finanza privata. Fu creato l’IRI che prese il controllo delle grandi banche. Fu approvata le legge bancaria del 1936 che decretava il credito essere una “funzione di interesse pubblico”, e pertanto non solo vigilato, ma controllato dallo Stato, attraverso un ente ad hoc, chiamato Ispettorato per la difesa del risparmio.

Le cose andarono poi un po’ diversamente da come il legislatore le aveva pensate. Negli anni immediatamente successivi alla promulgazione della legge lo Stato fece ben poco per esercitare la sua azione direttiva. In seguito, dopo la guerra, questa azione si limitò a favorire grandi progetti infrastrutturali (reti elettriche, autostrade) e a impedire certe operazioni “sgradite” (esempio, Sindona). Ma supponiamo che lo Stato avesse voluto usare in pieno i suoi poteri, come i partiti di sinistra chiedevano. Le cose sarebbero andate meglio? Non ne sono per niente convinto. Il lato negativo del controllo pubblico sul credito è questo: chi garantisce che la direzione scelta dallo Stato (e imposta a tutti) sia quella giusta, quella più fruttuosa per l’economia? Spesso il progresso richiede una visione, magari un coraggio, che il dirigente pubblico normalmente non ha, perché la struttura burocratica in cui vive non premia (giustamente) il coraggio, il rischio. Al contrario, la pluralità di fonti di credito private, e la concorrenza fra esse, permette (spesso) agli innovatori di trovare i mezzi per realizzare le proprie idee. Un sistema bancario pubblico può forse funzionare bene finché si tratta di accompagnare l’economia su una strada nota e sicura, come quando un paese arretrato tenta di copiare chi ha già adottato tecniche più avanzate, ma mal si adatta a una economia che deve trovare strade nuove.

Se invece vogliamo ripensare la politica monetaria, si potrebbero mettere in discussione gli obiettivi delle banche centrali. Per esempio definendo meglio il concetto di stabilità monetaria, oppure sottolineando maggiormente l’obiettivo della piena occupazione. Se guardiamo alle leggi scritte, attualmente la Federal Reserve americana ha questo obiettivo, alla pari con l’altro obiettivo della stabilità dei prezzi, mentre in Europa il Sistema delle banche centrali (del quale la BCE è il fulcro) dovrebbe guardare in primo luogo alla stabilità dei prezzi, e solo in seconda istanza all’occupazione. Si tratta, tuttavia, di una distinzione più formale che sostanziale: sia la Fed che la BCE hanno inondato il mondo di liquidità per fronteggiare la crisi finanziaria iniziata nel 2008, ed entrambe hanno sostenuto l’economia negli ultimi due anni. Certo, le banche commerciali non hanno fatto abbastanza per estendere all’economia il credito ricevuto dalle banche centrali: la critica è perfettamente legittima, e così i tentativi di rivalersi sulle banche con imposte straordinarie sui loro profitti. 

Eich non è economista né storico economico, e quindi non si spinge a dimostrare i benefici di una moneta gestita politicamente. Ciò che sostiene, e qui centra nel segno, è che l’inflazione degli anni Settanta (lo spauracchio dell’inflazione, anzi lo “schiamazzo” sull’inflazione) abbia convinto infine le rappresentanze politiche di tutto il mondo, assediate dalle lotte sociali, a cedere il potere monetario alle banche centrali. Citando Brian Barry (p. 397), si chiede: “E se anche fosse stato così, se anche l’inflazione fosse stata il prezzo delle lotte sociali, perché mai doveva essere proprio la democrazia a cedere?”. Già. Perché? Tutto il discorso di Eich, in linea con la sua collocazione politica radicale, è focalizzato sul disciplinamento. Come il sistema aureo internazionale disciplinava gli Stati, così la moneta forte (l’imperativo della stabilità dei prezzi) disciplina il corpo sociale: ognuno al proprio posto. Vi è sicuramente del vero, ma ci sono anche altre prospettive. In tutto il libro di Eich non si trova una parola sul danno che l’inflazione provoca ai meno abbienti, a coloro che sono meno difesi, i cui salari e i pochi risparmi si assottigliano fino a sparire in tempi di ascesa dei prezzi. Per non parlare del fatto che quando l’inflazione supera un certo livello (diciamo 30, 40 per cento) ogni ragionamento economico, ogni previsione di investimento diventa puro azzardo: vincono gli speculatori e perdono gli imprenditori. Sono questi i ragionamenti che portarono, negli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso, ad abbracciare l’idea di una moneta stabile, gestita da banche centrali che avessero un chiaro mandato in tal senso. Eich ha ragione quando sostiene che in tal modo i governi si sono liberati dalla responsabilità politica di dovere mantenere il punto, giorno per giorno, di fronte alle lotte sociali e alle richieste di maggiori interventi pubblici: “Non è colpa nostra, c’è la banca centrale indipendente”. Ma non sono certo che questo sia un male, almeno finché non si trova un altro sistema.

A parte queste considerazioni da economista, siamo davvero sicuri che, in principio, il controllo democratico si debba applicare a tutto, a ogni aspetto del vivere sociale? Il filosofo politico Eich sa benissimo che non tutto è deciso democraticamente. La giustizia non è democratica: non si vota in Parlamento se assolvere o condannare O.J. Simpson per omicidio. E la scelta religiosa non è democratica, giacché non si vota in Parlamento per determinare il dio al quale dobbiamo inchinarci. Democratica non è neppure la medicina: le ricette non le scrive il Parlamento. E son tutte cose, queste non democratiche, che hanno un impatto enorme sulla vita dei cittadini. La filosofia politica e il diritto hanno ampiamente metabolizzato, anzi teorizzato queste esclusioni. Le stesse costituzioni non sono forse un modo di fissare argini ideali e giuridici che reggano nel tempo, sottraendo certe questioni di fondo alle maggioranze fluttuanti? Sappiamo dunque, e lo sapeva Keynes, che la democrazia non è come l’etere di Maxwell, che pervade ogni cosa e perfino il vuoto. Esistono spazi entro i quali la democrazia non si esercita, o si esercita con procedure particolari, rafforzate. Perché la moneta non può essere uno di questi? Vantaggi e svantaggi devono essere accuratamente pesati. Del resto, lo stesso Eich dice (p. 433) che dobbiamo cercare di “rendere le banche centrali più democratiche in sé e insieme più indipendenti, ma non dalla democrazie bensì dal potere esecutivo e dai mercati finanziari”. Si riconosce, dunque, che il tema dell’indipendenza, almeno dai governi, è cruciale. 

Il mio viaggio è finito. Non vi è nulla di sacrilego nel ragionare su questa famosa autonomia dei banchieri centrali, nel pensare a modi diversi in cui la moneta potrebbe essere gestita. Ed è giusto puntare il dito contro lo strapotere della finanza, che è uscito praticamente intatto dal ciclone iniziato nel 2008 (le agenzie di rating, per esempio, continuano giulive a fare il bello e il cattivo tempo). Ma se vogliamo esplorare alternative, dobbiamo essere abbastanza convinti di non cadere dalla padella nella brace. Ciò detto, il viaggio di Eich nella storia del pensiero monetario è una lettura affascinante, originale, ampiamente documentata e veramente utile per ragionare sul futuro della moneta. 

Il libro, edito da Treccani nella collana Visioni, è ben stampato e bene impaginato, scevro di refusi. La traduzione dall’inglese è buona, nonostante qualche imperfezione che comunque non inficia la comprensione del testo. L’indice dei nomi è utile, ma sfortunatamente non comprende i numerosissimi autori citati nelle note.

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