Teresa Ciabatti. Il mio paradiso è deserto

9 Novembre 2013

“Di tutto il patrimonio che avevano, cosa gli è rimasto? Quel castelletto col borgo intorno, niente.” (Mia suocera)

 

E' questa la frase che apre il romanzo di Teresa Ciabatti Il mio paradiso è deserto, e che riassume con caustica e sintetica saggezza la vicenda al centro del libro. E' la storia dei Bonifazi, famiglia romana dall'enorme ricchezza e influenza.

 

Attraverso gli occhi prima di Marta, “la figlia”, quindi di Attilio, “il padre”, e infine di Pietro, “il figlio”, ci ritroviamo nel mondo dorato e ricchissimo che Attilio Bonifazi – il cosiddetto “Ottavo Re di Roma” – ha costruito per sé e la sua famiglia. A poco a poco però scopriamo il vuoto che questa opulenza cela e il nulla che lascia dietro di sé, come sentenziano le secche parole della suocera.
Il racconto si snoda attraverso i punti di vista dei personaggi, che si sostituiscono l'uno all'altro con una tecnica quasi cinematografica.

 

  



Marta Bonifazi, un tempo la bambina bionda e perfetta in adorazione del padre, è ora una ventenne obesa e cupa, incapace di uscire di casa. Ha trasformato quell'adorazione in un odio che si estende ad ogni cosa, al suo corpo, ai suoi amici, alla sua casa, alla sua vita. E' un odio distruttivo e autodistruttivo, che si sfoga in episodi violenti, che Marta non riesce a contenere.

 

La vediamo sparare, causare un incidente, distruggere oggetti, incapace di controllare la sua energia e la sua rabbia; e poi la vediamo, sola, piangere per il senso di colpa, per la paura, per l'insicurezza che continua a nascondere e che non riesce ad ammettere.

 

La Ciabatti ci fa lentamente entrare nella camera (buia, un rifugio e una prigione, anche se dotata di TV al plasma) dove Marta si rinchiude e ci fa gradualmente vedere oltre quella forza distruttiva. E' la delusione e la paura di una ragazzina troppo sensibile, che salvava gli animaletti feriti e che aveva paura di fare male alle rondini volando in aereo. E' la ferita mai rimarginata di una bambina che non riesce a crescere.

 

 

Diametralmente opposto e antagonista sembra essere il punto di vista che segue nel racconto, quello del padre Attilio. Mentre Marta guarda a lui come un nemico, lui la osserva come se non riuscisse a riconoscerla e capirla. “C'è qualcosa che desideri? Qualcosa che ti farebbe felice?” le chiede tentando di penetrare i suoi silenzi e i suoi malumori, e di riempirli con qualcosa – un viaggio all'estero o una palestra personale, per esempio. Marta ha, o potrebbe avere, qualsiasi cosa volesse; eppure non desidera nulla, priva di obiettivi o spinte.

 

Ma proprio quando sembra che le prospettive di Marta e suo padre siano così diverse da non potersi incontrare, scopriamo che l'oggetto della loro osservazione è esattamente lo stesso. Ironicamente, eccoli incontrarsi nella situazione più insospettabile, uniti dal medesimo desiderio segreto. Nel momento in cui tale segreto viene svelato, e scopriamo la grande bugia di Attilio, realizziamo quanto sia metaforico il suo impero costruito sulla spazzatura: sul rifiuto, sullo sporco, su ciò che tutti vogliono nascondere.

 

E' un'altra sorpresa ad aprire la penultima sezione del romanzo, quella narrata dal punto di vista di Pietro, il figlio maggiore. Apparentemente, è l'erede modello di Attilio: fresco di laurea ad Oxford, brillante e ammiratissimo, nasconde in realtà un'insicurezza parossistica e malata dietro enormi bugie. Incapace persino di uscire di casa, anche Pietro, come Marta, non riesce a liberarsi della sua infanzia, a cui ripensa ossessivamente. Questa incapacità di crescere unisce infine Attilio ai suoi figli: nessuno di loro è in grado di crescere, di maturare, di invecchiare. La sensazione di fine imminente e di paura accomuna tutti e tre i protagonisti, e la Ciabatti ce la fa vedere in modo vivido tramite l'immagine ricorrente delle voragini scure, delle cadute, nella cui profondità Marta, Pietro e Attilio si lasciano precipitare.

 

La storia dei Bonifazi sembra ben ritratta da questo vuoto. Il loro è un paradiso deserto: un mondo perfetto, ma vuoto e precario, intimamente minato dalla menzogna e dall'insicurezza. Un grande patrimonio di cui rimane solo “quel castelletto col borgo intorno, niente”. Il romanzo si chiude ritornando al punto di vista di Marta, dove l'unica prospettiva di salvezza possibile è la distruzione totale, il vero deserto.

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