L’Orda che cambiò il mondo

21 Febbraio 2024

«Se siete partiti da Venezia per recarvi nella capitale del gran qa’an in Cina e concludere degli affari, ascoltate questi consigli. Innanzitutto fatevi crescere una lunga barba. Una volta giunti in territorio mongolo, vi confonderete tra la folla come un mercante musulmano. Poi, oltre alle mercanzie, portate diverse centinaia di lingotti d’argento, che potrete cambiare in caso vi serva la valuta locale. Infine non prendete mai la Via del Sud. Preferite la Via del Nord. Il punto di accesso si trova presso il porto di Tana, alla foce del fiume Don. Lì ingaggiate un dragomanno, un traduttore, e sceglietene uno bravo, non importa quanto costi. Avrete bisogno di almeno due servi maschi che parlino qipchaq, la lingua più diffusa nell’Asia occidentale. In aggiunta, vi converrà prendere una donna, ma assicuratevi che anche lei parli la lingua (…) A Saraijuq scambiate i vostri cavalli con cammelli e proseguite per venti giorni con carri trainati da cammelli fino a Urgench. La città è uno dei principali crocevia commerciali della regione, e nei giorni di mercato la folla è talmente fitta che è impossibile aprirsi un varco a cavallo. Se volete vendere le vostre merci, questo è il posto giusto. La gente viene per comprare ogni sorta di mercanzia, soprattutto seta (…) Non preoccupatevi dei ladri: le leggi mongole tutelano i mercanti stranieri e puniscono duramente il furto…».

Queste note – qui parafrasate – furono scritte verso il 1335 da Francesco Pegolotti, un mercante fiorentino che soggiornò in diverse postazioni commerciali lungo le steppe asiatiche: una sorta di epigono di Marco Polo, di cui trovo notizia nel notevole, preciso libro di Marie Favereau, L’Orda. Come i Mongoli cambiarono il mondo (Einaudi, 2023). Nata in Francia nel 1977, Marie Favereau Domenjou insegna attualmente all’Università di Parigi Nanterre, dove conduce ricerche sulla storia dell’Impero mongolo. Un campo poco conosciuto, al di fuori degli specialisti, perché – ammettiamolo pure – degli antichi Mongoli chi mai s’interessa? Da secoli e secoli le loro “orde barbariche” non fanno più paura, il loro immenso impero si è dissolto, e il “giogo dei Tartari” – come lo definiscono i Russi – non grava più ai confini dell’Europa… Ma questo disinteresse – secondo Marie Favereau – comporta una grave carenza sul piano della conoscenza storica. Perché i Mongoli – come recita il sottotitolo del suo libro – hanno davvero “cambiato il mondo”, e lo hanno fatto non (solo) diffondendo terrore e praticando distruzione, bensì portando un sovrappiù di pace, ricchezze, e nuove forme di governo che hanno trasformato tutta la sterminata regione dell’Eurasia: enormi rivolgimenti geopolitici le cui conseguenze arrivano fino a noi, oggi, e di cui quindi faremmo meglio a prendere adeguata consapevolezza. 

Dalle steppe remote dell’Asia orientale dilagarono velocissimi fino all’Europa dell’Est. Giunsero inattesi, inarrestabili, come un’orda sorprendente, devastante, anzi come un’Orda d’Oro, secondo il nome che loro stessi si erano dati. In effetti la parola “orda” viene dal mongolo. Solo che per noi il termine ha assunto il significato negativo di massa scomposta e turbolenta, mentre in origine indicava una comunità, un popolo raccolto sotto un sovrano, un qa’an (da cui il nostro khan, o Gran Khan, o Grande Cane, come leggiamo nel Milione di Marco Polo). Il fatto è che queste comunità non erano stanziali, legate a un territorio, concentrate intorno a una capitale, a una rete di città. Popolo nomade per eccellenza, i Mongoli infatti si spostavano sempre, trasferivano con scioltezza i loro centri di potere e il loro sistema di governo nei nuovi territori che via via andavano conquistando, dopo aver travolto ogni forma di resistenza. 

Come dice con chiarezza Marie Favereau, «l’Orda non fu né un impero convenzionale né uno Stato dinastico, ancor meno uno Stato-nazione. Fu un grande regime nomade, nato dall’espansione mongola del XIII secolo, un regime equestre che divenne talmente potente da dominare praticamente tutto l’attuale territorio della Russia, compresa la Siberia occidentale, per quasi tre secoli». Un Impero non può essere governato a cavallo: così sostenevano gli antichi saggi cinesi, prima però di essere a loro volta conquistati e governati dai Mongoli. Ma come ci riuscirono? Come riuscirono a imbastire un Impero mongolo “mondiale” che teneva insieme tutta l’Eurasia, da Pechino a Mosca, dal deserto di Gobi all’Ungheria? Il segreto stava nel fatto che questa moltitudine di gente a cavallo non era affatto scomposta e puramente assetata di sangue (come invece è stata dipinta da noi, in Occidente). I Mongoli – e in particolare i qa’anati occidentali che occupavano le steppe fra il Mar Caspio, il Volga e il Mar Nero (quelli che poi si autoproclamarono Orda d’Oro) – seppero creare «un’organizzazione sociale sofisticata in grado di sostenere la propria costituzione imperiale»: un regime flessibile, adattabile, capace di trasformarsi, di adeguarsi alle particolarità dei vari Paesi sottomessi, così da coinvolgere e cooptare nel loro sistema di scambio e di amministrazione le popolazioni che entravano a far parte dell’Impero. 

Qui si nascondeva il loro straordinario segreto, l’inedito meccanismo che permetteva a tutta l’immane macchina imperiale di funzionare con efficienza. I Mongoli non volevano rapinare, massacrare, schiacciare popoli e paesi, bensì cooptare, sedurre, produrre scambi e distribuzione di saperi, merci, denaro e tecniche, così che alla fine tutti finissero per esserne avvantaggiati. Ovviamente non cedevano il potere – questo rimaneva saldamente in mano ai qa’an – ma per l’amministrazione dei territori e la raccolta delle tasse preferivano affidarsi ai potentati locali, facilmente coinvolgibili grazie alle esenzioni fiscali e ai privilegi che venivano loro concessi. Il sistema funzionava perché la sua finalità non era quella di rapinare, ammassare ricchezza, ma di ridistribuirla, farla circolare, in modo che tutti, anche gli strati più bassi della popolazione imperiale, potessero goderne. E non si trattava solo di ricchezza materiale. 

Nota infatti la nostra autrice, in un passaggio affascinante che vale la pena riportare per intero: «Lo scambio mongolo è un passaggio monumentale che facilitò il fiorire dell’arte, lo sviluppo dell’artigianato e il progresso della ricerca in vari campi, quali la botanica, la medicina, l’astronomia, i sistemi di misurazione e la storiografia. L’aumento della produzione e della circolazione degli oggetti lavorati, spesso dovuto agli stessi leader mongoli, è un altro effetto importante di questo fenomeno di portata mondiale. Ceramiche, manoscritti, tessuti, musica, poesia, armi: i Mongoli volevano che ogni cosa fosse prodotta e distribuita all’interno dei loro territori. Inoltre importarono beni e attuarono politiche di attrazione dei mercanti. I qa’an tenevano i mercanti in gran conto, e concessero loro onorificenze, privilegi giuridici ed esenzioni fiscali. I nomadi investivano in attrezzatura da viaggio, armi e abiti alla moda, e desideravano pellicce, cuoio e lussuosi tessuti d’importazione di seta e cotone. La steppa aveva i propri indicatori sociali impliciti, alcuni dei quali richiedevano attività di manifattura e commercio: portare armi costose era segno di prestigio, e lo stesso valeva per gioielli, cinture, copricapi, abiti eleganti, scarpe di cuoio».

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Questa politica di circolazione delle merci e delle persone, su lunghissime tratte commerciali che dal Mediterraneo arrivavano fino in Cina e viceversa, era ovviamente resa possibile da una fondamentale caratteristica geografica dei territori imperiali: si tratta infatti di immense distese pianeggianti, solo a volte interrotte da fiumi e catene montuose. Pascoli della steppa velocemente percorribili a cavallo su lunghissime distanze. Create dapprima per esigenze militari, queste pianeggianti vie erbose furono presto riconvertite in piste commerciali, strade carovaniere, costellate da città e caravanserragli, da fiere, mercati, centri religiosi di tutte le fedi, che fra il Duecento e il Quattrocento permisero lo stupefacente sviluppo dello scambio mongolo. Ma proprio questa così fitta rete di scambi portò, verso la metà del Trecento, alla prima, gravissima crisi del sistema stesso, preludio al successivo crollo del grande Impero. 

Nel settembre 1343, una banale rissa di strada nel centro mercantile di Tana (presso il delta del Don) vide coinvolti un capo mongolo, Hajji ‘Umar, e il nobile mercante veneziano Andreolo Civran. Quest’ultimo, per vendicare l’offesa ricevuta, massacrò ‘Umar con la sua famiglia. Il locale signore mongolo Jani Beg ordinò allora l’espulsione immediata di tutti i numerosi mercanti veneziani, genovesi, fiorentini e pisani dalle loro basi commerciali sul Don e sul Mar Nero. Gli occidentali corsero a rinchiudersi nella potente, fortificata città genovese di Caffa (oggi Feodosia), in Crimea. Le trattative per una soluzione benevola della contesa non andarono a buon fine, i Mongoli istituirono un blocco commerciale e assediarono Caffa. Ma proprio durante questo assedio – così riporta la cronaca del notaio piacentino Gabriele de’ Mussi – scoppiò tra le truppe mongole un’epidemia devastante. Decimati dalla malattia, i guerrieri dell’Orda d’Oro pensarono comunque di poter trarre vantaggio dal morbo esiziale catapultando membra di cadaveri infetti oltre gli spalti della fortezza. Esausti e in preda al panico, gli assediati abbandonarono la città alla volta di Costantinopoli e poi del Mediterraneo. Fu così che la micidiale peste nera arrivò dall’Asia fino in Europa. 

Secondo Marie Favereau il racconto di de’ Mussi è da ritenersi in buona parte una falsificazione, sia perché i Mongoli avevano presto capito che il contatto con corpi infetti avrebbe innanzitutto messo a rischio le loro stesse vite, sia perché lo smembramento e il lancio di cadaveri costituiva un oltraggio inammissibile per il rispetto dovuto ai loro guerrieri. Ma anche se questa ricostruzione di come il contagio si diffuse in Europa non è del tutto attendibile, resta il fatto che, a partire dal 1347/48 la peste nera, dopo aver colpito l’Asia, devastò l’Europa intera e l’Africa settentrionale, diffondendosi innanzitutto lungo le rotte commerciali che univano l’Impero mongolo con gli Stati occidentali. E resta il fatto che la causa principale di questo flagello va ricercata proprio negli scambi mercantili creati dall’Orda d’Oro. 

La Yersinia pestis, il batterio all’origine della peste nera, era già da tempo diffuso tra gli animali selvatici della Siberia. E lì probabilmente sarebbe rimasto confinato per sempre, se i Mongoli non avessero aperto pure un fiorente, vastissimo commercio di pellicce lungo la Via del Nord. Proprio il contatto ravvicinato e ripetuto con marmotte, volpi, visoni e altri animali dal pelo pregiato permise così il passaggio del batterio dal mondo selvatico agli umani, secondo un meccanismo simile a quello ipotizzato per la diffusione del Covid19, il quale, dalle carni di pipistrelli e pangolini venduti nei mercati di Wuhan, sarebbe poi dilagato per la Terra intera. Solo che i progressi della medicina contemporanea hanno permesso un rapido contenimento del Covid19, mentre il disastro della peste nera, oltre ad annientare più di metà della popolazione euroasiatica, portò a una crisi generale delle strutture sociali. E a risultarne colpito in modo quasi irreparabile fu proprio l’Impero mongolo. Le rotte commerciali vennero rapidamente interrotte, molte fiorenti città e centri carovanieri si deteriorarono in modo irreparabile, le strutture di comando su cui si reggeva l’Impero entrarono in una fase prolungata di profonda instabilità. La dinastia mongola degli Yuan, che governava la Cina, venne travolta dalle rivolte popolari, provocate sia dai dissesti dell’epidemia sia da un susseguirsi di inondazioni disastrose. Piuttosto che resistere, i Mongoli preferirono abbandonare le terre cinesi, secondo il motto: “Quando siamo forti possiamo invadere, quando siamo deboli possiamo ritirarci”. Una strategia tipicamente nomade, resa possibile sia da un territorio sterminato come la steppa, privo di confini nazionali precisi, sia da una forma di sovranità decentrata in base alla quale i qa’an, invece di risiedere in un’unica capitale, si mantenevano sempre in movimento, così che il centro del potere mongolo si spostava con loro. La perdita della Cina, di conseguenza, era per loro soltanto una ritirata tattica, senza effettiva perdita di sovranità. 

Ma il lento collasso dell’immenso Impero mongolo era ormai cominciato. Persa la continuità imperiale che dalla Cina si spingeva fino all’Europa, le ulus, le varie comunità politiche in cui l’Impero risultava suddiviso, si allontanarono via via le une dalle altre, mentre la successione dei vari qa’anati divenne sempre più precaria, e segnata da conflitti interni. La ulus più potente, e anche la più capace di rinnovarsi, si rivelò proprio l’Orda d’Oro, insediata nelle steppe occidentali, fra l’attuale Kazakistan, la Russia e le regioni del Mar Nero. Ma anche qui le cose non riuscivano a stabilizzarsi. Dopo aver trasformato in vassalli i nobili russi, dopo aver favorito lo sviluppo stesso della Russia, grazie ai commerci e all’edificazione di nuove città, ecco che i Mongoli dell’Orda d’Oro dovettero fronteggiare le prime ribellioni di questi stessi russi, non più disponibili a versare tributi ai loro sovrani orientali. Nella primavera del 1480 (dunque più di cent’anni dopo la crisi iniziale della peste nera), il granduca di Mosca, Ivan, si accampò con le sue truppe lungo la riva del fiume Ugra, per fronteggiare l’esercito del qa’an Ahmad, che esigeva il pagamento delle tasse e il riconoscimento da parte russa della propria sovranità. I due eserciti rimasero fermi senza combattere, l’uno di fronte all’altro sulle due sponde, per ben sei mesi, finché, d’improvviso, Ahmad ritirò le truppe, chiamato in tutta fretta a sopprimere una nuova ribellione scoppiata nel Sud-ovest. Per i Mongoli si trattava di una delle solite ritirate tattiche, ma i Russi la presero come una loro vittoria. Il “grande fronteggiamento sul fiume Ugra” venne in effetti reinterpretato dagli storici di Mosca, più di cent’anni dopo, come l’evento che pose fine al “giogo tartaro”. Ma sul momento il granduca Ivan, supposto vincitore sulle rive dell’Ugra, non rigettò con questo la propria collocazione all’interno della sovranità mongola, perché era dall’Orda d’Oro che Ivan stesso faceva derivare la propria legittimità dinastica. 

Facciamo attenzione a questa che pare solo una sottigliezza diplomatica e formale. Verso la metà del secolo successivo, dopo aver conquistato la valle del Volga, quando l’Orda d’Oro era ormai irrimediabilmente indebolita, il gran principe di Mosca Ivan IV, o Ivan il Terribile, assunse per primo il titolo di zar, o imperatore. Ma lo poté fare sulla base dell’antico principio della translatio imperii, vale a dire l’idea che la legittimità di un nuovo impero non può nascere dal nulla ma deve derivare dal precedente, una volta che questo è caduto. I Russi, insomma, ritenevano di aver ereditato dall’Orda d’Oro la sovranità imperiale, poiché quest’ultima si era ormai dissolta. Nasceva così l’imperialismo russo, destinato ad affiancarsi ai nuovi imperi coevi e successivi: l’Impero cinese, ottomano, poi britannico, francese… Tutti imperi fra l’altro impegnati – come ben sappiamo – a preservare e celebrare la loro memoria, i loro fasti. E i Mongoli invece?

Come mai dello stupefacente impero Mongolo, della sbalorditiva Orda d’Oro non ci si ricorda quasi più, malgrado la potenza economica, culturale e politica che in tre soli secoli aveva rivoluzionato l’Eurasia? La risposta la troviamo nel carattere stesso della sovranità nomade. Gli imperi a cui noi guardiamo come imprescindibile fondamento della nostra civiltà (Atene, Roma, Costantinopoli, ma anche Pechino…) erano imperi stanziali, che nelle diverse capitali trovavano il centro visibile della loro legittimità. La magnificenza architettonica dei palazzi (e quindi, nei secoli successivi, la magnificenza delle rovine) diventava dimostrazione manifesta della loro potenza, che andava ad assommarsi alla grandiosità delle loro opere letterarie. I Mongoli invece, proprio perché nomadi, proprio perché centrati su una cultura preminentemente orale, non lasciarono né straordinari documenti letterari né sublimi monumenti architettonici. Le loro città, per quanto importanti per il commercio e l’amministrazione, erano costruite in terra e legno, addirittura prive di mura e fortificazioni, sulla base del principio che chi erige torri lo fa perché ha paura. E i Mongoli non avevano mai paura. Semmai terrorizzavano gli altri, qualora non fossero stati disponibili a sottomettersi… Ma in questo modo non ci hanno lasciato monumenti eclatanti, magnifiche rovine su cui meditare. E così, oggi, chi si ricorda più dell’Orda d’Oro? Eppure faremmo bene a farne memoria, perché anche loro furono capaci di una forza di sviluppo globale non inferiore a quella degli altri imperi. La loro eredità sembra sulle prime difficile da individuare, eppure vive ancora in tutti i Paesi dov’erano arrivati.

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