Métraux e la nostalgia del neolitico

2 Gennaio 2024

Ma noi oggi di cosa abbiamo nostalgia? Esiste per noi, in questi ultimi anni, un’altra epoca, un altro mondo a cui guardare con desiderio e appunto nostalgia, perché in quell’altrove scorgiamo un inesauribile orizzonte di senso, un’appassionante riserva di significati capace di orientare le nostre vite? Un po’ come lo era il “desiderio delle Indie” per i giovani gesuiti italiani che, nel Cinquecento, anelavano essere inviati in missione laggiù: «Ogni volta che io sento a nominare quelle benedette Indie mi cresce talmente questo desiderio che mi pare d’essere in paradiso (…) L’Indie, l’Indie, là son tirato (…) Al sol sentir nominar Indie mi sento saltar il cuore dal petto» (Gian Carlo Roscioni, Il desiderio delle Indie. Storie, sogni e fughe di giovani gesuiti italiani, Einaudi, 2001). E in effetti tante volte, in passato, ora la Grecia antica, ora l’Oriente, o il Rinascimento, o i Mari del Sud, o anche la Gerusalemme celeste o l’era messianica, si sono presentati all’una o all’altra generazione come quella prospettiva – al tempo stesso linea di fuga e fonte originaria – cui fare costante riferimento per dare corpo al presente e nutrirlo di passione. Ma oggi? Non è che oggi, troppo assillati dalle istanze e dalle ansie di una soffocante attualità (la crisi ambientale, le nuove guerre, i rivolgimenti demografici, gli algoritmi della comunicazione digitale…) ci ritroviamo totalmente schiacciati sul presente? Non è che rimaniamo prigionieri di un “presentismo” talmente onnipervasivo da renderci incapaci di guardare a un mondo altro (mitico o reale che sia) in grado di dare più ampio respiro ai nostri giorni? 

Faccio queste riflessioni mentre vado leggendo il considerevole, documentatissimo, appassionante libro di Renzo Guolo, Una salvezza impossibile. Alfred Métraux tra antropologia e vita (Meltemi, 2023). Guolo è docente di Sociologia della religione all’Università degli Studi di Padova, e aveva già dedicato altri libri ai grandi protagonisti dell’etnologia francese: I ferventi (2021), e Michel Leiris etnologo (2022). In rapida sequenza esce ora questo suo ampio testo dedicato a uno dei più straordinari etnografi e antropologi del Novecento: Alfred Métraux (Losanna, 1902 – Chevreuse, 1963). Celebre per le sue meticolose ricerche sul campo tra le popolazioni indigene dell’America meridionale, per i suoi testi sull’Isola di Pasqua, il vudù haitiano, gli Incas, Métraux ha insegnato in Francia e negli Stati Uniti, ha lavorato per le Nazioni Unite e l’Unesco, impegnandosi a fondo nella lotta al razzismo. Ebbene, nel 1961, “ormai a fine carriera” – così ci racconta Guolo – viene pubblicata sulla rivista “L’Homme” (diretta da Claude Lévi-Strauss), un’intervista in cui Métraux si dilunga sulla propria vocazione di antropologo e sulla conseguente spinta alla ricerca etnografica fra popolazioni di altri continenti. E qui troviamo una riflessione illuminante che vale la pena riportare per intero: 

La maggior parte degli etnografi, soprattutto quelli che hanno lavorato sul terreno, sono, in una misura o nell’altra, persone che non si sentono a proprio agio nella loro civilizzazione. Questo carattere oggettivo è così evidente che si è cercato di vedervi ciò che distingue l’antropologo dal sociologo. Certo, le loro discipline sono connesse, ma l’antropologo si sente a disagio nella propria società, mentre il sociologo ci si trova bene e cerca di cambiarla.

Ma facciamo attenzione alle conseguenze di questo ragionamento. Rievocando le sue prime esperienze sul terreno – fra gli indiani del Chaco argentino e boliviano, sul finire degli anni Venti – Métraux precisa i suoi sentimenti: in quel contesto esotico «mi sono sentito estremamente a mio agio e molto meno spaesato che nella mia civilizzazione». Percepiva infatti intorno a sé un diverso modo di vivere, un ritmo più lento: «gli individui che avvicinavo non soffrivano dei problemi che ci opprimevano tutti, e questo costituiva per me una specie di quiete». Dopodiché Métraux aggiunge un’osservazione capitale, utile proprio per il nostro interrogativo di partenza sulla nostalgia di un altrove:

 

Questa presa di contatto con altre civilizzazioni primitive mi ha fatto sentire che, in fondo, la protesta che mi aveva spinto verso civilizzazioni molto lontane dalla nostra, trovava la sua ragione in una sorta di nostalgia, una nostalgia che noi, uomini d’Occidente, avevamo, credo, avvertito in ogni tempo e che io chiamo, con un termine forse buffo, ma che voglio rimanga tale, nostalgia del neolitico. Mi sembra, senza cadere in un rousseauismo facile, che l’umanità abbia forse sbagliato a spingersi oltre il neolitico.

Nostalgia del neolitico! Ma perché mai, che senso può avere? In quell’epoca – precisa Métraux – l’agricoltura e l’addomesticamento degli animali permettevano il relativo benessere di piccole comunità che però non soffrivano della divisione del lavoro e della gerarchizzazione sociale conseguente all’invenzione delle istituzioni statali. E questo stile di vita – aggiunge – non differisce molto da quello delle tribù indiane dell’Amazzonia e della Bolivia. Andando fra di loro infatti, lui ha percepito «il soffio del neolitico» e ha avuto «la sensazione che gli uomini che vivono in quelle condizioni materiali siano più felici di noi». Infatti l’esistenza di queste piccole comunità offre «una sicurezza infinitamente superiore a quella che noi sperimentiamo nella nostra civilizzazione (…) l’uomo che avanza verso la vecchiaia non ha le preoccupazioni, i timori, che assalgono gran parte dei nostri contemporanei. Un anziano ha un posto ben definito, sa cosa deve fare, gode di autorità e rispetto, può fare apprezzare la sua esperienza (…) nessuna fase della vita si presenta con il carico di inquietudini che vediamo tra noi».

  Di conseguenza, questa impellente, costante “nostalgia del neolitico” ha significato per lui, fin dagli anni giovanili, vivere con il ricorrente desiderio di lasciare il “mondo civile” e spingersi nelle foreste alla ricerca dei “selvaggi”. Non per assimilarsi a loro, ovviamente, ma per conoscerli, imparare la loro lingua, comprendere la loro organizzazione sociale, i loro riti, i loro miti. E quindi farsene rigoroso e rispettoso testimone. Una vocazione totalizzante – la sua, come quella di tanti altri etnologi del Novecento – che però si è fin da subito scontrata con un problema enorme, e tormentoso. Il mondo dei “selvaggi” infatti non era affatto stabile, identico a sé stesso e disponibile a essere “studiato” nella sua autenticità, da un decennio all’altro. Occorreva al contrario fare presto, anzi prestissimo, perché quelle fragili società – prive di difese nei confronti della modernizzazione occidentale – si stavano disgregando, stavano dissolvendosi a velocità angosciosa.  

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Proviamo a dirlo in altri termini. Con il Novecento si diffonde tra gli antropologi la consapevolezza che entro la fine di quello stesso secolo sarebbero scomparse per sempre le ultime tribù dei “primitivi”. Quei famosi “selvaggi” con arco e frecce – quei pagani che credevano ancora negli dèi, vivevano in capanne di paglia e magari mangiavano i vicini – stavano per congedarsi definitivamente dall’umanità. Eppure proprio queste culture arcaiche sono state le uniche a sorreggere l’umanità per decine di migliaia di anni. Se si pensa che la civiltà, così come la concepiamo, ebbe inizio appena cinquemila anni fa in Mesopotamia (con l’invenzione della scrittura e dello Stato), e che solo da pochi secoli essa si è diffusa in tutto il globo, ci si potrebbe anche chiedere se lo stile di vita “primitivo” non fosse a noi più confacente della vita civile, visto che l’umanità l’aveva adottato quasi ovunque e tanto a lungo. In ogni caso – aggiungevano questi antropologi del secolo scorso – ora che le ultime popolazioni tradizionali se ne stavano andando, noi non possiamo esimerci dal chiedere: qual è l’insegnamento che da loro ereditiamo? Qual è la sapienza che ci possono trasmettere, insieme al lascito delle loro cerbottane, delle loro maschere incantevoli, dei loro miti stupefacenti? Per saperlo non c’era che una cosa da fare: andare tra i selvaggi, rimanere insieme a loro, studiare e comprendere le loro usanze, ma anche guardare i loro volti, respirare l’aria dei loro villaggi. È quest’aria irripetibile infatti quella che si sarebbe irrimediabilmente dissolta, è la luce dei loro sguardi ciò che le ricerche etnografiche avrebbero dovuto documentare. Perché proprio qui, nell’atmosfera dei villaggi persi nella giungla, nei gesti dei loro abitanti seminudi, si celava quell’eredità destinata a tutti noi, e della cui preziosità noi occidentali ci rendiamo conto a stento.

Simili considerazioni permeano in profondo il vissuto personale di Métraux. E lo spingono a elaborare, già all’inizio della sua attività di ricercatore, quella che lui stesso denominerà una «antropologia del salvataggio», protesa – come dice bene Guolo – a «fissare memoria, storia, lingua, religione di popolazioni e società indigene destinate alla sparizione, o all’omologazione, per effetto dell’incontro con la cultura occidentale». Ma sentiamo a questo riguardo le parole stesse di Métraux (scritte ancora nel 1935):

Dobbiamo realizzare un’opera di salvataggio. I primitivi vanno scomparendo in tutto il mondo, documenti umani di immenso valore si perdono giorno dopo giorno. Quelli che si sforzano di salvarli non sono molti e devono lottare soprattutto con la mancanza di mezzi per realizzare le loro inchieste e anche per pubblicarle. 

Dunque, dalla “nostalgia del neolitico” si passa al “salvataggio” di questo stesso mondo neolitico. Facciamo attenzione a tale collegamento. Perché è evidente che lo studio etnologico, rigoroso e scientifico del mondo arcaico, così da “salvarlo” almeno sotto forma di lascito documentario, di testimonianza scritta e pubblicata – destinata a rimanere nelle biblioteche e nei musei dell’Occidente, una volta che quel mondo sarà scomparso – va di pari passo con l’anelito personale a raggiungere i primitivi e a vivere insieme a loro, in modo da dare finalmente un senso pieno alla propria vita. Il che è come dire che l’antropologia del salvataggio si rivela non solo una forma di salvezza per il lascito dei popoli tradizionali, ma anche come una via di salvazione personale, di rigenerazione individuale per l’etnologo che – come appunto Métraux – lascia la soffocante, asfittica vita occidentale e va a rigenerarsi nel contatto con le credenze religiose e le tradizioni del mondo arcaico. 

Questa stessa idea di una “rinascita individuale”, di una palingenesi spirituale dello studioso che entra in rapporto con le mitologie antiche la troviamo espressa anche da un grande storico delle religioni come Mircea Eliade. In un magnifico testo del 1978, La prova del labirinto. Intervista con Claude-Henri Rocquet (Jaca Book, 1990), Eliade sostiene che la storia delle religioni è «una disciplina liberatoria», una «saving discipline» che lascia affascinato, stupefatto e come rinato chi a essa si dedica. Qualcosa di simile, in effetti, era accaduto anche a Métraux e al suo grande amico, oltre che stimato collega, Michel Leiris quando si erano dedicati allo studio sul campo dei riti di possessione vudù: alla vista di uomini e donne che cadevano in trance perché invasi dallo spirito di un dio, i due scettici antropologi non potevano ovviamente credere all’esistenza reale degli dèi di Haiti. Eppure simili riti erano risultati per loro «spettacoli appassionanti (…) Non soltanto costituivano una ricca materia di ricerca, ma era emozionante vedere persone che per alcune ore dimenticavano la loro condizione generalmente misera per incarnare gli dèi che riverivano. Per gli occidentali più o meno rigidi che noi restavamo, era confortante vedere quelle cerimonie (…) di ebbrezza mitologica della trance» (Leiris). A propria volta Métraux, nel corso degli anni e delle sue ricerche, confermerà di essere sempre stato animato dal medesimo desiderio: provare l’emozione esaltante e vitale di trovarsi a contatto ravvicinato, diretto, con un mondo religioso alieno e a lui però accessibile solo in veste di osservatore e ricercatore. 

Ma c’è una differenza fondamentale rispetto a Eliade. Quest’ultimo, che pure era stato in gioventù fra gli yogi dell’Himalaya e le popolazioni tribali dell’India, non aveva più sentito il bisogno di condurre ulteriori ricerche sul campo, perché il suo ambito di ricerca era l’ermeneutica religiosa: una disciplina praticabile rimanendo, diciamo così, “a casa”, cioè dedicandosi alla lettura e al confronto di testi scritti. Solo attraverso tale studio assiduo, infatti, era possibile cogliere per Eliade il riemergere, il riproporsi da un’epoca all’altra, da una cultura all’altra, di quegli stessi simboli cosmici (l’albero della vita, la fonte dell’eterna giovinezza, l’omologia tra luna, fecondità e risurrezione…) che nutrivano da sempre lo spirito umano. Scoprire il ripresentarsi di un simile mistero, attraverso i testi sacri dell’una o dell’altra religione, era appunto per Eliade una fonte di vita e di esaltazione spirituale. E da qui allora l’idea della storia delle religioni come via di salvezza. Non così per Métraux, invece, la cui esperienza salvifica e rigenerante era data non già dalla rielaborazione teorica e a posteriori delle sue ricerche etnografiche (che pure conduceva con estremo rigore scientifico), bensì dal contatto diretto, e indefessamente ricercato, con le popolazioni tribali. Ma perché?

Perché Métraux doveva combattere fin dalla giovinezza con una devastante tendenza depressiva e autodistruttiva, che riusciva a trasfigurarsi in euforica esaltazione solo grazie alla ricerca etnografica, quindi non sui libri, bensì sul campo: «Ho forse un cuore timido e una paura terribile della vita. Reagisco a questa paura in modo meccanico: eccesso di erudizione, viaggi in luoghi lontani, mettendo sempre barriere tra me e il mondo. Se mai diventerò un grande studioso sarà a causa della mia paura». Un simile devastante sconforto non lo ha mai abbandonato. Nemmeno quando un «grande studioso» lo è diventato davvero. Generoso con gli altri, privo di invidia, era capace ad esempio di affermare con convinzione questa entusiasta previsione relativa al suo più giovane collega Claude Lévi-Strauss: «è lui l’uomo del futuro» (sottinteso: non certo io che ho sempre combinato poco…). Se poi andiamo a vedere i ritratti fotografici di Métraux, scopriamo un uomo dall’aria seria e assorta, quale potrebbe essere uno scrupoloso professore di filosofia d’altri tempi. Ma il suo sguardo, anno dopo anno, rimane appannato da un velo di malinconia e di irredimibile mestizia. Facciamo allora un confronto con le fotografie che ritraggono invece Lévi-Strauss; esaminiamo soprattutto il celebre ritratto che, per l’agenzia Magnum, gli scattò Henri Cartier-Bresson: ed eccoci di fronte a uno studioso severo e realizzato, profondamente convinto di sé stesso e della propria eccezionale intelligenza, con un sorriso appena accennato di divertita ironia e di luciferina malizia. Lui, «l’uomo del futuro», appunto, capace di attraversare a testa alta tutti i drammi della vita (anche grazie all’aiuto di Métraux!) per superare infine fra gli onori addirittura la soglia dei cent’anni… E Métraux invece? 

Giunto al varco dei sessant’anni, si ritrova forzatamente pensionato e impedito a compiere ulteriori ricerche etnografiche. Cade allora in preda a uno sconforto non più controllabile. L’11 aprile del 1963 si spinge da solo fino a un luogo appartato nella valle di Chevreuse, a sud di Parigi, e lì ingerisce una dose esorbitante di barbiturici. Mentre si va spegnendo, etnologo fino in fondo, prende nota su un quaderno delle sue stesse reazioni: ricorda le donne che ha amato e gli amici più cari, rievoca la morte di Socrate, fa in tempo a citare Shakespeare: “Buona notte, dolce principe”. Poi la scrittura si fa illeggibile e infine rimane solo il silenzio. Il suo corpo verrà ritrovato solo dieci giorni dopo. Fra i tanti discorsi funebri che verranno pronunciati dai colleghi commossi, ecco le parole di Lévi-Struss:

Per misurare pienamente l’enormità della perdita che ci colpisce, dovremmo pensare a qualche cataclisma che si abbatte sull’America del Sud e altre contrade esotiche, provocando la distruzione di intere popolazioni indigene esistenti qua e là. Agli occhi della scienza, una tale catastrofe sarebbe così grave per le conseguenze, quanto quella causata dalla sua morte? Tante di queste popolazioni non esistono che nella sua memoria e nel suo sapere; con lui, delle tribù intere, delle civilizzazioni venerabili, sono cancellate e spariscono dalla faccia della terra (…) E ciò che aumenta la nostra desolazione è pensare che non avrebbe, forse, sopravvalutato la morte se non avesse ingiustamente sottovalutato la sua opera, e che ci ha lasciato con questo doppio malinteso. 

A Renzo Guolo, per concludere, il merito di averci proposto non solo il percorso teorico di uno studioso insigne, ma anche il ritratto doloroso e commosso di un uomo tragico che, avendo dedicato l’intera vita adulta alla salvezza altrui, non ha potuto tuttavia salvare sé stesso.     

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