Santarcangelo: abbastanza non abbastanza

28 Luglio 2023

Santarcangelo delle coreografie. È la danza in varie sue forme, con slittamenti verso la performance o la conferenza danzata, a dominare la 53.esima edizione di Santarcangelo Festival, intitolata dal direttore artistico, il polacco Tomasz Kireńczuk, Enough not enough, abbastanza non abbastanza: abbastanza fragili, come siamo in questo momento politico, sociale, economico, scrive il presidente dell’Associazione, Giovanni Boccia Artieri; con la possibilità data dall’arte di creare mondi alternativi.

Dal primo fine settimana (Lorenzo Donati)

Il suo direttore, Tomasz Kireńczuk, afferma che non è compito di un festival accontentare tutti, e in particolare un luogo come Santarcangelo non può crogiolarsi sul suo passato. Il principio è sano, dunque ci si chiede se non sia giunto il tempo di dismettere il sospetto verso il politeismo dei linguaggi che ha segnato gli ultimi anni. A Santarcangelo trovano infatti spazio quasi esclusivamente artisti e artiste provenienti dal milieu performativo di circuitazione europea, in un programma costruito grazie alla virtuosa partecipazione a network, in collaborazione con istituti culturali, ambasciate, programmi di finanziamento comunitari. Grazie a questi caratteri, negli ultimi due anni si è generato un programma peculiare, molto diverso da tutti gli altri festival, con presenze italiane lontane dal teatro, dalla recitazione e in generale dalla ‘rappresentazione’. 

Così si indagano in modo meritoriamente approfondito i contorni di una precisa linea estetica, ma ci si chiede cosa accadrebbe mescolando qualche carta, generando occasioni di contatto fra diverse culture performative e attoriche, fra le ricerche di danzatori e registi, fra i linguaggi dei performer e quelli dei gruppi. Data la visibilità e responsabilità pubblica che Santarcangelo continua ad avere, si porterebbe forse una nuova aria in un teatro italiano oggi particolarmente segmentato. Perché, detto senza iperboli, al festival gli spettacoli sono davvero tutti esauriti (con molti posti riservati ad addetti ai lavori, ma dove non accade?) e il pubblico è davvero composto da persone giovani, che vengono anche da lontano e si fermano in paese per qualche giorno, come accade per esempio nei festival di musica. Santarcangelo è forse l’unico festival in cui si è tramandata una consuetudine festaiola, dove è possibile saldare divertimento e pensiero, con il dopofestival che richiama più gente del festival (ma con un programma musicale tutt’altro che frivolo, curato da Chris Angiolini). Santarcangelo è un festival che non ha mai ridimensionato la sua misura eccedente, con 6,7,10 appuntamenti a sera, una proliferazione giustamente ‘festiva’, ma che pure asseconda uno spirito del tempo dove la quantità soppianta ogni altro metro. Ciò di cui si può dar conto in una cronaca di due serate, allora, è frutto di scelte parziali e probabilmente anche casuali.

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Studio Julian Hetzel with Ntando Cele, SPAfrica.

Nel mio caso, è aleggiato su alcuni spettacoli l’ombra del senso di colpa. Per il disastro verso cui stiamo spingendo il mondo; per il nostro appartenere a maggioranze avvantaggiate che non mettono in discussione il vantaggio; senso di colpa di chi confronta le condizioni politiche e sociali di alcuni paesi, raccontati negli spettacoli, rispetto al nostro; infine, e prima di tutto, il senso di colpa del nostro status di persone mediamente acculturate, spettatori e spettatrici che esprimono una capacità di spesa sufficiente per acquistare biglietti, o per sorseggiare spritz prima degli spettacoli, o per pagarci le trasferte nei festival. C’è tutto un montare di pensieri riconducibili a una simile impronta nel programma, in alcuni spettacoli, nei discorsi, nelle interviste. Non parla forse anche di questo, l’intero claim del festival, Enough not enough? Nella sua scaltra indeterminatezza, non è anche l’ammissione di una colpa? Di queste condizioni non sostenibili, si sostiene, ne abbiamo davvero abbastanza. Ma noi, il ‘ceto creativo’, siamo davvero nella posizione di affermarlo? Noi che conduciamo scampoli di vita più o meno agiata. Scrive il direttore, nello statement della presente edizione: “Viviamo in un mondo pieno di disuguaglianze, ingiustizie e sfruttamento. Siamo pronti a dichiarare che abbiamo passato il segno? E quali sono le conseguenze?”.

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Julian Hetzel & Ntando Cele – SPAfrica, ph. Pietro Bertora.

Diventa dunque molto interessante capire come alcune conseguenze di questo ragionamento si proiettino sulle nostre scelte, valutando se l’autoriflessione apra spunti per dialogare con chi non conosciamo. SPAfrica di Julian Hetzel e Ntando Cele è quasi un manifesto di un incedere dell’arte che interroga sé stessa e la sua “legittimità sociale”. Lo spettacolo si apre con un finto talk d’artista, un formato discorsivo che è facile piegare a strategia di autolegittimazione. In scena c’è lo stesso Hetzel, l’artista risponde a domande di un’intervistatrice in un dialogo dai contorni plastificati. Osservando bene gli occhi piccoli e inespressivi capiamo che l’attore in scena indossa una maschera, la pelle delle mani nude è infatti nera e la voce è elettronicamente modificata. SPAfrica, raccontano, è un progetto artistico sull’empatia: le lacrime degli spettatori europei (cioè noi) vengono raccolte e inviate in Sudafrica, poi nebulizzate insieme a una fine pioggia. L’intervistatrice pone domande ruvide sullo sfruttamento del dolore, sul colonialismo, sull’estrattivismo e l’intervista si interrompe bruscamente. La performer Ntando Cele si leva la maschera e qui inizia una seconda parte, una sorta di conferenza-spettacolo, composta anche di canzoni, sull’impossibilità dell’arte di affermare qualcosa al di fuori degli orizzonti di aspettative europei, spesso eteronormati. La performer non può fare né dire nulla che non stiamo già aspettando, sostiene Cele. Anche la sua voce, che ora ringhia e abbaia fino a lambire gli spettatori su un palchetto, è una versione stabilizzata e resa tipica, un prodotto generato dalla profilazione delle aspettative. SPAfrica applica al racconto molti filtri di intelligenza, mascherando la superficie narrativa con i veli degli sguardi sociali, invitandoci a indossare consapevolmente degli occhiali colonialisti. Il problema, in uno spettacolo prodotto da molti centri europei legati alle performing arts (si pensi al belga CAMPO, che in passato ha coprodotto Gob Squad e Milo Rau), è che finito lo spettacolo dovremmo chiudere tutti i festival e i centri in cui viene mostrato, perché non c’è dubbio, il nostro è uno sguardo coloniale e le live arts rischiano di essere solo un diletto per ricchi. Che fare, dunque? Come (smettere di) guardare? Noi spettatori veniamo coinvolti anche fisicamente, viene infatti distribuito un bicchierino con il liquido emotivo e uno di noi è invitato a salire sul palco, per cercare di indursi il pianto venendo ripreso sul grande schermo. In una cornice così artificiale, finalmente possiamo piangere.

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Chiara Bersani - (nel) SOTTOBOSCO, ph. Pietro Bertora.

Chiara Bersani, con (nel) SOTTOBOSCO, sembra indicarci una via antipodica, la sua è l’artificializzazione del gioco dei bambini. Che fine ha fatto la fanciullezza che ci entusiasma, vedendo un tappeto bianco ricoperto di marshmallow, adagiato in un campo agricolo dorato, dopo la mietitura di luglio? Sul fondo, in lontananza, si accendono le lucine delle case e delle strade che digradano dal promontorio di San Marino. Nel campo stanno tante balle di fieno, da una di queste all’orizzonte sbuca una seconda danzatrice; Bersani intanto aveva saggiato il terreno col suo corpo minuto, quasi baciando il suolo coperto dal tappeto, come a volerne auscultare il respiro. La seconda danzatrice (Elena Sgarbossa) si avvicina, i loro arti s’intrecciano all’unisono, strisciano e si abbracciano, la danzatrice ‘grande’ prende in braccio la piccola, creando una nuova misura collettiva, insieme poi tornano a terra e si slacciano, guardando il cielo in attesa di qualcosa. È un attimo, ma ci pare di cogliere il momento in cui si creano le regole di una lingua: una delle due si tocca il mento, l’altra si accarezza un dito, poi ci guardano alzando le mani, infine nel tappeto bianco qualcosa si slabbra: sta facendo il suo ingresso un’altra figura, siede su una sedia a rotelle, poi entra ancora un’altra. Ma da dove stanno arrivando? Come mai non le avevamo viste prima? Gli stridori di corde tese, le ventate di cristalli del musicista Lemmo ora si trasformano in canto dolce. Udiamo la voce di Bersani, in una traccia in audio: “Dopo la fine, senza contorni, è solo questione di intensità”. Nella subitanea collettività di figure in scena, presenti grazie a un laboratorio condotto nei giorni precedenti, ora si spandono i sintagmi della lingua e noi ne impariamo i contorni: una si tocca il mento, un altro si accarezza un dito, ci guardano alzando le mani eccetera. Eccoci qui, testimoni di un gioioso incontro ravvicinato dove siamo noi le entità aliene, chiamati a decrittare i tasselli di una lingua che parla della realtà, se siamo disposti a giocarla.

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Alex Baczynski-Jenkins - Unending love ph. Pietro Bertora.

Dal secondo fine settimana (Massimo Marino)

In una Santarcangelo sempre più gentrificata, ridotta a un’unica grande mangiatoia dai toni pastello, con sedie e tavolini per consumare piadine, cibi più elaborati, aperitivi e gelati perfino sulle scalinate che portano al paese alto, gli spettacoli e le performance del festival si insinuano in luoghi alternativi, siano il cortile di una scuola, la bollente palestra di un istituto tecnico, la storica sala del Lavatoio, la biblioteca, una spoglia stanza nelle ex carceri o il grande spazio all’aperto tra i campi di grano arato, dorati e stordenti sotto il sole, con lo sfondo del Monte Titano e di San Marino, in un azzurrino di foschia da calura che richiama le prospettive aeree di Leonardo. Quest’anno il parco Baden Powell, dove negli ultimi anni erano allestiti vari palchi, non è disponibile: è stato usato come bacino di laminazione per evitare che le acque del torrentello Uso, ingrossate dagli acquazzoni di maggio, infuriate, sommergessero il paese.

I due giorni che ho seguito e che racconto qui danno un’altra visione parzialissima di un festival con moltissimi spettacoli, laboratori, incontri. Ho iniziato il mio percorso proprio dal podere Acerboli, con San Marino sullo sfondo. Va in scena Unending love, or love dies, on repeat like it’s endless del coreografo polacco con frequentazioni berlinesi Alex Baczynski-Jenkis. Lo spettacolo dura due ore, ma si può andare via quando si vuole. In scena tre interpreti magnetici portano in un continuo loop di atteggiamenti, di contatti, intrecci tra i corpi, anche solo con le mani o tenendosi per un mignolo, con precipizi di distacco, di solitudini che poi si cercano e vanno a ricomporre il trio, con scarti tra i performer in duo, in assolo, in trio, in altri duo e assoli eccetera. Ipnotico. Di grande qualità di presenza, trascina la mente, aiutata anche dalla scena ‘sfondata’ verso l’assolutezza del paesaggio estivo; porta nei dettagli, nelle sottigliezze della ricerca dell’altro e dell’isolamento, della frammentazione. Mostra fuoriuscite dai ruoli di genere, le ambiguità della distanza e della seduzione, in una danza che dichiara interesse per le relazioni queer.

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Silvia Calderoni & Ilenia Caleo - The Present is Not Enough ph. Pietro Bertora.

In una direzione abbastanza simile va The Present Is Not Enough di Silvia Calderoni & Ilenia Caleo, un viaggio quasi senza parole nel cruising, nel battuage, in pratiche e culture omosessuali gay viste da donne lesbiche e queer. Esibisce, non spiega, non racconta. Corpi nudi, sguardi dei performer l’uno all’altro, seduzioni e distanze, strusciamenti, esibizioni, con richiami alla scena newyorkese pre-Aids, in provocazioni al mondo square esperite attraverso i corpi, le pose, l’uso e l’abuso di droghe. Il lavoro è forte quando i performer rivolgono gli sguardi, con sfida, con complicità o con magica assenza e ambiguità, al pubblico. Ha la sua debolezza nella mancanza di mediazioni narrative, che rendono il tutto piuttosto criptico e l’ora di durata piuttosto lunga da passare.

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Ligia Lewis, A Plot / A Scandal, ph. Moritz Freudenberg.

Ancora politici, ma molto meno agitatori o tautologici di cose viste l’anno passato, sono A Plot / A Scandal della coreografa e danzatrice Ligia Lewis, un viaggio, con luci colorate e stroboscopiche, parrucche e varie forme di intrattenimento spettacolare, nella colonizzazione e nelle questioni dello schiavismo, con un’evocazione di John Locke, il maestro seicentesco dell’empirismo inglese. Così come Nulle part est un endroit di Nach, una lezione danzata sul Krumping, un ballo di protesta afroamericano nato nei primi anni 2000 nei sobborghi di Los Angeles. Tra video, parole, movimenti di danza potenti si spiega e si agisce questa forma di formalizzazione artistica di passi di sfida e di lotta. E si evoca, in un frammento molto bello, il flamenco. Poi lo spettacolo si perde in un catalogo di altre danze nel mondo, lasciando il rimpianto che non sia più essenziale e quindi pungente. 

Ha ancora la forma di esercizio un po’ catechistico, dalla frammentazione individuale al ritrovamento di un corpo collettivo, La Vaga Grazia di Eva Geatti con interpreti giovani.

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Basel Zaraa, Dear Laila, ph. Mohab Mohamed.

Le cose che rimangono più incise però sono due. La prima è un’esperienza che lo spettatore compie da solo in un locale spoglio delle ex carceri, Dear Laila di Basel Zaraa. L’autore è nato in un campo profughi palestinesi a Damasco. A causa della guerra è stato scacciato anche da quel rifugio che si credeva temporaneo, con la speranza di un ritorno nella terra dei padri e delle madri, la Palestina. Quando la figlia Laila gli ha chiesto dove fosse cresciuto, ha ricostruire, con un modellino, la casa di Damasco. Lo spettatore entra in una stanza. Trova su un tavolino quell’edificio, semplice, con il compensato che riproduce il cemento, alcune fotografie di famiglia e altri oggettini. Aprendo i cassetti trova una grande chiave arrugginita, un album fotografico, un rosario islamico, e scopre la storia della famiglia: costretta a fuggire dalla Palestina nel 1948, con l’occupazione israeliana, la bisnonna porta con sé quella vecchia chiave, trasmessa di generazione in generazione. I figli costruiscono quella casa a Damasco: prima è una sola stanza con annessa bottega di frutta e verdura, poi a poco a poco si innalza e si ingrandisce, fino ad arrivare a tre piani. Infine anche quella, con tutti i suoi ricordi, viene abbandonata a causa della guerra in Siria: ne rimarrà solo un rudere, dal quale qualcuno recupera stinte foto di famiglia. Il breve intenso spettacolo è una restituzione di memoria, la dimostrazione che l’immaginazione teatrale può ridisegnare non solo vite passate, ma anche figurare altre possibilità a quella già vissuta. Lo spettatore si porterà via una scatolina di sale, con cui, versato sulla testa pronunciando una litania simile a formula magica, la nonna benediceva i bambini.

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Clara Furey, Rather a Ditch, ph. Albert Vidal Vertex.

L’altro lavoro smarginato, liquido, impressionante è Rather a DitchGallery Version di Clara Furey. Anche qui lo spettatore è come ipnotizzato. Dal continuo sparire, dissolversi del corpo della performer dietro un telo nero, e riapparire, immergendosi nel regno delle ombre e riemergendo con tutta la sua carica fisica, erotica. Un galleggiare continuo sull’orlo di un buco nero, risucchiati dalla materia implosa, forse da quella materia implosa che è la morte, espulsi a tentare di nuovo spasimi di vita, fino a un’ultima parte agita a terra, con quel telo oscuro steso di fianco alla performer, come un’ombra distaccata incongruamente dal corpo, come un fiotto di materia corporea in putrefazione. Emozionante. Molto bello nel suo freddo agire, nella sintesi bruciante del suo tono corporeo e filosofico insieme.

Un’ultima notazione: nei giorni precedenti a quelli che ho narrato hanno agito numerosi danzatori e coreografi italiani, da Sara Sguotti al CollettivO CineticO a Cristina Kristal Rizzo ad altri, ma quello che sembra mancare sono voci giovani italiane (e anche straniere), quelle su cui per molti anni il Festival ha puntato. È forse che la nostra scena si è assestata su un equilibrio, sempre abbastanza instabile peraltro, in una precaria maturità? O le fragilità della situazione generale non nutrono più quella avventurosa emersione di voci nuove, vertiginosa solo qualche anno fa? O semplicemente lo scouting di Santarcangelo, in un’Italia ormai piena di festival e festivalini, si va dirigendo in altre direzioni?

L’ultima fotografia, di Pietro Bertora, ritrae un altro momento di (nel) SOTTOBOSCO di Chiara Bersani.

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