José Revueltas. Le scimmie

11 Agosto 2015

Nel 1791, Jeremy Bentham immagina e progetta il panopticon, versatile struttura disciplinare di correzione a visibilità totale in cui alloggiare i reprobi, i corrigendi o gli agitati lungo il perimetro di un cerchio fatto di celle soggette al vigile sguardo di un gabbiotto posto invece al centro del cerchio stesso, là dove un’occulta e forse illusoria sentinella, per mandato del potere anonimo e onnipresente che la dirige, agisce una continua opera di controllo tramite uno sguardo evanescente che vede ma non è visto. Come noto, il panopticon venne poi discusso nelle sue ragioni, in tempi più recenti, da Michel Foucault. Questi, in Sorvegliare e punire (trad. it. di Alcesti Tarchetti, Einaudi 1993), ne parla come un luogo ideale in cui si condensano i mutamenti nelle teorie dell’amministrazione punitiva dell’Europa sette-ottocentesca:

"Tante gabbie, altrettanti piccoli teatri, in cui ogni attore è solo, perfettamente individualizzato e costantemente visibile. Il dispositivo panoptico predispone unità spaziali che permettono di vedere senza interruzione e di riconoscere immediatamente. Insomma, il [vecchio] principio della segreta viene rovesciato; o piuttosto delle sue tre funzioni – rinchiudere, privare della luce, nascondere – non si mantiene che la prima e si sopprimono le altre due. La piena luce e lo sguardo di un sorvegliante captano più di quanto facesse l’ombra, che, alla fine, proteggeva. La visibilità è una trappola." (p. 218)

 

La grande innovazione che il panopticon intende introdurre nell’universo della correzione sta proprio nel suo sistema di visibilità, nella concreta possibilità di economizzare sul controllo: lo sguardo anonimo centrale, quello della sentinella senza volto né probabilmente identità, vigila anche sui sorveglianti mobili a cui sono affidati i compiti spiccioli della ronda e del randello. Per quanto il modello di Bentham non vedrà mai una pura e completa realizzazione, esso sopravivrà tuttavia come elemento essenziale nella strutturazione del carcere contemporaneo in alcune sue versioni:

"Una prigione-macchina con una cella di visibilità al centro, in cui il detenuto si troverà preso come «nella casa di vetro il filosofo greco» ed un punto centrale da dove un’osservazione permanente possa controllare nello stesso tempo prigionieri e personale.” (p. 273)

 

Il potere vigila su tutti, è fatto per questo. È proprio in una di tali prigioni-macchina contemporanee che José Revueltas ambienta Le scimmie (trad. it. di Alessandra Riccio, Sur 2015), racconto ideato e scritto nel 1969 durante la reclusione nel Carcere di Lecumberri, Città del Messico, penitenziario “a raggiera”, in perfetta linea con il sentire dell’“utopia benthamiana”, inaugurato nel 1900 sotto il generale Porfirio Díaz e utilizzato a scopo detentivo fino al 1976. Lì, nel 1968, stavolta sotto Gustavo Díaz Ordaz, la cui memoria nefasta è legata soprattutto all’esiziale Massacro di Tlatelolco, José Revueltas, dissidente tra gli amici e tra i nemici, venne imprigionato con l’accusa di aver ricoperto un ruolo di rilievo nelle rivolte studentesche che quell’anno toccarono pure il Messico, senza tuttavia che alcun processo ne avesse sancito la reità (d’altronde i suoi atti non vennero visitati dalla colpa, direbbero alcuni).

 

José Revueltas

 

Nello scenario in cui si svolgono le vicende de Le scimmie, sono sia i prigionieri che le guardie a calcare l’assito della ribalta nel gioco drammaturgico. Le seconde, sotto l’attenta vigilanza del gabbiotto centrale, munite di manganello come tutte le guardie che si rispettino, girano per i corridoi su cui si affacciano le celle, controllando e scrutando quanto succede negli angusti ambienti della detenzione. Questi, rispetto all’ideale benthamiano, non sono più individualizzati, bensì diventano “piccoli teatri” senza quinte né retroscena condivisi anche da più attori, prigionieri nel sovraffollamento della reclusione che vige spesso sotto autoritarismi e dittature.

 

Al centro del carcere e del racconto, a fare da occhio invisibile che di continuo scruta, c’è evidentemente un ulteriore personaggio contumace, una presenza in ellissi che pur non essendo mai nominata pervade ogni singola parola del narrato. Si tratta, secondo quanto si è già detto poco sopra, proprio del potere: un potere che stavolta, però, sembra meno asettico e più crudele di quello immaginato da Foucault, portato alle estreme sue conseguenze in una versione brutale che non soltanto vuole amministrare, ma che soprattutto vuole farlo col sangue. Questo potere prende nel racconto le sembianze di una bruma immateriale che scurisce i contorni delle cose, è una forza che, facendosi personaggio, domina, e sembra farlo per di più con molto gusto. A tale forza oscura si deve la regia di una rappresentazione che, lungi dal voler essere catafratta nell’ambiente che la ospita, lì chiusa ed esaurita in una pièce d’avanguardia bastante a se stessa e ai suoi tronfi spettatori, intende invece parlare di quanto accade nel mondo intero, sostenendo forse che in fin dei conti un certo tipo di esseri umani, nati per disgrazia dove non batte il sole del privilegio, detenuti o sentinelle che siano, trovano albergo tutti nella stessa prigione.

 

Nella particolare e minima scenografia della cella di isolamento in cui il regime di luce della narrazione di Revueltas ci trasferisce (il titolo originale del racconto è El apando, che nello spagnolo del Messico vuol dire proprio “la cella di isolamento”), tre soggetti vivono la loro maledizione privata e pubblica: sono Polonio, Albino e il Coglione, inveterati tossicodipendenti di lungo corso rinchiusi in carcere per motivi che non conosciamo né mai arriveremo a conoscere, perché d’altronde la sostanza del discorso di Revueltas sta nelle procedure amministrative che regolano la loro vita polisemicamente cattiva. Sta nell’evidenza che chiunque è assoggettato a una trama d’insieme il cui leitmotiv sotterraneo è violenza, abbandono, prevaricazione: un mondo in cui la norma, prima ancora che la legge, è una ferrea abitudine al malessere e alla rovina, un contino galleggiare nello stagno limaccioso dell’esistere. Almeno per alcuni, cioè per gli assoggettai di nascita, detenuti o sentinelle che siano.

 

In questo regime di estrema visibilità, nel quale due parti contrapposte giocano un gioco in cui né l’una nell’altra avranno mai la possibilità di uscire vincitrici, i tre reprobi aspettano come sempre di conquistare la loro momentanea salvazione sottoforma di sostanza illegale e lenitiva, mentre le sentinelle attendono come sempre di evitare che ciò accada. Il regista che dirige la storia, quel potere sadicamente godereccio di sopra, evita semplicemente di intervenire, gli basta guardare, e dal centro vede tutto. È di questo che parla Le scimmie.

 

Al lettore indolente, quello che per apprezzare un libro ha bisogno di una prosa essenziale e diretta, fatta di brevi frasi e di periodi concisi che marciano spediti verso la chiarezza, bisogna dire che troverà forse difficoltà a leggere il racconto con gradimento. Le sue quaranta pagine lavorano infatti sul fiato, totalmente orfane di accapo, in un susseguirsi incessante di periodi lunghi e intrecciati. Grazie a queste poche pagine, ci è però concesso di precipitare letteralmente in un gorgo senza pause che, per quanto sia vertigine rinchiusa nell’angustia di una cella e di un carcere più ampio, vertigine solidificata entro spazi che non possono essere evasi, pare decisamente inestinguibile.

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