Folle e delitti / La “saponificatrice di Correggio”

9 Novembre 2018

Alta m. 1,50 o qualche centimetro di più al massimo, detta Nardina o Norina, quarantaseienne nel 1941, nata a Montella, in provincia di Avellino. Madre di quattro figli, sposata con un altro meridionale, un lucano, un uomo onesto e serio, impiegato dello Stato. In possesso di un’istruzione elementare, di fama poco buona, di carattere eccitabile. 

 

Il personaggio di Leonarda Cianciulli riverbera in mille riflessi attraverso le pagine del bel saggio a lei dedicato da Barbara Bracco. La saponificatrice di Correggio. Una favola nera, Il Mulino, 2018, è firmato da una contemporaneista e fonda una prospettiva nuova, ad ampio raggio, su un’esimia vicenda giudiziaria nazionale. Il racconto segue in ordine cronologico l’istruttoria a carico di Leonarda Cianciulli. Si dipana scandagliando in modo capillare le indagini, la perizia psichiatrica compilata da Filippo Saporito, e poi s’immerge negli atti processuali e negli articoli di cronaca sulle udienze – da qui vengono i frammenti di un’immagine, riportati sopra, che stanno accanto a molti altri, spesso tra loro contraddittori, non di rado goffi e sciocchi, perlopiù di una violenza raggelante, tanto lineari all’epoca quanto (occorre sperare) appaiono oggi truci –. Il libro si chiude mettendo in ordine le ultime tracce, sempre più rare, della “strega” ancora in vita, detenuta prima nel manicomio giudiziario di Aversa e poi in quello di Pozzuoli. In verità Bracco non dice mai perché abbia scritto questo saggio: nelle prime pagine ricorda che in senso temporale il suo lavoro segue diversi studi recenti, e che il mito di Leonarda Cianciulli è il tema di un numero incalcolabile di articoli e ricostruzioni che si possono trovare on line, tante purtroppo imprecise. Il lavoro della storica muove in direzione contraria: 130 pagine lucide e fitte divengono forse 260 per una specie di secondo libro che scorre, ricco di riferimenti, nelle note a piè di pagina. 

 

Cianciulli fu senza dubbio responsabile della morte di tre donne che conosceva. Come lei vivevano a Correggio, un comune con diciannovemila abitanti in provincia di Reggio Emilia. La prima, la più anziana, scomparve, settantatreenne, poco prima del natale del 1939. Le altre due, tra i cinquanta e i sessant’anni d’età, nell’autunno nel 1940. Le tre “amiche” di Cianciulli, come ne parlerà sempre in seguito lei stessa, non avevano parenti; vendettero i loro beni e dissero che si trasferivano. Dopo una denuncia, la polizia di Reggio Emilia raccoglie in pochi mesi una serie di prove gravi, tutte sulla scia della “roba” delle scomparse. Per l’Italia la seconda guerra mondiale è iniziata da circa un anno, Mussolini ha chiamato gli italiani alle armi e anche uno dei figli di Cianciulli è sotto leva. I beni materiali, ricorda Bracco, sono investiti di un nuovo valore, e lo saranno ancora di più all’apertura del processo, nel 1946, in un mondo civile appena riemerso dal conflitto, stravolto e affamato. Si risale infine a una piccola associazione a delinquere in cui Cianciulli, un parroco e un casaro sull’orlo dell’indigenza hanno incassato dei buoni dello Stato di proprietà di una delle vittime. Cianciulli viene sottoposta a diciannove interrogatori. Davanti all’insinuazione degli inquirenti che nella vicenda sia coinvolto anche il suo primogenito, Giuseppe Pansardi, all’epoca ventenne, nell’estate ’40 confessa per scagionarlo. Qui i tratti dell’orrore senza dubbio verosimili, che poi sono stati quasi schiacciati dalla leggenda. Le donne furono uccise in casa Cianciulli-Pansardi con un colpo alla testa, i cadaveri furono “depezzati” e in qualche modo distrutti. L’accusata dichiara che ha provato a bollirli per ore aggiungendo soda caustica, e che i resti integri li ha gettati di notte in un canale.

 


Le due domestiche di casa avvalorano la tesi del tentativo di saponificazione: da qui il lavorio in cui s’impastano la vox populi, la descrizione di cronaca, e non meno importante, l’inquadramento della psichiatria dell’epoca. Per due volte Bracco si appunta sull’unica domanda a cui a nessuno è parso importante rispondere, e dunque su quella che si potrebbe dire più sintomatica in senso antropologico: E tutti gli altri? Che dire cioè del marito di Leonarda, dei tre figli mai imputati, e di una folta pletora di conoscenti e parenti correggesi, mentre la caldaia bolle diffondendo un odore nauseante e si può immaginare durevole? Se anche è possibile che una donna piccola e di corporatura non robusta abbia fatto da sola tutto questo, com’è pensabile che nessuno dei coinquilini, dei parenti e dei vicini sapesse? Nel processo, va ricordato, Cianciulli fu l’unica condannata. 

Bracco è poi cauta, quando non critica, su diversi punti del fissarsi del canone favolistico. Leonarda avrebbe decorato le sue dichiarazioni, e un memoriale scritto su richiesta di Saporito, con dettagli suggeriti ora chissà se dall’idea di sé stessa che gli rimanda il suo “alienista”, ora chissà se dalla determinazione nello scagionare il figlio. La storica non indugia sulle torte alla polvere di ossa, sul sangue delle vittime cotto nei pasticcini. L’attaccamento di Cianciulli ai figli, per Saporito un’“elefantiasi materna” che l’aveva portata a fare sacrifici umani per proteggerli, a Bracco appare di grande interesse, ma soprattutto per restituire il quadro della psichiatria positivista di discendenza lombrosiana, che vedeva nell’isteria la psicopatologia femminile di riferimento. 

 

Mentre disincrosta la vicenda da questi sedimenti, il saggio si volge a considerazioni di altro rilievo. Prima di tutto Bracco traccia una serie di relazioni: “La saponificatrice di Correggio” è un breve e ricco diario della Repubblica, o meglio del passaggio dall’Italia fascista a quella repubblicana. L’autrice mette in fila le corrispondenze, gli accavallamenti e i dialoghi tra il delitto e i drammatici accadimenti nazionali. Ci sono il culto di Maria Goretti, il trafugamento della salma di Mussolini, l’assalto nel ’44 di un gruppo di gappisti al carcere bolognese dove si trova Giuseppe, il figlio di Leonarda, che evade insieme ad altre quattrocento persone ma anziché darsi alla macchia va a costituirsi. Rispetto alla dimensione processuale, Bracco rileva del caos del 1946 con le parole di Giordani, cronista per l’Unità. Sull’istruttoria pesarono “influenze politiche personali”, a cui si dovette “la scarcerazione o l’assoluzione di persone fortemente indiziate”; due avvocati di parte civile della prima ora si rivelarono essere un collaborazionista e un membro della Repubblica di Salò, un terzo, questo della difesa, istruì la causa ma poi visse in clandestinità “condannato a morte in contumacia dai fascisti”. Cianciulli, fervente fascista, nelle dichiarazioni in udienza offrì anche un nuovo resoconto delle ragioni della bollitura: convogliando l’eco delle notizie dei campi di sterminio e del processo di Norimberga, inneggiò ai “fumi” da cui le amiche sarebbero potute “rinascere”. «Doveva nascere in Germania» dice d’altra parte un reggiano a Terron, altro cronista del processo, che riporta il commento in un articolo. 

 

Nell’aula gremita da una folla eccitatissima, aleggiavano così le immagini del passato, la violenza atavica del mondo contadino, quelle del presente, una fame indignata dai racconti di pasticcini malefici e di “paletò” trafugati, entrambi generi di cui c’era grande penuria, e quelle di un oggi appena trascorso, un mondo fascista di cui sopravvivevano ciuffi e radici. Su una testata si legge che un testimone secondario, nel lasciare l’aula, “s’irrigidì nel saluto romano”, provocando una risata fragorosa a cui parteciparono anche giurati, avvocati, carabinieri. Un secondo tracciato originale messo in luce dal libro è proprio quello della componente farsesca. Oltre al problema di fare i conti con l’enorme vuoto che ora rappresentava lo ‘Stato fu fascista’, Bracco fotografa il modo in cui prevedibilmente l’orrore sfociava nella farsa. Sul Corriere dell’Emilia si riporta che le parti battibeccano sull’infermità mentale dell’accusata: le parti “si cianciullano”. Quando una testimone inattendibile avanza la pretesa che Leonarda abbia causato la morte di sua madre facendole visita, il suo difensore osserva: «non si può pretendere» ... «che Leonarda Cianciulli abbia convertito in detersivo tutte le persone che risultano scomparse». Una delle domestiche di casa Cianciulli-Pansardi rilascia un’intervista in cui tiene a precisare che «le marmellate non erano fatte con sangue delle disgraziate donne perché le facevo io con la frutta e lo zucchero che andavo a comperare di persona». 

 

Infine in La saponificatrice di Correggio si scrive molto anche di due elementi tra loro forse complementari e quanto mai attuali. Bracco non si spinge mai alla comparazione con la cronaca nera e giudiziaria contemporanea, anche se di fatto ne fornisce matrici interpretative in abbondanza. Il primo elemento è la testimonianza di una galleria di tipi umani, le cui miserie non sfuggirono ai cronisti del processo. Per Bracco si trattava di una proiezione dello stato in cui versavano i cittadini di tutto il Paese nel 1946: c’erano le zitelle disperate che si fanno abbindolare dalla strega, o quantomeno dalla truffatrice senza scrupoli, il complice scagionato dalla propria rozzezza, la pettegola del paese, la mitomane, il maresciallo corrotto dalle ciambelle dell’assassina. Di altro orientamento sono state le letture ‘microantropologiche’, spesso orientate a un’analisi socio-politica, di questi sfondi umani illuminati dalla luce impietosa di un processo penale. Basta ricordare il “profondo Nord” del delitto Maso, da cui fu tratta una trasmissione di grande successo condotta da Gad Lerner nel 1991. O ancora, solo un esempio celebre tra molti, lo stigma inferto alla città di Perugia dopo l’omicidio di Meredith Kercher del 2007. Questi sfondi socioculturali, quale sia l’ipotesi che li legge, sono anche la cornice dell’agire degli imputati. Per tale ragione, in presenza di un secondo elemento rilevato da Bracco, la “mostrificazione” di Cianciulli, tra i due piani corre un legame peculiare. Cianciulli tentò il suicidio diverse volte, lungo tutto l’arco della sua vita. Per la cronaca però quando in carcere ingoia dei chiodi e dei pezzi di vetro questo non è segno della sua fragilità psichica, ma di un sorprendente “stomaco da criminale”.

 

La serie contemporanea delle mostrificazioni femminili nella cronaca giudiziaria è molto ampia, e conta tra i suoi esempi più drammatici almeno i tratti di assassina naturale imputati ad Anna Maria Franzoni, e quelli attribuiti, più di recente, a Sabrina Misseri. È molto interessante come di volta in volta proliferino storie che ascrivono la strega di turno al Correggio del caso o al contrario la sbalzano per una totale estraneità. Foucault usò addirittura il delitto di Pierre Rivière per parlare dello sfondo attraverso la figura, mentre Bracco sembra consapevole che questa non è che una delle moltissime questioni coinvolte in storie capaci di risuonare in echi così vasti. Resta il fatto che al di là di facili snobismi l’immaginario culturale del lecito e del proibito, del deprecabile e dell’invidiabile si esercita in una continua, cruciale rigenerazione nella cronaca nera e giudiziaria. Cianciulli, o “la Petiot in gonnella”, con una delle sue immagini più note, ce lo ricorda.

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