Andare nel posto sbagliato

22 Novembre 2015

Giulia

 

In coda, adesso, dietro la lunga fila al banco dei check in, sentiva che aveva fatto male ad accettare. Sì, perché non aveva detto di no? Le sue colleghe che le mostravano un’amicizia invidiosa le avevano cantato alle orecchie tutto il mese precedente che lei era veramente fortunata, che se fosse accaduta loro la stessa cosa non avrebbero esitato. E lei invece ci aveva pensato su ogni notte con le palpitazioni che aumentavano e con l‘insonnia solita che si era trasformata in pura preoccupazione. Il professore glielo aveva detto che non poteva perdere quell’occasione, che erano le ultime borse che la facoltà poteva offrire. In fin dei conti mica si trattava dell’America! Era un periodo piuttosto breve, ma molto proficuo per accumulare punteggio, per stringere buoni contatti, per andare avanti nella carriera. Lei però sapeva che Vienna era lontana, che non poteva andarci in treno dalla Sicilia, che di fronte alle 30 ore di treno avrebbe dovuto prendere un aereo, anzi due. E qui era il punto. Lei aveva un terrore sacro dell’aereo, una paura totale, solida, fisica che la riduceva in uno stato catatonico molto prima di imbarcarsi. Non c’era nulla che gliela facesse superare. Aveva anni addietro rinunciato a una storia d’amore appena iniziata proprio perché lui stava lontano e le sembrava impossibile doverlo raggiungere anche solo una volta al mese. Il pensiero che tra poco si sarebbe imbarcata le dava la nausea, ma si trovava in coda e tra poco toccava a lei. Si guardò intorno con l’aria smarrita Almeno avesse visto una faccia conosciuta! Guardò bene le persone vicine nella fila, nessuna delle facce in coda le dava affidamento. C’era solo un signore piuttosto basso e benvestito qualche metro dietro di lei. Lo scrutò nuovamente. “Magari, pensò, magari mi metto accanto a questo signore che ha l’aria poco improvvisata”. Sembra vestito come un impiegato, deve essere uno che fa spesso questa tratta per lavoro. Lui è tranquillo. Se mi seggo accanto a lui, ci sono meno probabilità che l’aereo possa cadere. Lasciò passare la persona che le stava dietro, poi ancora l’altra e si trovò davanti al signore tranquillo. Lo fece passare davanti. Quello fece qualche complimento, poi pensò che lei aspettasse qualcuno e volesse prendere tempo. Lo sentì dire al desk del check-in in che voleva un posto in corridoio, il signore prese la sua carta d’imbarco e si avviò ai controllo bagagli. Prese coraggio, toccava a lei, consegnò la stampata del biglietto che l’Università le aveva pagato e poi con un filo di voce chiese se c’era un posto in corridoio anche per lei, magari nella stessa fila del signore di prima. L’impiegata allo sportello la guardò con un’aria un po’ perplesse. Lei aggiunse: “è un conoscente, così magari parliamo”. Ebbe la sua carta d’imbarco. Pensò che la paura faceva fare cose che in genere non era capace nemmeno di pensare. Ma un nodo, adesso che aveva in mano la carta d’imbarco, le attanagliava la gola. Al controllo bagagli le fecero storie per le medicine che portava, le fecero svuotare la bottiglietta d’acqua, infine passò. Si trovò in fila poco dietro al signore tranquillo, le palpitazioni si facevano sentire e per tranquillizzarsi decise che avrebbe dovuto rivolgergli la parola. Ma le sembrava adesso tutto più difficile. Quando cominciarono ad imbarcare, le gambe si fecero pesanti e la parola le scomparve nel nodo che aveva in gola. Avesse avuto l’acqua almeno. Si trovarono accanto, lei ed il signore tranquillo, con in mezzo il corridoio. Tutto le sembrava accelerarsi intorno, la fecero alzare per fare sistemare altri passeggeri, venne l’hostess a sincerarsi che avesse allacciato la cintura. Il momento peggiore, lo sapeva, arrivava ora. L’aereo cominciò a muoversi e lei chiuse gli occhi, le unghie si infilarono nei braccioli e la testa le si posò sullo schienale. Con una fatica che le sembrò interminabile ed inutile l’aereo corse corse e ad un certo punto si staccò e lei troncò ogni contatto, precipitò in un’angoscia che non provava da decenni, sì perché erano almeno dieci anni che aveva deciso che non avrebbe mai più volato. Sudava, sentiva la schiena che si appiccicava alla plastica del sedile. Il volo fu interminabile, altro che quarantacinque minuti. Non c’era nulla da fare, impossibile assopirsi, impossibile non sentire sotto la vescica la vertigine nauseabonda del precipizio che ad ogni secondo si ostinava sotto di lei. Non ce l’avrebbe fatta, avrebbe urlato se solo le fosse uscita la voce. Solo quando l’aereo cominciò a perdere quota ebbe il coraggio per un attimo di guardare il passeggero tranquillo. Questi dormiva, l’aveva abbandonata, egoista, incapace di rendersi conto del pericolo che tutti correvano proprio perché lui dormiva. Infine il botto, le sembrò che fosse arrivata la sua ora, sobbalzò e immaginò che adesso il velivolo si spezzasse e la espellesse fuori a folle velocità. Invece cominciò a rollare sotto di lei e a frenare. Il sollievo che le dava l’idea di averla scampata non le portò via la paura che le stava sopra, pronta a scatenarsi. L’aereo si fermò, il passeggero tranquillo aprì gli occhi, vide lo sguardo terrorizzato di lei e si preoccupò. L’aiutò a sfilare il bagaglio dalla cappelliera e poi si avviò all’uscita. Incerta sulle gambe Giulia lo seguì, scese con passo incerto per la scaletta, entrò nel bus e si trovò poco dopo di fronte a un’altra fila. Come un automa aveva seguito il passeggero tranquillo e questi si era infilato nella scala mobile che portava ai “transfer”. Come se camminasse sopra un cornicione si accorse che anche lui faceva la fila al gate per Vienna. Avrebbe dovuto essere sollevata, contenta, tranquillizzata. Ebbe il coraggio di rivolgergli la parola, gli disse: “grazie”. Il passeggero tranquillo la guardò le rispose: “per così poco” e poi le chiese se era la prima volta che volava.

 

Lei si fece piccola, si vergognò e rispose, no, no, è che non sto proprio bene. Al banco le diedero il posto accanto a quello dell’uomo tranquillo. Si imbarcarono. Erano seduti da un po’ nella stessa fila che arrivò un gruppo di passeggeri in ritardo. L’hostess le chiese di alzarsi. Doveva esserci stato un errore al desk, il suo posto era già stato assegnato. Le dispiaceva spostarsi due fila più avanti, dove c’erano posti liberi? Entrò nel panico, non riusciva a dir nulla, le sembrava di essere bloccata dalla cintura. Con uno sforzo l’aprì, si alzò e cambiò di posto. Era finita. Adesso sì che era in pericolo. Non era servito a nulla sfuggire al suo destino che si profilava imminente e tragico. Nessuno l’avrebbe sostenuta, presa al volo mentre l’aereo precipitava. Nel nuovo posto chiuse gli occhi. Non sudava nemmeno più. Era gelata, impietrita, quando sentì vicinissima una voce: “Elena”, “Elena”. Una mano sfiorò leggermente la sua spalla: “Elena”: Riuscì ad aprire gli occhi, forse a dire “Ehe?”. Era la voce di un uomo, un uomo dall’aria familiare. Lui le sorrise: “Elena, come stai?”. Giulia non sapeva chi fosse quell’uomo, e se anche l’avesse saputo era troppo presa dalla nuova stretta che le prendeva le spalle, la gola, che le confondeva la vista. Gli fece un cenno con la testa. Poi l’aereo, senza che lei avesse dato l’assenso cominciò a muoversi. Di nuovo, ma questa volta Giulia sapeva che era l’ultima, che non aveva appigli e che era sola di fronte all’onda che si stava abbattendo. Chiuse gli occhi, trattenne il respiro, voleva sparire e però il vuoto che voleva che la inghiottisse era anche il vuoto che sentiva al basso ventre, l’umido tra le cosce che le impedivano di muoversi, di pensare, la gola completamente secca. La voce accanto disse “Bene, è in orario”. Quando l’aereo miracolosamente si alzò lei si irrigidì contro lo schienale, morta, già morta come se tutto fosse finito, ma no che non lo era. Ogni volta che il velivolo dava uno scossone cercava di non esistere, di non esserci, ma invece erano la cintura, le spalle pesanti, la testa che le rimbombava a tenerla qui, in pieno pericolo. Lui doveva aver pensato che lei dormisse, non disse molto altro per un po’.

 

Il volo sorvolava le Alpi quando lei aprì con fatica gli occhi e li fissò sullo schienale davanti. La voce ne approfittò per dirle: “Elena, che bello che tu sia qui”. Lei ascoltò come una sonnambula sul cornicione che se la svegliano cadrà irreparabilmente nel buio orrido là sotto. “Elena, era molto che volevo cercarti e guarda che coincidenza”. “Sai, avrei voluto chiamarti prima, spiegarti, ma sai per telefono è difficile”. Giulia aveva un velo davanti agli occhi. Vedeva e non vedeva l’uomo accanto. Anche la domanda “Chi era?” era confusa. Le faceva male tutto, alzò con fatica le braccia, le tese verso il sedile davanti, conficcò le unghie nella plastica. “Elena”, “Lo sai, era molto tempo che te lo volevo dire”. Se lei ce la faceva a restare avvinghiata al sedile forse si sarebbe salvata, se non avesse respirato forse avrebbe avuto fortuna, se lui avesse smesso di parlare forse. “Te lo volevo dire”. “Elena, io ti ho sempre voluto”. Il silenzio era un ciclone adesso. E lei era sempre più indaffarata a tenere in alto l’aereo, non capivano che tutto dipendeva da lei, che lei sola era cosciente del pericolo che tutti stavano correndo? Fino a quando l’aereo non cominciò a perdere quota e lei si trovò di nuovo a dover riaggiustare tutto, a fare in modo che nessuno si accorgesse del pericolo che lei sola sapeva. E anche adesso che avevano sbattuto con violenza sulla pista, mica era finita, come facevano a pensare che fosse finita? Quando l’aereo si fermò, Giulia aperse gli occhi, mollò la presa, le unghie si liberarono dalla plastica. Si sfilò in velocità la cintura. Spesso l’aereo si incendiava proprio a questo punto, proprio quando tutti erano stupidamente convinti di essere in salvo! Aprì la cappelliera, sfilò la propria valigia e urtando quelli in fila si mise, miracolosamente, a correre. La lasciavano passare, lei non guardava se non davanti a sé, verso l’uscita. Almeno lei aveva il diritto di salvarsi, dopo tutto quello che aveva sofferto. Saltò nel tubo che avevano attaccato all’aereo. Salva, libera, distrutta, questa sarebbe stata l’ultima, mai più avrebbe messo piede in questa trappola.

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