Speciale

La guerra moderna e il bando al raid

19 Giugno 2011

La frequenza con cui si adopera il raid nella guerra medievale gli fa perdere gran parte di quella straordinarietà eroica che, seppur con molte contraddizioni, si trovava celebrata nel mito e nell’Iliade. Il mondo greco lo praticava nei rituali iniziatici e lo riadottò dai barbari, continuando però a sminuirlo e a irreggimentarlo nelle formazioni dei peltasti; lo stesso, con maggiore accentuazione negativa, fece la grande potenza romana. Ora, dai nomadi germanici in poi, si assiste da un lato a una mobilitazione letteraria attraverso la mitologia nordica e i romanzi cavallereschi, cui s’affianca il supporto ideologico della Chiesa, dall’altro a una sua normalizzazione dovuta alla pratica diffusa. Di qui semmai una condanna di tali incursioni intesa come condanna della guerra tout court. In più, a spogliare dai connotati eccezionali, oltre all’abitudine alla pratica da parte di tutti, si aggiunge l’incerto confine tra guerra di raid e banditismo esercitati nei confronti di popolazioni inermi. Scarso dunque il valore e la pericolosità dell’azione quando il soldato, divenuto routier, oppure semplicemente alla ricerca di cibo, terrorizza i civili depredandoli dei loro poveri beni. Ecco per esempio le immagini apocalittiche delle guerre francesi di religione che il combattente-poeta Agrippa D’Aubigné ci offre della cavalleria tedesca, che pure aiuta la sua parte ugonotta: “Il raitro nero ho visto fulminare/ attraverso le baracche di Francia, come una tempesta/ devasta e travolge tutto quanto che può”.

Aggirandosi tra i villaggi inceneriti e le strade punteggiate dai cadaveri lo scrittore raccoglie il lamento di un ferito che implora il colpo di grazia e racconta con l’ultimo fiato di voce lo sterminio della propria famiglia ad opera dei saccheggiatori a loro volta incalzati dalla fame: “I raitri,/ sono loro che mi hanno accoppato, volevano/ carne, ma non potevo dargliene, non ne avevo”.

 

Una versione più burlesca ci fornisce Rabelais, quando a seguito di una disputa tra focacceri e vignaioli, racconta lo scatenarsi di una guerra di invasione guidata da re Pirocolo contro i confinanti territori di Gargamagna. I connotati della descrizione sono peraltro non lontani da quelli finora ricordati e risultano forse più realistici di quelli che i romanzi cavallereschi hanno messo in versi ed idealizzato. Il catalogo che segue, per esempio, appare strumento retorico adatto a suscitare il riso per una lotta nata da risibili motivi, ma pure assai calzante rispetto alla depredazione famelica cui s’assisteva effettivamente al tempo: “Così, senz’ordine e misura, si misero per i campi alla rinfusa, seminando guasti e distruzione sul loro passaggio, non risparmiando né il povero né il ricco, né luogo alcuno, sacro o profano. Razziavano buoi, vacche, tori, vitelli, pecore, montoni, capre e caproni, galline, capponi, pollastri, anitre, papere, oche, maiali, scrofe, porcellini; abbacchiavano le noci, saccheggiavano le vigne sradicandone i ceppi, sbattevano giù tutta la frutta degli alberi”.

 

Si può pescare ancora dal mondo basso e anticavalleresco del Rinascimento per avere un’immagine, deformata dal comico, ma pure piuttosto calzante riguardo le condizioni di civili e militari. Nel Parlamento di Ruzante, l’affamato contadino del padovano torna trafelato al proprio paese dopo un lungo cammino a piedi, probabilmente a seguito di una diserzione da un qualche esercito del nord Italia impegnato in una delle tante guerre del periodo (l’amico Menato lo sgama immediatamente: “A’ parì de stì traditoron”). Ed in effetti si presenta fin dalla prima scena senza fiato, terrorizzato dalla vita militare, rivestito con i lacerti di scarpe e gabbano rubati per via ai contadini. La guerra ammantata d’eroismo e la figura tratteggiata nei raid di cavalleria si ribaltano allora, in questo florilegio di affannosi ricordi, in furto organizzato o piccolo ladrocinio individuale che il protagonista, miles per caso, piagnucola di non essere nemmeno riuscito a compiere (“Tiravo a pigliare qualche vacca, io, o qualche cavalla, e non ho mai avuto fortuna”).

 

Agli inizi dell’età moderna si verificano tuttavia diverse innovazioni che cambiano il volto della guerra; le principali consistono nell’ampliamento dell’esercito e nello sviluppo, dalla battaglia di Crécy del 1346 in poi, delle armi da fuoco. Il conflitto aperto, giocato con grandi numeri e armamenti sempre più micidiali, diviene, come notò Machiavelli a danno dei piccoli stati italiani, strumento risolutivo delle questioni politiche e diplomatiche. La strategia della forza satura i pensieri delle corti, i campi di battaglia e investe in una ininterrotta continuazione d’incubo le stesse popolazioni civili. Ciò di per sé, allo stesso modo della massiccia presenza di archibugieri a piedi o a cavallo, non risulta tuttavia decisivo rispetto alla forma invariante del raid. Semmai via via lungo il Sei e il Settecento comporta una serie di conseguenze necessarie che tendono a frenarne la diffusione così tipica del Medioevo.

 

S’introduce in primo luogo il concetto di disciplina moderna che va sostituendosi sia all’onore cavalleresco che all’attaccamento comunale di campanile. I professionisti della guerra vengono reclutati secondo le modalità del mandato, della coscrizione e del contratto da schiere sempre più folte di imbonitori e di violenti che battono i luoghi più poveri, sperduti o malfamati come ha ben dipinto Brecht in Madre coraggio. Gli assoldati, sempre tentati dalla diserzione se coscritti o dall’ammutinamento se mercenari, devono essere sottoposti appunto ad una rigida disciplina, ma ugualmente devono essere formati i quadri intermedi che li guidano sul campo. Nascono così le prime scuole militari che saranno frequentate, dapprima con qualche resistenza, soprattutto dai figli della nobiltà tradizionalmente bellicosa e poi anche da molti borghesi; in Italia fa da apripista l’Accademia Reale di Torino fondata nel 1678, cui seguono Napoli nel 1744 e Modena nel 1756. L’assottigliamento dei battaglioni, che dovevano evitare di farsi inutili bersagli per le armi da fuoco, comporta la nascita di nuove unità con ufficiali di collegamento in reparti sempre più scanditi secondo precise gerarchie, fino al compimento napoleonico dei corpi d’armata composti da due o tre divisioni con 8.000 uomini circa, divisi quanto alla fanteria giù giù in brigate, reggimenti, battaglioni con ampi stati maggiori addetti al coordinamento e allo spostamento delle truppe. Con tali spiegamenti di forze non era certo possibile dedicarsi al saccheggio improvvisato giorno per giorno dei terreni occupati o attraversati; cresce così un ben più efficiente servizio logistico di rifornimento, vettovagliamento e assistenza che provvede agli assedi, alle pause brevi o più lunghe d’inverno, assolutamente fondamentale per la buona riuscita della campagna.

 

Tutte queste misure di razionalizzazione cercavano anche di evitare il raid ad offesa delle popolazioni per non creare inutili ostilità attorno alle truppe. Di qui dunque l’accasermamento periferico degli eserciti che vanno ormai a costituire un mondo autonomo capace di provvedere da sé ai propri bisogni alimentari e sessuali, evitando sommosse di popolo o viceversa eccessive fraternizzazioni con i civili. Lo stesso sviluppo della cartografia, che doveva permettere i movimenti migliori su terreni prima sconosciuti, infidi o accidentati, consentiva pure di disporsi in modo più coerente rispetto a città, villaggi, spazi coltivati e non. Mancava allora al ceto separato dei bellatores un’ulteriore distinzione dal resto della popolazione che, partendo dal New Model Army e dall’esercito del Re Sole, si dà con l’introduzione delle uniformi prima di corpo e poi di nazione. Non più bandiere e gonfaloni con una variopinta varietà dovuta al provvedere di ciascuno per sé o al massimo per i propri uomini, ma appunto uniformi atte a suscitare il sentimento burkiano del sublime nei confronti di avversari o di spettatori delle parate e delle marce musicali. Difficile immaginare nei ranghi serrati ed automatizzati, che si protraggono fino alle immagini cupamente spettacolari degli eserciti pronti alla seconda guerra mondiale, la fuoriuscita in raid rapidi ed estemporanei. Ecco “già quindi nella prima età moderna che noi vediamo profilarsi, lontano ancora ma in modo già netto nei suoi contorni, quel fenomeno della guerra totale che gli eserciti politici della rivoluzione francese avrebbe portato con sé”, quando la leva obbligatoria di massa ci piomberà verso il XIX e XX secolo che “avrebbero regalato all’inerme la guerra non più come obbligo da subire, bensì come dovere da assolvere” (Cardini).

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