Fabio Sandri: il ritorno della macchina fotografica

24 Aprile 2024

Credo che la sorpresa delle ultime opere di Fabio Sandri consista nella ricomparsa della macchina fotografica. Dopo anni, decenni ormai, che l’aveva sostituita con dispositivi di proiezione diretta sulla carta fotosensibile, rieccola significativamente riapparire non solo come strumento ma all’interno delle opere stesse, come loro elemento integrato. Elemento scultoreo? Installativo? Ho visto la nuova mostra alla galleria Artericambi (Verona, fino al 14 maggio, a cura di Luca Panaro) come orchestrata per rispondere a queste domande. Composta da quattro opere, la descriverei per questo come segue.

In una delle opere la macchina è assente, mentre al suo posto c’è ancora una videocamera che proietta l’immagine su carta emulsionata: la prenderei dunque come prima opera di collegamento alle precedenti; d’altro canto la videocamera è applicata a un capo di una lunga asse di legno come lo è in due delle altre opere. Questa lunga asse è una sorta di protesi del corpo dell’osservatore, che egli è invitato a maneggiare per riprendere la scena predisposta dall’artista sulle due pareti ad angolo della galleria, comprendendo o no sé stesso al suo interno. Questa scena è realizzata con delle strisce di piombo lunghe, mi sembra, come l’asse, dunque come sua ombra lasciata sulle pareti e sul pavimento: sono delle linee, “grafia”, come la pesante concretizzazione di un disegno realizzato nello spazio. Lo spettatore che maneggia l’asse-macchina fotografica, diventando autore, disegna a sua volta attraverso la proiezione su una carta emulsionata disposta sulla terza parete. Disegnare con la video-fotografia mi sembra l’argomento, disegno duplice, perché è disegnare proiettando delle linee che sono la proiezione dello strumento stesso: un circolo virtuoso.

Per seconda vedrei, anche per contrasto, una strana asse con macchina fotografica applicata a un’estremità, posizionata stabile a terra. La stranezza è dovuta al fatto che è composta da ben individuabili listelli di parquet: è tutto il pavimento di una stanza smontato e condensato in un sottile parallelepipedo, una superficie dunque diventata tridimensionale, oggetto, scultura. Non è da maneggiare, è fissa, dunque la macchina fotografica è a sua volta fissa: si può scattare da quell’unico punto, a muoversi dev’essere lo spettatore che può farsi una foto davanti ad essa. Siamo passati alla scultura, alla fotografia, allo scatto singolo. A voler essere insistenti, si potrebbe dire che il movimento e la proiezione sono passati all’interno dell’asse, in quella condensazione di listelli.

Come terza considero l’opera in cui videocamera, proiezione e carta emulsionata scompaiono, resta la macchina fotografica, di nuovo applicata a un capo di un’asse come la prima, che va di nuovo maneggiata a discrezione dello spettatore all’interno dello spazio circostante. Accanto ad essa, a parete l’artista ha disposto, diciamo così a titolo dimostrativo, una serie di fotografie tra le tante che si possono scattare. Esse segnano innanzi tutto il passaggio dalla carta emulsionata su cui si proiettano nel tempo immagini che si sovrappongono, alla sequenza di immagini separate, fisse – verrebbe da dire “fissate”, anche qui in duplice senso di scattate perché si è fissata l’attenzione e perché stampate. Senza indulgere ulteriormente, diciamo che qui siamo passati dal disegno alla tridimensionalità spaziale-architettonica d’interno.

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Opera di Fabio Sandri.

Quarta ed ultima opera, una installazione che non comprende più né asse né macchina fotografica (in presenza), una sorta di sparizione dunque, e lo spettatore torna tale. Tornano invece altri elementi: a pavimento è sommariamente ricostruita tridimensionalmente il tracciato della pianta del quartiere intorno alla galleria; questa ricostruzione è composta da strisce di piombo uguali a quelle della prima installazione descritta. Il disegno è diventato mappa, le strisce sculture, lo spazio interno è diventato esterno e l’architettura urbanistica. Tutto insomma è passato a un ulteriore stato. E la fotografia dov’è finita? A parete ecco un’altra sequenza di scatti, come l’altra, realizzati da diversi punti all’interno dell’installazione, con la macchina rasoterra: il risultato è che le strade, gli edifici, il quartiere appare visto dall’interno, le strisce sono diventate muri tra i quali ci sembra di muoversi, percorrendo in soggettiva le vie. Anche la fotografia, mi verrebbe da dire, è passata a un altro stato, quello della simulazione, che, proprio perché approssimativa, non perfettamente illusionistica, svela il proprio carattere di finzione diventando però al tempo stesso qualcos’altro, evocativa, sospesa. (Sandri dice che ha pensato ai paesaggi urbani di Sironi.)

Ora, perché tutto questo non appaia così formalista come dalla descrizione analitica, a che cosa porta questo percorso? A ricordarci la solita cosa, che cioè la realtà, per l’artista – è la sua proposta a noi spettatori –, ha gli stessi caratteri dello strumento, che tutto si lega, che parlando dell’uno si parla dell’altro e con questo, però, lo si guarda, e lo si vede, e lo si pensa, diversamente. Non è il compito dell’arte?

D’altro canto, il titolo della mostra è Provengo da dove mi trovo, al tempo stesso una variante spaziotemporale del nicciano “Diventare ciò che si è” e del nostos, nostalgia del luogo dove in realtà non si è mai stati. Sandri intende che è tornato ad esporre nella stessa galleria dove ha iniziato, ma sa bene, lui che si occupa di spazio, che la galleria non è più la stessa, ha cambiato sede. Il cerchio non si chiude mai, per questo è virtuoso, per questo parlando di arte si parla d’altro, perché a contare è il modo. Si guardi cosa si può fare con la fotografia, come dimostra l’uso che ne fa Sandri. Ecco che cosa fa l’asse di queste sue opere, permette di ruotare, come una giostra, la macchina fotografica a un estremo e l’autore-spettatore dall’altro: soggetto e oggetto, guardare e essere guardato, interno e esterno ruotano nell’azione del fotografare, sul perno del suo lato performativo che rimette tutto in gioco, in circolo, come si suol dire, o meglio in vortice.

Così, per concludere su un falso inizio, a dire il vero, l’esposizione parte, appena entrati in galleria, con una “fotografia” di quelle per proiezione, stampata in un bel colore bronzo, piena di sovrapposizioni dovute naturalmente agli spostamenti della videocamera, in cui a ben guardare però a me pare che si ritrovi tutto. Il circolo si fa così virtuoso grazie all’après coup, la temporalità dell’immagine stessa. In essa tutto quanto descritto torna di nuovo all’inizio, ma ancora una volta diversa, condensata. Chi guarda queste immagini come fotografie? La “fotografia” è diventata un medium, l’immagine arte.

L'pera in copertina è di Fabio Sandri.

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