Siamo tutti sulla stessa barca / Il rompicapo dell'antropocene

9 Aprile 2019

La prua di una grande nave mercantile fende i ghiacci, parzialmente sciolti, di quello che possiamo immaginare essere il mitico passaggio a nord-ovest, che collega Atlantico e Pacifico nei periodi più caldi. Questa immagine, fortemente simbolica, ritorna come un leitmotiv nel film-documentario di Rudy Gnutti In the same boat, in cui diversi esperti – Zygmund Bauman, Tony Atkinson, Serge Latouche, Mariana Mazzucato, Mauro Gallegati, Erik Brynjolffson e l'ex presidente dell'Uruguay Jose Mujica – discutono di globalizzazione e progresso tecnologico. La questione centrale affrontata nel film è la situazione paradossale creata dal sistema attuale in cui, mentre diminuisce la sperequazione economica tra le nazioni, aumenta sempre più quella tra le classi sociali all'interno dei singoli paesi; di conseguenza dappertutto si constata una progressiva riduzione della classe media, da sempre elemento basilare di stabilità politica e giustizia sociale. Ne conseguono ricadute importanti sul lavoro, come la crescita della disoccupazione e, allo stesso tempo, l'insostenibilità dei ritmi lavorativi per chi, invece, ha un'occupazione. Tutto ciò mentre la crescita continua della ricchezza prodotta e della tecnologia utilizzata nella produzione aveva fatto ipotizzare – nel film a tal proposito si cita una previsione dell'economista John Maynard Keynes risalente agli anni '40 – che oggi ci saremmo trovati a vivere mediamente tutti meglio e anche più liberi dal lavoro costrittivo. 

Il problema, spiega il regista in un'intervista, è che «siamo capaci di creare un'enorme ricchezza, ma non abbiamo un sistema economico che consente di 'distribuirla' al maggior numero possibile di persone; o almeno in una forma meno diseguale». E dunque, che fare? La buona notizia è che si può fare qualcosa. La cattiva notizia è che bisogna fare qualcosa al più presto per non cadere in un caos socio-politico. Nel film gli esperti avanzano alcune proposte, ricordando, a chi le ritenga utopistiche, che molte realtà di oggi, quali per esempio la democrazia, l'abolizione della schiavitù o l'uguaglianza tra i sessi, erano utopie solo pochi secoli fa. D'altra parte, per sapere se le azioni suggerite possono funzionare, non c'è altra via che provare a metterle in pratica. 

 

Il messaggio del film è chiaro già dal titolo: siamo sulla stessa barca significa che siamo in una situazione pericolosa in cui o si agisce tutti insieme per salvarsi oppure si annega tutti insieme. Nessuno può sperare di salvarsi da solo e tutti soffriamo lo stesso mal di mare, aggiungeva Martin Luther King esortando all'empatia reciproca. Comunque, anche se fossimo egoisti e duri di cuore, ci sono circostanze nelle quali agire per il bene comune è l'unica cosa ragionevole da fare, a qualsiasi costo. Il problema per Zygmund Bauman è che non abbiamo né remi, né motori né una bussola per condurre velocemente la barca nella giusta direzione. 

 

Continuando l'allegoria, è di vitale importanza porsi anche un altro obiettivo – in realtà deve essere il primo –, ossia tenere in funzione la barca, evitando falle irreparabili e conservandola in buone condizioni, soprattutto se è sovraccarica. Fuor di metafora, stiamo parlando del nostro pianeta e dei numerosi segnali d'indebolimento strutturale che ci sta dando. La Terra si sta modificando troppo velocemente e così radicalmente da far ritenere, a molti esperti, iniziata una nuova epoca geologica, cui si è dato il nome di Antropocene per sottolineare due fatti significativi. Innanzitutto, che abbiamo abbandonato le spiagge note (e relativamente sicure) dell'Olocene, il periodo interglaciale caldo iniziato circa dodicimila anni fa e in cui abbiamo vissuto finora; in secondo luogo, che questo cambio geologico non è stato determinato, come i precedenti, da fattori naturali, ma dalla presenza e dall'attività umana. Nel saggio Il pianeta umano. Come abbiamo creato l'Antropocene (Einaudi), Simon L. Lewis e Mark A. Maslin, studiosi inglesi esperti di questioni climatiche ed ecologia globale, spiegano come e quando reputano sia avvenuto questo cambio epocale. Alla fine di un esaustivo percorso tra geologia e storia economica le loro considerazioni, del tutto in linea con quelle espresse nel docu-film di Gnutti, si riassumono nel «rompicapo dell’Antropocene»: ci troviamo di fronte al compito, improrogabile e tuttavia molto arduo, di raggiungere un livello di uguaglianza globale tra i paesi del mondo nello sfruttamento delle risorse, e dobbiamo farlo restando entro «limiti ambientali sostenibili». Senza un'azione coordinata in tal senso sarà impossibile evitare il tracollo ambientale, cui inevitabilmente, ce lo insegna la storia, fanno seguito quelli economico e sociale. Oggi dobbiamo prendere atto di qualcosa del tutto inedito: una nuova forza della natura, una «superpotenza geologica» si è affiancata ai meteoriti e ai vulcani nel dare forma all'evoluzione della vita sulla Terra, ed è l'uomo. Ecco perché parliamo di Antropocene.

Nel loro libro Simon Lewis e Mark Maslin delineano quattro ambiti in cui la geologia del pianeta e la storia umana s'intersecano: la questione di se e come le attività umane abbiano causato (e stiano causando) cambiamenti ambientali tanto grandi da determinare «in misura crescente il futuro dell’unico pianeta che per quanto ne sappiamo ospita la vita»; la possibilità di individuare tracce concrete di questi cambiamenti nei sedimenti geologici – le future rocce, dispositivi naturali di registrazione di questa tipologia di dati –; siccome «l’Antropocene è l’intreccio fra la storia umana e la storia della Terra», propongono una reinterpretazione della storia dell'umanità «osservando[la] attraverso la lente della scienza del sistema Terra»; infine, dopo avere individuato quattro transizioni strutturali nella storia umana – due legate alla disponibilità di energia e due all'organizzazione sociale –, ciascuna delle quali ha prodotto effetti crescenti sul sistema Terra, espongono le loro tesi sul tempo attuale e alcune ipotesi sui provvedimenti possibili per il futuro. 

 

 

La prima delle quattro transizioni da essi individuate è rappresentata dalla nascita dell'agricoltura (circa dodicimila anni fa) che permise agli uomini di utilizzare una maggiore quantità di energia solare attraverso il cibo, modificò i paesaggi e, col tempo, anche la composizione chimica dell'atmosfera, al punto da favorire «in tutto il pianeta condizioni eccezionalmente stabili, dando alle grandi civiltà il tempo di svilupparsi». La seconda fu invece di carattere organizzativo, e risale al XVI secolo quando gli Europei cominciarono a colonizzare il pianeta, dando inizio alla prima economia globalizzata della storia. «Le nuove rotte commerciali collegarono il mondo come mai prima d’allora. Piante da coltivare e animali da allevare, e molte specie che si trovarono a viaggiare insieme a loro, vennero trasferiti in altri continenti e in altri oceani. Questo scambio transoceanico di specie … diede inizio a un riordinamento globale della vita sulla Terra che è ancora in atto», una nuova Pangea fatta dall'uomo.

 

La terza transizione fu provocata dall'utilizzo sempre più massiccio di combustibili fossili (principalmente carbone), motore e conseguenza a un tempo della Rivoluzione industriale settecentesca. La quarta ha portato a un nuovo cambiamento organizzativo su scala mondiale, che gli autori definiscono "capitalismo di consumo" collocandone l'avvio attorno al 1945, con la grande accelerazione

Il risultato di tutti questi passaggi è che nell'atmosfera di oggi si trova «una quantità di anidride carbonica tale da farle raggiungere il livello più alto in più di 3 milioni di anni», e di conseguenza le condizioni stabili che hanno permesso lo sviluppo delle società umane ci stanno lasciando. È in atto «un esperimento pericoloso con il futuro della civiltà umana», avvertono Lewis e Maslin, perché dopo milioni di anni di alternanza sostanzialmente ciclica di fasi glaciali fredde e fasi interglaciali calde, «nel corso del tempo le azioni umane sono arrivate a produrre … il differimento di una nuova era glaciale e la creazione di un nuovo stato planetario, uno stato più caldo dei periodi interglaciali – un superinterglaciale.»

In quale di questi quattro momenti cruciali si può collocare la fine, ancora ipotetica, del relativamente tranquillo Olocene? E perché dovremmo nominare Antropocene l'eventuale nuova fase geologica della Terra? La scelta della denominazione può sembrare, a noi profani, una questione di lana caprina, ma Lewis e Maslin dedicano una parte del loro saggio a spiegarci perché, invece, è importante in quanto, spiegano, dai dati che si scelgono per stabilire se, da quando e perché ci sia stata una transizione epocale dipendono «le risposte politiche alla vita nell’Antropocene». È chiaro, infatti, che cambia parecchio il livello di preoccupazione e il genere di soluzioni proposte se si considera fattore determinante l'emissione di gas serra prodotti oggi oppure la rivoluzione agricola del Neolitico. 

 

Per arrivare a stabilire una data d'inizio dell'Antropocene, i due studiosi propongono l'esame dei sedimenti geologici, esattamente come si è fatto per tutte le passate epoche della storia geologica, al fine di individuare un marcatore la cui presenza nei sedimenti indichi un cambio nella stratificazione terrestre. Con questo metodo si è potuto stabilire, ad esempio, quando sono cominciate le condizioni interglaciali calde attuali. Analizzando una carota di ghiaccio antartico, in corrispondenza degli inizi del XVII secolo è stata rilevata una riduzione breve, ma significativa, dell'anidride carbonica nell'aria. Quell'epoca segna il momento in cui gli effetti della colonizzazione delle Americhe hanno lasciato traccia nei sedimenti geologici: «Gran parte della diminuzione avvenne perché gli Europei portarono per la prima volta nelle Americhe il vaiolo e altre malattie, causando la morte di piú di 50 milioni di persone in pochi decenni. Il collasso di queste società portò alla riforestazione dei terreni agricoli in un’area tanto estesa che la quantità di anidride carbonica atmosferica assorbita dagli alberi in crescita fu sufficiente a raffreddare temporaneamente il pianeta – l’ultimo momento globalmente freddo prima dell’inizio del caldo durevole dell’Antropocene». 

 

A questo punto l'interrogativo naturale riguarda «il futuro dell’umanità nell’Antropocene. Vi sarà una quinta transizione a una nuova forma di società umana, forse in grado di mitigare i nostri impatti sull’ambiente e di migliorare la vita delle persone?» Oppure, come una colonia di batteri, ci moltiplicheremo fino a esaurire le risorse della Terra e poi moriremo tutti? Speriamo di saperci meritare alla fine il nome sapiens che ci siamo orgogliosamente attribuiti, ricordandoci che sapiens vuol dire 'saggio' e non 'potente'. Qualcosa nei nostri tempi mi ricorda quelli del biblico Noè, quando, secondo il racconto, gli uomini conducevano la loro solita vita, mangiando, bevendo, commerciando e combinando matrimoni, e nessuno s'accorgeva del diluvio che si andava preparando sulle loro teste. Solo Noè lo aveva capito. Ma quelli erano tempi in cui ancora si sperava nell'aiuto di Dio.

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