Armiero e Chakrabarty / Strategie di guerriglia antropocenica

21 Febbraio 2022

Appena apro l’ultimo libro di Marco Armiero mi viene incontro Cuernavaca, che in atzeco nahuatl suona Cuauhnáhuac, "vicino agli alberi", una cittadina messicana di poco più di 150 mila abitanti a 1500 metri sul livello del mare che per me è irrimediabilmente diventata un luogo dell’immaginario. Fu lì, nel vecchio albergo Chulavista, che Ivan Illich nel 1961 fondò il CIDOC, Centro Intercultural de Documentaciòn dove, come lui stesso racconta in una delle sue conversazioni con David Cayley, con la scusa di preparare i volontari per le missioni in America Latina, cercava di farli ragionare e soprattutto rimandarli da dove erano venuti. L’incontro con il suo pensiero mi rivoltò come un calzino, stetti male un’intera estate per uscirne completamente rinnovato e Cuernavaca si guadagnò un posto speciale nel mio atlante intimo che venne rinforzato quando la incontrai di nuovo a teatro, in La notte dell’iguana di Tennessee Williams. 

 

Ritorno a Cuernavaca è il titolo del primo paragrafo di L’era degli scarti. Cronache dal wasteocene, la discarica globale di Marco Armiero, uscito prima in inglese e poi tradotto in italiano per Einaudi nel novembre 2021. Il sorriso sornione di Illich sembra accompagnarci da lontano per tutto il libro: “Fu a Cuenavaca che nel 2000, durante una conferenza, il premio Nobel Paul Crutzen avvertì l’urgenza di annunciare che l’Olocene era finito e che una nuova epoca era cominciata. Will Steffen, uno scienziato che sarebbe ben presto diventato una figura centrale nel dibattito sull’Antropocene, ha raccontato spesso che Crutzen fece una piccola pausa, prima di pronunciare la parola – Antropocene –.” Armiero parte con un breve, puntuale e utile riassunto della nascita e sviluppo del termine Antropocene e dei suoi innumerevoli derivati precisando che il libro “analizza l’Antropocene quale narrazione globale dell’attuale crisi ecologica” e che “alla fine, tutte queste denominazioni mirano a opporsi a quello che è stato percepito come il punto cieco della narrazione dell’Antropocene, cioè l’invisibilizzazione, o per lo meno la sottovalutazione, delle diseguaglianze sociali, storiche, etniche e di genere disseminate sui sentieri che hanno portato alla crisi ecologica contemporanea.”

 

Fatto il punto sulla situazione, passa a proporre il proprio punto di vista. “Si può dire che al centro di ogni storia dell’Antropocene vi sia un qualche tipo di scarto. Sembra proprio che l’età degli umani sia segnata da una tecno-stratigrafia di materiali di scarto che si accumulano nella superficie terrestre. I rifiuti possono essere considerati dunque l’essenza dell’Antropocene, incarnando la capacità umana di influire sull’ambiente al punto da trasformarlo in una gigantesca discarica. È per questa ragione che Massimo De Angelis e io abbiamo proposto di chiamare la nuova epoca Wasteocene, traducibile più o meno come Scartocene o era degli scarti. (…) pensare in termini di Wasteocene significa inquadrare i rifiuti nell’azione che li produce, come un insieme di relazioni socio-ecologiche che creano persone e luoghi di scarto. (…) scartare significa decidere che cosa ha un valore e che cosa non lo ha.” 

 

Ciò che rende la ricerca di Armiero unica nel suo genere è il puntare l’attenzione sul rifiuto inteso non solo come lo si intende normalmente, non si parla solo dell’enorme quantità di rifiuti materiali che la nostra società produce, ma soprattutto di rifiuto sociale: è di esseri umani che si parla, di chi viene rifiutato, escluso, scartato dal sistema. È questo il focus del libro. Non basta sapere che nel mondo si producono 13 tonnellate di rifiuti pericolosi al secondo, quasi 60 chili per ogni essere umano, che dagli anni Trenta al Duemila la produzione di sostanze chimiche è cresciuta da uno a 400 milioni di tonnellate, non basta nemmeno sapere che la distruzione dell’ambiente procede parallelamente alla distruzione della salute delle persone. “Il Wasteocene ripoliticizza la crisi socio-ecologica: scartare è una relazione, non una cosa o un errore a cui porre rimedio. In quanto meccanismo narrativo, il Wasteocene ha il potere di dire il vero, ossia di considerare le ingiustizie non come effetti collaterali, quasi invisibili, ma come l’elemento forte di un sistema che produce ricchezza e sicurezza attraverso l’alterizzazione di coloro che devono essere esclusi. (…) la produzione di persone e luoghi di scarto procede parallelamente alla costruzione di comunità esclusive globali. (…) Chiudendo le frontiere, i Paesi ricchi affermano forte e chiaro che esiste un confine tra chi ha un valore e chi può essere scartato.”

 

 

Un elemento fondamentale è la narrazione, il racconto, che dice cosa di chi e soprattutto chi e cosa viene escluso o neutralizzato dalla narrazione dominante. Armiero, facendo l’esempio del Vajont, propone il concetto di guerriglia narrativa. “Rendere invisibile la violenza, normalizzare l’ingiustizia, cancellare qualunque narrazione alternativa: sono questi i pilastri delle narrazioni del Wasteocene. (…) i modi in cui raccontiamo il mondo influiscono sui modi in cui ne immaginiamo e costruiamo uno nuovo; (…) l’imposizione di narrazioni tossiche e di memorie addomesticate serve a neutralizzare e normalizzare il Wasteocene; la guerriglia narrativa, allora, serve a svelarlo e a smantellarne la logica fondata sullo scarto. (…) Le storie di resistenza esistono da sempre in diverse forme; la guerriglia narrativa dà semplicemente un nome al loro recupero, esplicitandone il carattere intrinsecamente antagonista e mostrando il volto repressivo della narrativa dominante.”

 

Uno dei possibili antidoti alle logiche del Wasteocene è quello che Armiero chiama commoning. “Con questo termine intendo l’insieme delle pratiche socio-ecologiche che (ri)producono i commons, trasformandoli da cose in pratiche collettive, in relazioni. (…) i commons sono sono sia ciò che condividiamo sia le infrastrutture sociali che ci consentono di condividerli. (…) mentre le wasting relationships si fondano sul consumo e l’alterizzazione, cioè sulla decisione di cosa e chi sia da rifiutare, le pratiche di commoning si basano sulla riproduzione delle risorse e delle comunità.” La stessa crisi provocata dal Covid è vista come una delle “epifanie” del Wasteocene, “il Covid-19 ha anche generato esperienze prefigurative nate in seno a comunità subalterne, laddove si è combattuto per abbattere la logica del Wasteocene più che per ripristinarla. Le brecce nel muro non andrebbero riparate, dovrebbero piuttosto servire da leva per buttarlo giù tutto.”

 

Tornando a Cuernavaca e a quel primo paragrafo, Armiero nella sua analisi a volo d’uccello sull’evoluzione del pensiero sull’Antropocene, non può fare a meno di citare il pensiero del bengalese Dipesh Chakrabarty. Nell’ottobre 2021 Nottetempo ha fatto uscire Clima, Storia e Capitale, a cura di Matteo De Giuli e Nicolò Porcelluzzi, che riunisce due suoi articoli che hanno influenzato tutto il dibattito successivo: “Il clima della storia, quattro tesi”, del 2009 e “Clima e capitale: storie congiunte” del 2014. Sulle quattro tesi di Chakrabarty si è sviluppato il dibattito sull’Antropocene nell’ultimo decennio ed è utile ricapitolarle. La prima è: “Le spiegazioni antropogeniche del cambiamento climatico comportano la crisi della secolare distinzione umanistica tra storia naturale e storia umana.”

 

Da storico, il bengalese parte dall’idea di Vico “che noi umani possiamo avere una vera e propria conoscenza solamente delle istituzioni civili e politiche perché sono opera nostra, mentre la natura rimane opera di Dio e, in ultima istanza, imperscrutabile per l’uomo.” Volenti o nolenti, come abbiamo più volte ripetuto, l’immaginario dell’Antropocene ha reso di colpo obsolete molte delle nostre convinzioni, non solo cambiando le carte in tavola, ma togliendo la tavola. Oggi è ovvio parlare di noi umani non solo come agenti biologici, ma anche come forza geologica e questo ha come corollario il crollo immediato di qualsiasi separazione fra storia umana e naturale e il suo totale ripensamento. Chakrabarty ricorda che già Braudel andava in questa direzione e ci parla della strada che indica Daniel Lord Smail, cioè la visione di noi umani in termini di storia profonda, considerando almeno i trecentomila anni di esistenza come Sapiens. 

 

La seconda tesi è: “L’idea di Antropocene, la nuova epoca geologica in cui gli esseri umani esistono in quanto potenza geologica, ridimensiona in maniera decisiva la storia della modernità/globalizzazione”; la terza: “L’ipotesi geologica sull’Antropocene ci obbliga a mettere in relazione le storie globali del capitale con la storia della specie umana”; la quarta: “Intersecare la storia della specie con la storia del capitale è un processo che mette alla prova i limiti della comprensione storica”. Ciò che ne viene fuori, rileggendo a distanza di un decennio le parole di Chakrabarty, è un’analisi che punta i riflettori su un elemento che si sta rivelando sempre più decisivo, sia se lo si prende in senso storico che come metodo di lavoro: la prospettiva della storia profonda. Rileggere l’evoluzione delle nostre forme culturali in questa ottica può essere molto utile al dibattito sull’Antropocene e su tutte le sue varianti. Spesso le narrazioni tossiche sono facilmente riconoscibili dal limitato o nullo uso della dimensione temporale. Usare la prospettiva della storia profonda è una delle migliori armi per una guerriglia narrativa efficace. 

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