The Conversation: né libertà né sicurezza

2 Agosto 2013

“Un popolo che rinuncia alla libertà per la sicurezza non merita né libertà né sicurezza”. Benjamin Franklin non aveva dubbi sulla scelta che gli Stati Uniti avrebbero dovuto compiere: la sicurezza, se implica il sacrificio della libertà, è un vantaggio a cui dire “no grazie”. Le recenti rivelazioni di Edward Snowden sul Prism, il programma di sorveglianza elettronico segreto dell'Agenzia di sicurezza nazionale americana, oltre a mettere in crisi l'amministrazione Obama, ripropongono il problema della compatibilità di sicurezza e libertà. Un popolo spiato è un popolo libero? No, non lo è. E sospettarlo o scoprirlo non migliora le cose, anzi, può farle deflagrare. Lo sa bene la celebre coppia origliata da un grande Gene Hackman nel film del 1974 di Francis Ford Coppola, “The conversation”.

 

 

Il film sceglie la prospettiva degli “spioni”, e in particolare quella di uno specialista in intercettazioni, Harry Caul, in preda a una profonda crisi di coscienza. L'intercettatore Caul sopravvive al suo lavoro non ponendosi domande su quello che ascolta e rinunciando ad avere un'autentica vita privata. Ossessionato dall’idea di tutelare la propria privacy, vive spiando, senza però concedersi il minimo piacere voyeuristico, con l’illusione di conservare in questo modo un'integrità morale alla quale sembra tenere molto. Solo un sassofono rompe di tanto in tanto la quiete asettica della sua casa. Un silenzio necessario per contrastare l’inquinamento acustico a cui è sottoposto durante il lavoro. Come se le conversazioni degli altri, seppur non ascoltate, saturassero le sue orecchie e la sua mente. Ma l’abbandono di una donna e la percezione di mettere a rischio, con le sue registrazioni, la vita di due giovani innamorati, lo risvegliano dal sonno della coscienza. Un risveglio che non porta a gesti eroici, ma alla crescente consapevolezza di essere passati dall’altra parte, fino ad approdare alla paranoia. Già, con la crisi di coscienza degli spioni cominciano i guai, almeno per loro. Julian Assange ed Edward Snowden potrebbero testimoniare.

 

 

Per gli spiati, invece, i guai cominciano prima, con il sospetto, con il dubbio che la propria vita privata sia continuamente sotto attacco. Nonostante ciò affidano quotidianamente informazioni personali ai colossi della Silicon Valley, sospendendo il dubbio in nome del bisogno di essere “social”. Senza scivolare in complottismi o sentimenti nostalgici, viene da chiedersi se non sia il caso di mettersi il cuore in pace sul fatto che non si può essere, a un tempo, del tutto liberi e del tutto connessi. Diverso comunque il caso che questa cessione di libertà non sia accordata più o meno consciamente, ma trafugata in nome della sicurezza nazionale. E l'aggravante è che questo furto sia frutto di accordi segreti tra il governo di una nazione e gli ineffabili vertici dei colossi informatici. Il fatto è che a sentirsi spiati non ci si sente più sicuri, anzi, il rischio è di sentirsi costantemente in pericolo. A cosa serve essere sicuri se non ci si sente sicuri? La sicurezza reale è minata dall’insicurezza psicologica. Se poi il fine è buono, “per la nostra sicurezza”, il sentimento poco cambia. Si potrebbe obiettare che un popolo a cui il proprio governo non garantisce la massima dose possibile di sicurezza non sia un popolo libero, ma questo sarebbe l'ennesimo tentativo di dare un contenuto al concetto di libertà: “la libertà è essere uguali”, “la libertà è essere autarchici”, “la libertà è essere sicuri”.

 

 

Il punto è che, come ha sostenuto il filosofo Isaiah Berlin, dare un contenuto al concetto di libertà (libertà positiva o “libertà di”) implica in sé il rischio che questo contenuto si riveli la negazione della libertà stessa. Il modo più sicuro per garantire la libertà, anche a costo di perdere qualcosa, è definirla in negativo, come limite invalicabile da nessun individuo o corpo politico che anche agisca in nome del vero o presunto bene comune. “Se ci fosse un popolo di dei, si governerebbe democraticamente. Un governo tanto perfetto non si addice agli uomini”. Parafrasando Rousseau, uno dei più celebri sostenitori della libertà positiva, si potrebbe dire una cosa che non gli piacerebbe: “Se fossimo guidati da un governo di dei, non si porrebbe il problema di dover scegliere tra libertà e sicurezza”. Ma non lo siamo, ed essere sorvegliati non ci fa sentire più sicuri, né tanto meno più liberi.

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