Idealizzare Rio

6 Giugno 2012

Riguardo alla cartolina precedente, sono stato criticato per avere idealizzato Rio. C’è anche un’idealizzazione al contrario, che viene da Rio e riguarda Rio. Esco dal Metro, chiedo per Lapa, due signore mi sconsigliano di andarci da solo, penso: “ma mi hanno visto?”, loro non ci sono mai state, e lo capisco. Lapa è un centro culturale alternativo, ma è anche quasi una favela. C’è un vecchio garage, gestito da due anziani signori neri, che ospita installazioni. Sul soffitto c’è appesa una Volkswagen maggiolino capovolta, ridipinta, senza motore. Sembra volare. Un’altra istallazione, situata sul muro, si chiama uteropodio. Rizoma di chiodi uniti. Formano un grosso spermatozoo in corsa verso una sorta di podio, ovviamente una vagina. Uno dei due proprietari ha lavorato a Parigi e parla un bel francese con accento carioca. Mangia una zuppa e condividiamo una birra. A un tratto arriva un gruppo di giovani che sfodera strumenti musicali, di lì a poco l’orchestra suona un samba jazz molto gradevole, strumentisti eccellenti, Beto Monteiro al clarinetto.

 

In ogni angolo della via senti provenire musica dalle case, ti inoltri nei portoni, non senza immaginare che, dal buio della scala, possa sbucare un ratto. Poi, quando sei salito, luce, gente che balla e suona. Le scuole di samba. Bambini scalzi che giocano a calcio per strada, alle dieci di sera, strade piene di gente, uomini che ti chiedono sigarette. Più avanti, in una zona meno affollata, viados. Poi arrivi a un albergo, una locanda strana, ti viene in mente quella che ospita l’agrimensore del Castello di Kafka. C’è qualcosa nell’aria che ti dice: meglio non inoltrarsi oltre la locanda. Sono spariti tutti. Sosti un po’, guardi la strada in salita, deserta, a non più di cento metri dalla folla della via della Lapa, ci pensi. L’esperienza delle scale si ripete in forma aumentata. Magari, dopo essermi arrampicato un po’, trovo ancora gente che balla; passa di lì un uomo, mi fa segno di no con la mano, poi alza il braccio come a indicare l’orologio. Capisco che a mezzanotte è meglio non inoltrarsi. Domattina alle nove devo essere al lavoro, ottima scusa.

 

 

Il giorno dopo vedo la gente (come si dice qui) che lavora con me. Racconto loro della mia visita, mi dicono: “Ma sei andato da solo? Se lo sapevo ti accompagnavo io, è pericoloso!”. Lapa è un posto da visitare, Lapa è un posto da evitare. Non è favela, ma le somiglia, metà e metà.

Nella mente borghese delle città americane c’è sempre un posto oltre il quale non inoltrarsi. È il posto dell’alterità, non è propriamente un ghetto. Il ghetto era collocato fisicamente. Queste aree urbane sono mentali. Stanno a New York, a Chicago, a San Francisco, come a Buenos Aires, Bogotà, Rio de Janeiro. Al Nord come al Sud la mappa mentale della classe media americana immagina i luoghi del cannibalismo. Oltre un certo limite, una strada, un numero civico, la civilizzazione di Hernan Cortés e dei Gesuiti non è mai arrivata.

O meglio, si è come agglutinata ai riti africani e alla cultura indigena. Le possessioni meravigliose di Greenblatt (Marvelous Possessions: The Wonder of the New World, 1992) non sono mai giunte qui nel modo in cui le sognava il colonialismo. L’eccedenza che cercavi la trovi qui in città, non nelle foreste. Incontro Eduardo Vieviros de Castro, famosissimo antropologo, si parla di Osvaldo de Andrade (1890-1954).

 

“Poeta e pioniere del modernismo brasiliano, stilò il famoso Manifesto Antropofago nel 1928. Sosteneva che i coloni non avevano consumato i brasiliani indigeni, al contrario questi ultimi avevano mangiato la cultura coloniale impossessandosi di ciò che i coloni rispettavano per produrre una sintesi ancor più forte... un processo dialettico in cui un concetto viene cambiato e mantenuto, contemporaneamente.” (Eduardo Viveiros de Castro, The Inconstancy of the Indian Soul, Prickly Paradigm, 2011, pp. 15-16, trad. dall’inglese)

 

Lapa ricorda i quartieri malfamati di Londra e Parigi, con una differenza. Qui, come fino ad alcuni anni fa ad Harlem, è sconsigliato andare, leggenda metropolitana, pregiudizio piccolo borghese. Invero qui ti senti sulla bocca dell’inferno. Oltre, la notte, meglio lasciar stare. I luoghi dell’alterità hanno gradienti di profondità, il confine di sicurezza segnala un panorama che cambia in modo continuo, poi una discontinuità spazio-temporale. Non si tratta di andare a suonare di notte i campanelli, come facevi da ragazzino con gli amici, ogni viltà convien che qui sia morta.

La rappresentazione urbana dell’altro consiste in questo buco nero, penetrabile solo dagli squadroni militari, tropas de elite, che massacrano leggendo Foucault. Sintesi hegeliana, descritta sopra da Viveiros de Castro. Non è un ghetto, è un rizoma - come i chiodi di uteropodio - di zone inesplorate e inesplorabili.

 

 

Si dice che ora le cose vadano meglio, nessuno ci crede. All’uscita del Metro trovo una mostra fotografica, la prima è una foto aerea di Rio, le favelas. Sotto c’è scritto all’incirca che il governo ha dichiarato di avere ridotto la popolazione delle favelas, seguono cifre. Poi continua: nel 2020 si prevede un aumento delle popolazioni delle favelas, con un dato triplo rispetto a quello attuale. Chiedo alle due signore che mi sconsigliano da andare a Lapa che significa. Mi paiono due affermazioni in contrasto. Rispondono: questo è ciò che dichiara il governo di Rio (destra) questa la previsione demografica. Nessun contrasto, le dichiarazioni del governo sono false, m’informano. O forse sono vere, aggiungono, in tal caso si tratterebbe degli interventi militari, quindi di morti. Ma non ci saranno le Olimpiadi e i campionati del mondo? Stanno arrivando gli architetti migliori del mondo per riurbanizzare le favelas! Dico io. Loro mi guardano attonite. Penso che gli architetti per loro sono quei signori di sinistra che hanno portato via la capitale da Rio per inventare Brasilia. Se accendi la tivù ogni tanto li vedi nei documentari culturali. Fanno disegnini strani, parlano dietro a un plastico di Brasilia, sembrano bambini che giocano, come facevamo col trenino elettrico, con l’aria da intellettuali. Qui ognuno sa che Brasilia è stata un disastro ecologico. Avranno il mito di Lapa, queste due signore, per il resto mi par che vedano le cose come stanno.

 

L’idealizzazione di Rio passa per l’inferno, sembra il giardino delle delizie di Bosch, un’imponente sintesi dell’umanità intera, con tutte le sue indispensabili dannazioni. La differenza tra un cittadino di Rio e l’altro non è inferiore alla differenza tra Hegel e un abitante del neolitico. Si tratta di capire in che modo questo abitante del neolitico abbia divorato Hegel, l’abbia tolto e mantenuto.

A chi mi ha rimproverato per avere idealizzato Rio, rispondo: spero di essere stato sufficientemente irriverente.

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