Italo Lupi. L'autobiografia grafica

16 Gennaio 2014

Trovo questa frase nel bel mezzo del volume che sto sfogliando con crescente ammirazione per l'immensa quantità, e qualità, di lavoro che vi è raccolta. «Questo libro tratta di argomenti che si prestano alla nostalgia: ma per quanto possibile si tiene alla larga dalle rievocazioni sentimentali: questo è un libro sulla nostalgia piuttosto che un libro nostalgico». La frase è di Giannino Malossi e Italo Lupi, l'autore del libro che guardo, l'ha inserita per parlare di quello che definisce «forse il progetto più divertente della mia carriera».

 

Si trattava, anche allora, di un libro, dal fantastico titolo di This Was Tomorrow (Gruppo GFT, 1990). E la parola «nostalgia» ricorre anche qui, ora, e ripetuta più volte, fin dalle prime pagine. Ma questo che abbiamo tra le mani no, non è, per niente, un libro sulla nostalgia. E nemmeno un libro nostalgico. Al contrario. L'Autobiografia grafica di Italo Lupi – un "manufatto cartaceo" atteso da tempo, cesellato fino all'ultimo da lui stesso, che lo ha elaborato con amore, e accompagnato con rispetto dall'editore Corraini, che ne ha assecondato tutte le minutaglie d'autore, e che necessita, ora che esiste, ed è così riuscito, di una mostra, di più mostre, che ne siano coronamento – è un libro sulla gioia e sul divertimento; anzi sul gioco, sulla felicità di progettare, di creare, di "saper fare" e "saper vedere". Per sé e per tutti gli altri.

 

 

La dimensione del gioco, credo non a caso (o magari sì, o magari è un gioco del caso), appare fin dalla copertina. Lupi sceglie infatti tre giocatorini di calcio colorati che campeggiano su fondo nero, da un manifesto che realizzò per lo stadio di San Siro nel 1990 e, in quarta, un bellissimo campo di calcio stilizzato – piccola architettura bidimensionale di gesso su asfalto – con undici tappi a corona, schierati in formazione: ogni tappo un'area nella quale si è cimentata la ostinata, rigorosa, liberissima fantasia progettuale di Lupi, dalla grafica editoriale agli allestimenti, dai poster alla tipografia, dall'advertising al disegno urbano, senza dimenticare i luoghi di provenienza (le Langhe) e d'elezione (Londra). Davvero: una mole impressionante di idee. E di scale di progettazione.

 

Alt. Passo indietro. Stiamo parlando di un'autobiografia. L'autobiografia, però, "grafica", di uno di quei maestri che, quando giocate a fare la top ten dei grafici italiani dell'ultimo mezzo secolo – cioè da quando Lupi è sulla scena – non dovete dimenticare di inserire (siamo nel campionato dei Munari, Huber, Steiner, Grignani, Vignelli...). Bene: la parte autobiografica "stretta" è risolta in 14 righe, elegantemente, direi britannicamente, collocate nell'ultima pagina. Riassunto: I.L., nato a Cagliari nel 1934, si laurea in architettura al Politecnico. Si dedica agli allestimenti, a progetti coordinati di graphic design, è consulente de La Rinascente, di Ibm Italia, della Triennale, art director di «Domus» e poi direttore e art director di «Abitare», ha disegnato la grafica di tante grandi mostre e musei, ha progettato (con Migliore e Servetto), il Look of the City di Torino per le Olimpiadi 2006 e per i 150 anni d'Italia (ancora oggi sulla Mole), è Royal Designer ad honorem a Londra, ha ricevuto due compassi d'oro, il German Design Award e una marea di altri premi, è membro dell'Alliance Graphique Internationale dagli anni 70... Basta, e avanza.

 

Di tutto ciò, Lupi non ci parla. «British» dentro (ma milanesissimo per scuola grafica) sceglie di "mostrare" ciò che ha fatto. E per farlo deve scardinare l'idea stessa di biografia. Non una sequenza cronologica, ma un registro visuale squadernato su doppie pagine di ciò che ha importato (dai due adorati Saul, Steinberg e Bass, a Ben Shahn a Ravilious) nella sua formazione, e di ciò che ha realizzato – compresi i progetti bocciati, grande signorilità, accanto a quelli che lo hanno reso famoso. I testi suoi, sobri, intrisi di pudore, sono affiancati da ripubblicazioni di saggi di amici, collaboratori e compagni di viaggio di una vita – compresa, anche qui: chapeau!, una stroncatura, proprio su queste pagine, di un suo logo della Triennale. E, alla fine, questo libro (in italiano e inglese, già pronto per una platea internazionale), è da guardare, riprendere, consultare, discutere, rivedere.

 

C'è un'intera cultura del progetto visivo che culmina – così mi pare ora – negli interventi di Disegno Urbano, i più "clamorosi". Chi di voi si ricorda la bellezza di Torino imbandierata, con quelle bandiere così tipiche di Lupi (alte e strette), di rosso cinabro per le Olimpiadi 2006 capisce. Lupi ha letteralmente cercato di "impaginare" le città, oltre che giornali, libri, manifesti. Con un segno che si fa sempre più nitido, razionale, privo di orpelli, quanto mai "pensato". Forse una delle doti più caratteristiche della sua carriera è quello di essere un "grafico-pubblico", più che un "grafico-artista". Ossia, Lupi ha privilegiato l'impatto pubblico del (suo) pensiero grafico. Mirabilmente con i suoi lavori, diciamo così en-plein-air, e tenacemente come veicolo della cultura del progetto e della discussione pubblica su tali argomenti da uomo di editoria negli anni di «Domus» e «Abitare», da lui diretta con piglio da capitano (come lo chiamano alcuni suoi allievi).

 

E "capitano" è termine perfetto (riprende la metafora calcistica), per descrivere questa sua navigazione in mezzo secolo di idee creative. Seguendo la scia di predecessori e maestri illustri – su tutti Achille Castiglioni – ma inoltrandosi in una rotta tutta sua, personale e originale, irriducibile a un gioco di influenze, rimandi, citazioni. Insomma: è "tempo da Lupi" da 50 anni in qua per la grafica italiana e penso che questa sua anomala, e riuscitissima, Autobiografia non indichi solo una strada personale ma anche un tragitto collettivo – a volte ormai datato, ma più spesso ancora fonte di ispirazione – che possa servire alla nuova generazione di grafici (se ci sarà). In «bocca al Lupi» a tutti loro: che sappiano fare con uguale «bellezza e allegria» la loro carriera. Non dimenticandosi che il più bel ritratto è sempre sì una foto (come quella di Luigi Ronchi, in ultima pagina) ma ritoccata a dovere da Steven Guarnaccia. No, no, niente nostalgia. È ancora – è sempre –, tempo di prendersi in giro, tempo di giocare.

 

Questo articolo è apparso in precedenza sulla Domenica del Sole 24ore

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