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Milano Roma Palermo: città in bicicletta

15 Luglio 2012

Sono pochi mesi che abito a Milano e che possiedo una bicicletta. Potremmo dire quindi che la bicicletta impara al mio stesso ritmo le strade nuove, le connessioni tra i posti, gli angoli, le scorciatoie. Io e la bicicletta scopriamo all’improvviso che da un punto A a un punto F non c’è bisogno di fare il percorso A-B-C-D-E-F, ma che tagliando da C si arriva subito ad F. F si presenta quindi come una rivelazione; la scoperta che lo spazio è meno astruso di quanto appaia, che si può misurare, attraversare ed eventualmente, per colmo di stanzialità, viverci dentro.

A Milano ovviamente mi perdo sempre. La bicicletta asseconda la mia velocità (lentezza?) di apprendimento dello spazio, la mia fiducia nella percorribilità e abitabilità della città. Se imparerò le strade allora potrò dire che a Milano ci abito, o forse vorrà dire che è arrivato il momento di andarsene, perché non c’è più nulla da imparare. Forse è per questo che dilaziono l’apprendimento: questa marcia di avvicinamento in fondo mi piace. Una volta che mi perdo, il viaggio diventa non più un itinerario diretto verso un punto, come si usa qui, ma ritorna ad essere ciò che era quando da bambina ho imparato a pedalare: una passeggiata. Quando ero piccola, la bicicletta mi serviva principalmente per andare a imparare i posti; lasciavo tutti dietro di me e andavo a esplorare gli angoli che gli altri ignoravano: una vasca che doveva essere piena di pesci e invece era vuota, un museo che doveva essere aperto e invece era chiuso, i campi tutt’intorno al paese, che specialmente alle sette di sera mi sembravano bellissimi, l’ultima strada, con le case che davano sull’aperta campagna, e poi il gelso, le carreggiate enormi. Nel mio paese c’erano le pedonali, strade larghe per i soli passanti che correvano parallele alle strade per le macchine. Le pedonali erano sostanzialmente ignorate da tutti, tanto che ci passavano macchine tricicli biciclette pedoni trattori, e venivano usate più come parcheggio che come posto in cui camminare. Cominciavo a passeggiare in bicicletta all’inizio della primavera, al tramonto, con la mia bicicletta rosa con cestino bianco, andando piano e attraversando una per una tutte le strade di Gibellina (tempo di percorrenza 45 minuti circa). Insomma, la bicicletta non era altro che un’espansione della mia voglia di vedere quello che mi stava attorno, quasi un altro organo di senso.

La distanza che crediamo di poter percorrere, a piedi o in bicicletta, è la misura della nostra immaginazione. Quando a Palermo la signora danese che mi ha venduto la sua bicicletta mi ha detto che nelle settimane che aveva passato a Palermo aveva pedalato abitualmente dal centro città alla spiaggia di Mondello (tempo di percorrenza: due ore per una signora danese sessantenne, per un palermitano: incalcolabile), è stato allora che ho capito che le differenze antropologiche esistono eccome, e che esiste un abisso reale tra l’immaginario ciclistico e pedonale nordico e l’immaginario devoto alla macchina del sud da cui provengo, e soprattutto che io non sarei mai stata ciclisticamente all’altezza della signora in questione. Il mio commiato da Palermo, anche quello l’ho fatto in bicicletta. Qualche giorno prima di andare via sono salita sulla bici della signora danese e ho fatto tutto il giro del centro storico, mentalmente dicendo addio ai pentolai di via Chiavettieri, ai dottorandi tardivi seduti ai tavoli del caffè Garibaldi, agli sfaticati di piazza sant’Oliva, alle panchine a pois del Foro Italico, al passito della Vucciria, al pesce della Kalsa. A tutto questo io e la mia bici abbiamo detto ciao ciao, con il nostro alfabeto di diaspora.

Poi, abitando a Roma, ho scoperto che se questa distanza tra la praticabilità teorica di un luogo e la sua messa in moto (o messa in spazio) era breve a Palermo, nulla a Gibellina, relativamente breve a Milano, a Roma era massima: nessuno lo dice, ma Roma è un deserto che non può essere attraversato da gambe umane, soprattutto se le sue dune sono la circonvallazione est. Proprio per questo gigantismo l’idea di andare in bicicletta a Roma non era neppure da prendere in considerazione, come mi spiegarono gli abitanti del luogo. In periferia ti arrotano in due secondi, mi dissero, e fu questo, oltre al gigantismo, a fare della casa sulla Prenestina prima di tutto un luogo da cui era difficile, se non impossibile, spostare lo sguardo e le gambe verso il resto (il centro) della città. E chiaramente, di un luogo da cui è difficile uscire, è bene diffidare.

Per questo, credo, le piste ciclabili, per non parlare della civiltà del ricambio dei pezzi, esercita su di me e sui miei amici palermitani e napoletani trasferiti a Milano una seduzione lenta ma inesorabile. Un giorno, perdendomi, mi sono imbattuta in uno speaker’s corner in cui una signora sul piedistallo invocava più bici, più ciclisti, più piste ciclabili. Questo appello alla civiltà della bicicletta, a me fuoriuscita da un posto dove fossero-questi-i-problemi e tutto-sommato-ci-sono-cose-più-importanti-di-cui-occuparsi, ha provocato un vero moto di gratitudine.

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