Speciale

Roscigno e Corleto / Paesi e città

27 Giugno 2012

Roscigno è uno di quei paesi che raggiungi in due ore e visiti in venti minuti. Ma anche uno di quelli in cui il tragitto è parte integrante della méta. Oggi, per esempio, ho osservato per la prima volta le ghiandaie, uccelli visti finora solo impagliati sulla libreria di mio padre.

 

La Salerno-Reggio Calabria è deserta. Così, in breve tempo raggiungo un paesaggio che si fa presto Lucania: silenzi, poiane, prati e grano, cieli alti davanti e, di lato, la maestà selvatica delle montagne. Ogni tanto vedi tesori non meno importanti di un museo o di un parco archeologico: casolari abbandonati, antichi rifugi di contadini e pastori, vuoti e come riassorbiti dalla vegetazione. Alla mia sinistra un pendio roccioso coperto d’ulivi. Qui le olive non si raccolgono perché non conviene. Se ti fermi a raccoglierle non viene nessuno a reclamarle. Nascono e muoiono, come gli insetti e le pietre, senza testimoni.

 

In cima alle montagne, piccoli paesi quasi del tutto disabitati. Le case restano raccolte nella pronuncia ferma di colori che sembrano sorti dalla pietra, fatti della stessa fibra dei tronchi, dello stesso incarnato della paglia e dell’argilla. Sono case in coro, in cui ogni colore chiede il permesso a quello accanto, come a quello del cielo e del paesaggio intorno. Qui i bianchi e gli azzurri non sono quelli del Salento o della Costiera; sono bianchi a voce bassa che hanno sempre un po’ paura del tempo che cambia all’improvviso, del sereno che dura poco. A valle, gli anziani che un tempo abitavano quei borghi, trascinati dai figli e dai nipoti, vivono in costruzioni alla rinfusa. Nei paraggi vedi aree di campo come arredate da un ciclone; trattori, rimorchi, cataste di legna, teli di plastica ed utensili sparsi senza criterio per ettari.

 

La nostalgia non serve. Quegli anziani, oggi, le case che tanto affascinano i turisti non le vogliono più sentire nemmeno nominare. A loro ricordano una vita fatta di miseria, di stanze buie, fredde e strette, un po’ cucina e un po’ stalla, in cui le cose da fare non consentivano di accorgersi della grazia di un otre o di un piatto rammendato. Chi le abitava aveva ricevuto poco e dato ancora meno. La carezza, il bacio scambiati il giorno del matrimonio bastavano a tirare avanti una vita intera. Poi, solo figli e fatica. Il contadino che cinquant’anni fa curava gli ulivi ora liberi dal giogo del raccolto, su quella roccia saliva col mulo e con le mani. Del paesaggio intorno forse non si era mai neppure accorto, spianato da una fatica che la sera lo predisponeva solo alla cena, al silenzio, ai no, e di notte a cercare, più che la moglie, le figlie. È stato proprio chi abitava queste case a volersene scendere al paese nuovo in costruzioni che finalmente avevano un bagno, una doccia, luce ed acqua calda, stanze grandi e balconi. Sono stati loro a volere l’infisso in alluminio dorato, gli intonaci con gli effetti a stucco veneziano, i nani in giardino, le copie di Veneri greco-romane e le statue di Cristo e Padre Pio dappertutto.

 

Ora conta riprendere il largo verso il terreno sgombro. Arrivo a Roscigno. Il clima è quello giusto per visitare posti come questo: coperto, tiepido, immobile. Il vecchio borgo è un agglomerato circolare di case diroccate, oggi adibite a ricovero per mucche e vitelli. In quella che una volta era una cucina è stata fissata la ringhiera di un balcone; dietro, tre maiali. Un museo della vita contadina, chiuso. Nel prato accanto alla fontana, un tronco vuoto giace accasciato a ridosso di muri di cui sono rimasti solo le pietre e i balconi. Nella piazza si è cercato di ricostruire qualche abitazione nel rispetto dei materiali di un tempo. Ma questa è una pietra senza rughe e senza sale che non interessa a nessuno. I pochi visitatori vengono qui apposta per visitare il mai più. Roscigno è un paese senza tacchi. È un vecchio che ha fatto i suoi anni e che non vuole viverne altri. Qui si vengono a guardare le gambe spezzate dei solai, le cataste di vecchie mattonelle come un mucchio di scarpe in guerra, la finestra sventrata che si apre su un paesaggio fatto solo di distanze e di ulivi, la manopola di porcellana rimasta attaccata al muro, le ossa di un cane, i cocci di un piatto. Si viene a passeggiare lungo vicoli diventati col tempo torrenti di un’erba che non perde la sua incandescenza nemmeno nell’uggia di novembre.

 

In questo borgo non vive nessuno, a parte il signor Giuseppe, un vecchio che avevo notato accanto alla fontana al mio arrivo, ma che poi era sparito, e che mi aveva colpito per il suo aspetto garibaldino: pipa, cappello, barba, una camicia bianca, pantaloni e gilet in feltro nero. Lo ritrovo poco dopo, di nuovo accanto alla fontana. Gli chiedo come mai il museo è chiuso, se è lui il custode. Mi risponde che non è il custode, ma un “libero abusivo autorizzato”, e che quindi sì, il museo lo apre lui. Prima però vuole che visiti la sua casa. Nelle stanze tutto l’essenziale è rimasto come prima che il cuore del paese si arrestasse: uno sgabello per la mungitura, un camino con la bocca in pietra, una pentola in rame piena di riso al pomodoro. Sulle mensole di legno: otri, fiaschi, tegami, utensili, cesti pieni di frutta secca. Appesi in alto, grappoli di agli e di peperoncino, un caciocavallo, due salami. Accanto alla cucina, un soggiorno con un giaciglio sistemato a terra, una credenza con vecchi piatti accatastati, lampade ad olio in terracotta, una damigiana per il vino accanto a tre paia di scarpe in cuoio. E poi un lungo tavolo coperto da libri, cartoline, dalle centinaia di fotografie che i visitatori gli hanno scattato e da più parti spedito. Giuseppe mi mostra con orgoglio un libro con dedica a penna, scritto dall’Onorevole Gasparri che è originario di Roscigno, e di cui, quand’era muratore, Giuseppe aveva curato le proprietà in paese. Mi fa vedere il calendario che un fotografo tedesco ha realizzato con le sue foto. Accetta con piacere che lo fotografi anch’io. Non sorride e non è serio. Si mette in posa, ma non guarda mai l’obiettivo; alza la testa, la pipa in bocca, e fissa un punto lontano ben oltre l’orizzonte.

 

 

Gli domando se vengono molti turisti. Giuseppe sorride, e roteando la mano in aria dice: “ Turisti, parola grossa!”. Io, invece, sono arrivata a Roscigno proprio per il passaparola di molti che, attratti dal turismo nei paesi fantasma del Sud, vi sono stati e tornati. Giuseppe sa della sua somiglianza con Garibaldi e un po’ ci marcia, ma si affretta a precisare che non ne è affatto contento, perché se “a-ssurd” - come dice lui - le cose non funzionano è colpa di Garibaldi e del Vaticano, e che per questo, in segno di contestazione, da qualche anno è diventato cattolico “protestante”.

 

L’orario è cambiato e fa buio presto. Gli chiedo l’indirizzo per spedirgli la foto. Giuseppe mi regala un libro sulle bellezze della Campania. Scritto a penna sul frontespizio, il suo nome, l’indirizzo, e quello del suo fan club su Facebook.

 

Sulla via del ritorno decido di fermarmi a visitare Corleto Monforte. Mi era piaciuta, passando all’andata, la visione di un paese rimasto ancora abbastanza in confidenza col proprio passato. Sono le sei di sera. La gente è in chiesa. Mi fermo al bar per un caffè. Un giovane gioca con rabbia a una macchinetta del Super Mario Game. Un signore poggiato al bancone chiede un bicchierino di VOV. All’interno, dietro una cortina di patatine e cioccolate, c’è una sala con pochi tavoli. Sedute, due coppie di giovani: una chatta su Facebook da un portatile, l’altra gioca a dama. Mi colpisce la riproduzione in resina gialla di un bassorilievo greco-romano circondato da una cornice di lampadine blu elettrico. In fondo alla sala, un tavolo da biliardo vuoto davanti a una finestra non inquadra altro che montagne, lievi come garze, dall’indaco al blu oceano della sera, senza case, senza strade. In piazza, alcuni signori giocano a carte sui tavolini del circolo, spostati sul marciapiede di fronte. Chiedo conferma dell’esistenza di una parte vecchia da visitare. Si fa avanti uno di loro, e mi spiega che visitare qui vuol dire fare un giro perché non c’è niente da vedere. Devo svoltare a destra e salire. Dove: a destra, a sinistra? E lui: “Salite a fiducia”.

 

Lasciata la fontana del Municipio entro nel ventre del paese. I vicoli sono deserti. Qui c’è posto solo per finestre chiuse illuminate dal raggio radente delle lampade. Qualche geco sui muri, un cortile con un nespolo maestoso al centro, un antico pozzo, piccoli recinti con galline e conigli. Cani randagi dal pigro latrato, cani in catena acquattati accanto agli orti. Poco prima avevo chiesto alla signora del bar se è contenta di vivere in un luogo di pace come questo. Mi ha risposto che non lo sa, che questi paesi, visto uno, sono tutti uguali. Non è vero. Io, per esempio, ero certa che il posto più taciturno del Sud fosse il paese di mio padre, in Lucania. E invece nemmeno lì ho ascoltato un silenzio come questo. In un’ora di passeggiata, gli unici rumori che ho sentito sono stati: il giro di una chiave nella toppa di una porta, un bidone posato a terra, il mormorio vellutato della preghiera dalla chiesa col portale aperto. E poi grilli, tanti, come ad agosto. Ovunque un odore profondo di terra che arde tra le pietre. Mi è parso di fare un lungo giro, ma ho presto rincontrato il nespolo e il cane, la fontana del Comune, due sedie vuote in mezzo alla strada, con una cassetta di cipolle e una di broccoli sedute sopra.

 

Mi fermo su uno scalino, e penso che il vero talento di un paese come questo è di non averne in fondo alcuno. Non è un posto buono per viverci, ma non abbastanza da lasciarti andare. Va a pezzi e ti addolori, funziona e ti annoi. Fanno bene allora questi vecchi a non desiderare più niente. A valle, in cima, nei campi, nelle strade, nelle piazze, l’onestà del vuoto è radicale. Non è come dalle mie di parti dove i paesi, troppo vicini alle città, sono cafoni vestiti a festa, fieri del parente altolocato che possono raggiungere in dieci minuti d’autostrada. A Corleto, se sei vecchio e ti sei rotto una gamba, a casa resti e a casa muori. Qui le strade sono solo in salita o in discesa, con le pietre lucidate dallo struscio di secoli, senza parapetti né corrimano. È un posto in cui chi è partito da giovane per lavorare non vuole più tornare. Non è più neanche il luogo della maldicenza. Da queste parti l’istante non fugge; manca. Per questo, le poche volte che succede qualcosa se ne parla per giorni. Si può discutere per una settimana intera della gallina di zia Maria uccisa da una volpe, o dal topo entrato in casa del prete. La notizia si interpreta, si personalizza di casa in casa, si ricicla in tutte le versioni possibili. Un po’ come in tempi di carestia, quando non c’era niente da mangiare e si inventavano mille ricette con le bucce delle patate.

 

Gli anziani che abitano questi paesi, in fondo, non hanno storie da raccontare e non ne vogliono sentire. Non parlano più nemmeno dei sindaci che, appena eletti, si preoccupano solo di mettere le fioriere ai balconi e i sampietrini sulle strade. A loro interessa l’ufficio postale, la farmacia, almeno un pronto soccorso, il dottore reperibile h24, la panchina e un loculo assicurato. Non gliene frega niente della nuova insegna del fornaio da cui si affaccia Hello Kitty; anzi, meglio se non c’è più la scritta a pennello e vernice rossa sulla pietra cruda dell’arco, che a loro ricorda solo un tempo di sacrifici e di miseria. A loro piace stare a casa. Si lamentano di non aver mai visto questo o quello, ma se provi a proporgli una gita, ecco un’improvvisa recrudescenza anche delle malattie che non hanno. Vogliono stare da soli a guardare Frizzi e Conti. Alcuni di questi anziani sono capaci di trascorrere su una panchina anche dodici ore al giorno. Il bar al mattino non ha ancora aperto, e loro sono già lì immobili a fissare il sole che gira, la stagione che passa. Puoi passargli accanto come vicino ad un mazzetto di ciclamini nel bosco. Guardano l’orologio solo se devono prendere una medicina. Se escono in piazza non si accorgono dei turisti, non si chiedono più nemmeno a chi appartiene questa o quello. Non hanno voglia di abiti diversi, di facce nuove. Qui non si prende il numero delle presenze, non si firmano quaderni d’ingresso, quelli che ai funerali servono alla famiglia del defunto per vedere chi è venuto e chi no, per poi restituire la visita. Questi paesi sono morti che non si ricambiano.

 

Eppure, tutto questo è parte di una bellezza piena di grazia. Questi paesi hanno la dignità di una resa che non pretende rivincite né rappresaglie. Sono un corpo nudo che vuole tornare terra.

 

Corleto, Roscigno non vogliono più essere abitati. Vogliono che si faccia con loro come con un amico lontano: fermarsi e parlargli gentilmente, almeno una volta.

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