Speciale

Un anno dopo a Gezi Park

16 Giugno 2014

Quando un anno fa, il 15 giugno 2013, Gezi Park è stato sgomberato io ero lì. Non ero il solo. Per più di due settimane, non solo a Istanbul, milioni e milioni di persone si sono sentite unite, non estranee, contro l’abuso di potere del partito che ancora oggi ha la maggioranza: l’Akp. “Come ciechi si toccano ma non sanno di essere fratelli” ho scritto un anno fa in un romanzo chiamato Testimone a Gezi Park. Lo penso ancora. Peccato che i capulcu siano rimasti in pochi. La lotta continua. La lotta si evolve in nuove forme. La lotta, purtroppo, si è fatta violenta.

 



Il muro contro muro con cui si va avanti da più di un anno non ha fatto altro che indurire gli animi e la pelle. Secondo Amnesty sono morte una decina di persone, ci sono stati più di 8000 feriti e più di 5000 persone sono sotto processo (di cui solo una decina poliziotti). Il fatto che a ogni manifestazione c’è il rischio reale di non tornare a casa ha fatto sì che in molti hanno mollato. Del resto la fortuna è cieca e non guarda in faccia nessuno: Berkin Elvan è stato baciato mentre andava a comprare il pane e Ugur Kurt quando andava a un funerale. Se avessi un figlio, probabilmente, avrei lasciato anch’io. Ma io un figlio non ce l’ho e un po’, invece, mi sento figlio di questa rivolta. Per questo, forse, mi sento un estraneo. E mi sento perso in questa civiltà che corre verso il declino e si è scordata dove sarebbe voluta andare, almeno fino a poco tempo fa. No, non era un sogno.

 



Purtroppo la risposta politica, che c’è stata, è stata debole. I nuovi partiti che sono nati anche a seguito dei forum di quartiere, il partito di Gezi e l’Hdp, non hanno saputo attirare su di loro le giuste attenzioni; e i vecchi partiti, Chp e Mhp in primis, non hanno saputo rinnovarsi. In tutto questo sono passate le elezioni amministrative di fine marzo. L’Akp è stato riconfermato ma allo stesso tempo ha perso punti importanti, soprattutto all’est della Turchia dove ora non riescono più a credergli. Sono state delle elezioni particolari, lo ammetto, segnate da felini particolari in grado di tagliare l’elettricità a mezzo paese.

 



Ma lo spirito di Gezi non è morto; tutt’altro, vive in un angolo della coscienza di ogni persona che si è voluta informare, ha partecipato ed è rimasta delusa. Certo, il numero degli indifferenti è altissimo. Com’è alto il numero di quelli che votano per il partito di governo per la paura di perdere o di non trovare un posto di lavoro. Il disastro della miniera di Soma ha rivelato cose che si sapevano già e il prezzo da pagare è stato almeno di 301 vite umane.

 

Gezi Park

Quanto altro sangue dovrà essere versato affinché la gente capisca? Non lo so. Quante altre vittime dovranno essere sacrificate sull’altare dell’indifferenza e della consuetudine? Non lo so. Quanto inchiostro dovrà essere versato ancora su parole che, gorno dopo giorno, si svuotano di ogni significato? Anche questo non lo so. “Io so di non sapere” diceva Socrate. Ma mentiva. Lo sapeva benissimo. Come i capulcu sanno che, eliminati i violenti, devono resistere e continuare civilmente la loro protesta. I fiori che non sono sbocciati questa primavera lo faranno un domani perché i semi di un cambiamento sono già stati piantati. Verrà il giorno in cui tutti, non solo io, non ci sentiremo più stranieri in questa terra. Quel giorno sarà fatta giustizia a tutti i torti subiti.

 



Camus scriveva nello Straniero: “Tutti sono privilegiati, Non ci sono che privilegiati. Anche gli altri saranno condannati un giorno. Anche lui sarà condannato.” Ma per arrivare a quel giorno… ce n’è ancora di strada da fare.

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