Occhio rotondo 16. Guanto

8 Ottobre 2023

Mario Cresci è un fotografo? La domanda non è affatto peregrina se all’inizio degli anni Ottanta Luigi Ghirri gli aveva chiesto a bruciapelo: “Perché ce l’hai con la fotografia?”. La storia l’ha raccontata Cresci stesso in una intervista, dove ha riferito la propria risposta all’amico: “Non ce l’ho con la fotografia, ma il mezzo fotografico per me non è che un pretesto per aprire lo sguardo e soprattutto la mente a nuove ibridazioni e contaminazioni tra i linguaggi dell’arte e della scienza…”. L’intera risposta, alla mariocresci naturalmente, ricca e articolata come la sua arte e il suo pensiero, si legge nella prefazione di Corrado Benigni alla mostra di Cresci Colorland 1975-1983 (catalogo Electa, con un testo di Mauro Zanchi), aperta al Complesso monumentale di Astino, Bergamo. S’intitola programmaticamente: La fotografia come ipertesto. Nel monastero Cresci espone delle sue fotografie-fotografie, dopo che di recente il Maxxi gli ha reso omaggio con un’importante esposizione di fotografie-tavole: Mario Cresci. Un esorcismo del tempo (Contrasto).

Ligure di Chiavari, dopo aver studiato a Venezia, Cresci è vissuto al Sud, a Matera, per oltre vent’anni. Se la mostra nel museo romano ha offerto la possibilità di gettare uno sguardo su quel tempo così importante per Cresci con opere in bianco e nero, quella di Astino espone per la prima vota la sua fotografia a colori, immagini scattate negli anni che precedono il Viaggio in Italia (1984) di Luigi Ghirri & Company, esperienza generativa che ha avuto in Cresci uno dei suoi protagonisti. In un ampio saggio compreso nel catalogo del Maxxi, Marco Scotini scandisce il lavoro di Cresci in tre tempi: il viaggio in Basilicata d’un fotografo che è anche antropologo e artista – meglio: artista-antropologo che usa la fotografia come mezzo privilegiato (1967); cui segue la sua “lunga stazione tra gli indigeni”, i venti e passa anni a Matera come esploratore (sino alla fine degli anni Ottanta); poi la risalita al Nord post-industriale dove, come se fosse appena ritornato da un continente lontano, Cresci manipola il suo materiale di viaggio e lo presenta in libri e varie mostre.

Le foto a colori di Colorland cosa sono? Da quale viaggio esteriore, o interiore saltano fuori? Per capirlo c’è un’immagine presente nella mostra bergamasca, città dove ora Cresci risiede. Forse questa immagine non è la più bella, e forse neppure la più evocativa – le foto di paesaggio presenti nella mostra sono bellissime e riecheggiano, con uno stile tutto proprio, i “maestri” Ghirri e Giacomelli –, ma forse è quella che riesce a fungere da ponte visivo tra il Cresci antropologo della pre-modernità e il Cresci antropologo della post-modernità, fratello ribelle delle neoavanguardie e del concettualismo italiano; una foto come ponte tra l’artista e il fotografo, tra le due identità che convivono in lui. Il guanto operaio è un’immagine realizzata a Matera.

Si tratta d’uno scatto dedicato al lavoro umano; al centro c’è uno strumento, per quanto non si capisca bene se sia una mano guantata oppure no, un oggetto trovato oppure no. È anche appunto un oggetto, uno di quelli che hanno affascinato Cresci e che sono presenti nei suoi tableaux materani. Ovvero una cosa che vive di per sé. Ma questo ritratto è anche un paesaggio, non solo perché il paesaggio c’è, lo s’intravede sotto e dietro al guanto, ma perché somiglia al luogo dove è stato rinvenuto: bianco di gesso, arenaria o pietra, polveroso, simile a una montagna o roccia della Basilicata. È il “pensiero dentro l’immagine”, come Cresci conclude la propria risposta a Ghirri. Ma può benissimo essere anche il suo contrario: “l’immagine dentro il pensiero”. I pensieri visivi di Mario Cresci sono tutte immagini che si trasformano rapidamente in pensieri. Per questo il suo lavoro è così difficile da afferrare; non è solo complesso, per via dell’ostinato ibridismo della sua opera – grafica, pittura, scrittura, eccetera –, ma perché è prima di tutto abitato da un pensiero ossessivo, reiterato, e insieme guizzante come il Pinocchio dei suoi Rayogrammi (Matera 1977), rivisto al Maxxi e incluso nel catalogo di Contrasto.

Cresci non odia la fotografia. Al contrario la ama, come si vede anche in questa bella mostra di Astino. La ama a tal punto da maltrattarla, bistrattarla e persino distruggerla; per farla, poi, rinascere di colpo, quando meno te l’aspetti. Un rapporto complicato che in questa esposizione bergamasca sembra rilassarsi un poco. In queste fotografie Cresci si distende dopo tanti scatti nervosi della sua macchina fotografica. Che pace c’è in questi scatti di Astino, che abbandono al ritmo del paesaggio! L’immagine anche quando è strana – il carro agricolo del venditore di verdure a Melfi (1983), fotografato in diagonale sulla strada, qui esposto – è rilassata, come se questa terra, che sembra sempre fondarsi su qualcosa d’arcaico, non conoscesse alcuno sguardo al di fuori di quel tempo sempiterno. Forse è proprio questo il segreto delle foto a colori esposte ad Astino, e anche delle “tavole” materane del medesimo periodo, quelle che includono tanti oggetti, così diverse.

In un testo di Cresci, citato da Scotini, tratto da L’archivio della memoria (1980) e intitolato L’immagine effimera, l’artista scrive: “La fotografia è anche uno specchio mentale che si riflette in un altro e ancora in un altro sino all’infinito dove non è possibile stabilire la fine”. La frase evidenzia la stretta connessione che esiste nella fotografia di Cresci tra l’elemento temporale e quello spaziale. Se l’elemento nervoso, ossessivo, reiterato della sua arte poggia sull’elemento temporale, sulla sua circolarità (Roberta Valtorta), l’elemento spaziale sostiene e sostanzia il tempo. Lo spazio in queste immagini a colori – il colore è la dimensione emotiva del visivo – si presenta come l’arcaico dell’identico, del sempre uguale: ovvero la fonte della stabilità, proprio come quel guanto che appare consunto, mal indossato e persino incongruo. Tempo e spazio frizionano nelle immagini di Cresci. Per questo lui ce l’ha con la fotografia tout court, con l’infinito istante che curiosamente è anche uno spazio, un piccolo grande spazio.

In copertina Matera, 1983, Mario Cresci ©.

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